1. LA DIVISIONE PERFETTA

E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.
Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’essenza del Cristianesimo

1. L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.
[…]
34. Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.[1]

Così si apre e così si chiude il primo capitolo de La società dello spettacolo di Guy Debord. Libro, a mio parere, illuminante e profetico sui nostri giorni e le modalità di interazione contemporanee. Pubblicato per la prima volta nel 1967 e ancora attuale. Ci aiuterà a tracciare un filo rosso lungo quest’articolo.

L’assunto da cui vorrei partire è l’interazione sempre maggiore che il vino ha con l’immagine, con la sua spettacolarizzazione, con il bisogno dell’immediatezza e la necessità di apparire bello ancora prima di mostrare il suo valore. Il mondo cambia velocemente come velocemente sta mutando la modalità di fruizione dei prodotti e la conoscenza/scoperta di essi. Negli ultimi cinquant’anni ci sono state plurime rivoluzioni nella comunicazione. Per i nostri nonni la conoscenza del vino avveniva nelle osterie, nelle enoteche, nei bar, direttamente nelle cantine. Certo c’era chi già si avvicinava ai grandi vini francesi o cominciava a capire il valore dei grandi vini italiani, ma questa conoscenza era destinata a pochi. Poi la televisione, la pubblicità, i consorzi, le denominazioni, i concorsi, le certificazioni, le gite enogastronomiche… un parlare crescente, insomma, ha generato sempre maggiore cultura del vino, curiosità per nuovi vitigni, interesse per la valorizzazione dell’ingente patrimonio enologico italiano. Il salto triplo carpiato è però avvenuto negli ultimi vent’anni con l’avvento di internet, dei cellulari, della messaggistica inesausta, dei social network, delle nuove piattaforme di acquisto, del boom delle degustazioni, della libertà di tutti di riuscire a parlare ad una platea ampia senza filtri, selezione, curriculum, senza particolare esperienza né cultura.

Le conseguenze sono (state) enormi. Le mode si rincorrono. I gusti si accavallano. È un mare magnum che ingloba tutte le correnti e si fa fatica a restare sul pezzo. Ma più che sul vino in sé vorrei provare a scavare nella sua comunicazione oggi dove pare, spesso, conti più l’immagine che la sua essenza.  Dove sembrano contare, a volte, più gli interpreti che gli autori. Dove la forma sovrasta il suo contenuto.

3. Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza; e l’unificazione che esso realizza non è altro che un linguaggio ufficiale della separazione generalizzata.

4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini.
[…]
6. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto ornamento. Esso è il cuore dell’irrealismo della società reale. Nell’insieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. È l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.

Ancora Debord. Sono passati cinquant’anni, era allora un mondo profondamente diverso eppure, da queste parole, da questa visione, pare che nulla sia cambiato. Anzi, il presente pare la realizzazione compulsiva di quelle intuizioni. Il vino non è che un partecipante della bolgia contemporanea, ma è un prodotto in cui, per varie ragioni, si riversa l’umano nelle più diverse interazioni. C’è un prima e un dopo internet. Prima la conoscenza del vino, e potrei dire anche la sua cultura, passavano tra le pagine dei libri, delle guide, erano legate indissolubilmente allo sforzo di dedicare del tempo a quell’argomento. Con i suoi pro e i suoi contro. Ad esempio le famigerate votazioni ai vini con conseguenti punteggi che determinano l’andamento dei mercati, la domanda dei compratori, il giudizio della massa, il venir meno di un giudizio veramente critico a fronte di molteplici interessi commerciali. Non ne siamo usciti. Il voto, un numero, una bocciatura: sono elementi fondamentali che, come il Padre Nostro, portiamo nel DNA e riconosciamo come dovuti, necessari, compagni di discernimento. Questa logica va però sempre più emancipandosi (non perdendosi) con la sovraesposizione mediatica tramite siti, video su Youtube e, soprattutto, la tentacolare presenza di Facebook e Instagram. Lì si viaggia a diversa velocità. L’approfondimento viene spesso sovrastato dal bisogno della novità. Le logiche di visualizzazione (e dunque del proprio interesse) vengono accolte più che orientate a priori. È l’intelligenza del web che prevede e stravede e ti conosce manco fosse tua madre. Ed ecco su piatti d’argento proprio quello che volevi, a portata di click, di like, di view. E, di pari passo, la possibilità di avere quasi tutto, di rintracciare le rarità, di percepire che non ci sono più segreti e la conoscenza non è che di fronte a noi, a portata di mano.

Partiamo dall’ultimo stadio, dall’ultima (per ora) frontiera: Instagram. Solo foto. Poche minime parole. La cattedrale degli hashtag. La tomba del linguaggio. Eppure è la fonte primaria, il riferimento persino per chi analizza che direzione sta prendendo ora il vino. Io, che di parole ne uso probabilmente troppe, non mi raccapezzo. Pensavo, nel mio impeto tecnologico, che Facebook fosse un ottimo contenitore perché almeno vige la commistione di immagini e parole. Ma è proprio nel marasma di Instagram che la critica pesca e classifica i Wine Influencers. Le nuove persone di riferimento per mode, mercati, trend, modalità di esposizione per il vino. Profili che smuovono le opinioni (sarà vero?). Sta di fatto che le caratteristiche necessarie non debbano essere l’esperienza pluriennale, la cultura personale e la capacità di contestualizzare il vino. Maggiormente fondamentali sono l’estetica della persona, il contesto in cui viene ritratta (perché assieme al vino c’è sempre il protagonista in carne ed ossa), la quantità dei contenuti e la spavalderia nel rovesciare i ruoli (l’io in primis, bagnato di vino). Tralascio tutta la diatriba dei profili fake e delle somme di like comprate tramite bot perché sono solo un’ulteriore deriva vuota.

Mi vorrei però concentrare ora su Facebook, ambiente che conosco meglio in quanto lo frequento spesso. E faccio outing: ho creato il mio profilo circa cinque anni fa per un solo motivo: il vino. No, non sono un’alcolista all’ultimo stadio. Semplicemente l’interesse verso questo argomento era sempre più forte e allora sembrava che le cose accadessero in quella bolla fatta di gruppi, pagine e migliaia di post che raccontavano in tempo reale gli accadimenti. Esserne fuori pareva voler dire non restare aggiornati, perdere il treno, non riuscire a unire velocemente i tasselli. Sia chiaro, non critico lo strumento in sé. Ovviamente ognuno è libero di usarlo come crede magari ricordando sempre a cosa può andare incontro.  E a tutte le conseguenze commerciali e decisionali che ne conseguono.

Limitiamoci intanto a porre sul piatto alcune minime parole di Jean Baudrillard:

È la dimensione virtuale che monopolizza tutti gli altri mondi oggi, che totalizza il reale evacuando ogni alternativa immaginaria. È da quando non hai più un immaginario che continui a produrlo, e da quando è collassato nel virtuale, che il reale è morto veramente.[2]

Personalmente Facebook mi è utile per scrivere spesso di vino e, saltuariamente, di poesia e musica. Ma si sa, se vuoi piacere devi parlare di te, mostrarti, mostrare i tuoi cari, simpatizzare per gli animali, condividere la qualunque, aggiornare lo stato, lasciar respirare la tua intimità, dire banalità e, a volte, dire bestialità per andare controcorrente. Ma andiamo nello specifico. Rimaniamo dentro il vino. Con particolare attenzione al mondo del vino naturale. Si, perché questo è uno dei trend del momento. Dacché erano bistrattati e nonostante non siano ancora legiferati in quanto a definizione, i vini anche detti genuini, vivi, virtuosi godono sempre più di interesse e curiosità. Sono maggiormente ricercati, i prezzi vanno lievitando, le discussioni aumentano così come si stanno acuendo sia i giudizi positivi sia i giudizi negativi. Ed è un po’ assurda tutta questa attenzione verso una nicchia che rappresenta una minima e infinitesima parte del mondo del vino. La realtà è che sono interessanti per più aspetti. Uno è sicuramente il gusto che non lascia indifferenti. Poi ci sono le connessioni con l’agricoltura sostenibile, l’etica, i danni ambientali e via dicendo. Ma soprattutto l’interesse è trasversale perché sanno coinvolgere sia i critici che vogliono approfondire sia gli influencer che vogliono stupire sia gli appassionati che cercano la novità. Spesso i vignaioli sono piccoli e “raggiungibili”. Spesso sono giovani, intraprendenti e creativi. Quasi sempre giocano a dadi con un’estetica moderna, accattivante, tesa a svecchiare una certa solennità. E poi il nuovo linguaggio del vino è la ciliegina su questo movimento che avanza: immaginari hipster, vini freak, estremi, funky, etichette che mischiano politica, ironia, motti, dissacrazione, il tutto traghettato nei modi più svariati. C’è chi cita, recensendo o parlando di un vino, un disco o una canzone, chi usa un libro a mo’ di sostegno concettuale, chi non dimentica mai le statuette dei supereroi, chi accosta foto di qualche primo piano di sé stesso in pose ammiccanti, chi gioca con le luci manco fosse la rappresentazione dell’atomo e chi abbina sempre piatti diversi come nemmeno uno chef di professione saprebbe fare.

Va tutto benissimo. La leggerezza prima di tutto. Però cosa rimane di tutto questo? Quali benefici ha questo tipo di comunicazione? E quali svantaggi e quali limiti?

Si potrebbe rispondere brevemente così: tutto e niente. Ma dietro il linguaggio martoriato, la sovraesposizione e la spettacolarizzazione, le conseguenze delle interazioni non sono comete che passano e poi spariscono dalla visuale.

Zygmunt Bauman, nel suo libro Vita liquida, si addentra nei meandri del contemporaneo provando a definire i cambiamenti in cui siamo coinvolti:

La “sindrome consumistica”, cui la cultura contemporanea si abbandona sempre più, è incentrata su un netto rifiuto del valore della dilazione, del “rinvio della soddisfazione”, su cui si fonda la “società dei produttori” o “produttivista”. Nella gerarchia ereditata dei valori autorizzati la “sindrome comunista” ha detronizzato la durata in favore della transitorietà e ha posto il valore della novità al di sopra di quello della durata.
Sarebbe naturalmente ingiusto e imprudente attribuire la responsabilità della situazione in cui si trova oggi la creazione culturale solo ed esclusivamente all’industria dei consumi. Quell’industria è ben inserita nella forma di vita che chiamo “modernità liquida”. Entrambe si trovano in sintonia reciproca e rafforzano vicendevolmente la presa delle scelte che gli uomini e le donne del nostro tempo possono realisticamente fare. La cultura liquido-moderna non si considera più una cultura dell’apprendimento e dell’accumulazione, come le culture descritte negli studi storici ed etnografici. Essa appare piuttosto una cultura del disimpegno, della discontinuità e dell’oblio.[3]

Queste parole, per me, mostrano il Grand Canyon del digitale che divide la leggerezza prima citata (con tutto l’alone di positività e spensieratezza che porta in dote) e la superficialità (intarsiata di finta concentrazione, impegno fugace, volontà mascherata di mostrare più che di dire). Sarebbe semplice e bello citare sempre la libertà di utilizzo con cui molti si riempiono la bocca.

Ma cosa comunichiamo veramente? E cosa decidiamo veramente noi di comunicare?

Justin E.H. Smith nel suo recente libro Irrazionalità. Storia del lato oscuro della ragione, getta sul piatto qualche pensiero attorno a questo:

La nuova libertà di parola è libera, inoltre, solo nel senso che sembra fluire direttamente dal desiderio del parlante (o scrittore o tweetatore). Una volta espressa, tuttavia, è incanalata da algoritmi segreti (sui quali, ancora una volta, non abbiamo preso alcuna decisione collettiva e in relazione ai quali non abbiamo alcuna supervisione) lungo percorsi in cui è praticamente garantito che non porterà più luce, umana o divina, a nessuno a proposito dell’argomento in questione. Servirà solo a rafforzare la solidarietà di gruppo di una comunità online, o ad avvicinare e attaccare un estraneo a quel gruppo, di solito tramite argomentazioni ad hominem, e nella totale ignoranza degli sforzi compiuti da diversi millenni per definire le regole per evitare gli errori nel nostro modo di ragionare e comunicare.
Il discorso online si sente libero, nella misura in cui è gradito all’individuo che lo produce, ma è più o meno incanalato lungo il cammino della ricerca dei like, oppure verso quello dell’offesa.
[…]
Come ha scritto il critico Mark Fischer, questa cultura è «spinta dal desiderio pretesco di scomunicare e condannare, dal desiderio accademico-pedantesco di essere il primo a individuare un errore e dal desiderio hipster di essere tra la “gente giusta”»[4]

Una fotografia perfetta. Dove il vino è uno status symbol svincolato dalla sua effettiva bontà. Spesso idolatrato se destinato a pochi per il prezzo o esaltato se il suo nome è arcinoto, nei vini convenzionali. E spesso venerato se particolarmente frikkettone, esplosivo nel gusto, vestito con etichetta sgargiante e dissacratorio nella sua anima, per quanto riguarda i vini naturali.

Mostrando la libertà che diventa necessità indotta di essere al posto giusto con la gente che piace. Magari perdendo di vista cosa piace veramente. Non è infatti possibile sperare di vincere facile sull’influenza dei media verso i propri gusti. E chi crede di riuscire a influire, portando sé stesso, aspirando ad essere influencer, è probabilmente poco più di un prodotto a sua volta influenzato. Un cane che si morde la coda. Un innamorato del proprio sequestratore come da perfetta Sindrome di Stoccolma. Perché la verità è che è arduo restare illesi in questo flusso inesausto.

Jean-François Marmion ha curato recentemente una raccolta di saggi sul tema della psicologia della stupidità e uno degli scritti è I social media stupidi e malvagi di François Jost che, in un passaggio, dice:

La stupidità, quindi, è caratterizzata da forme di narcisismo e autoinganno che si rafforzano a vicenda e contribuiscono a diffonderla meglio nella popolazione. Essa beneficia sempre della sicurezza, che indica un eccesso di fiducia in sé stesso dello stupido, e prevale necessariamente su qualsiasi manifestazione di prudenza e rigorosità in un ambiente in cui tutti convengono che la conoscenza sia soprattutto una questione di intuizione e «sincerità». Insomma, chi alza più la voce e parla con più «convinzione» e «passione» passa per quello che ha più cose da dire e diventa il più ascoltato.
Eppure non tutte le stupidità sono uguali. In questo ambito la competizione si fa accanita e persino gli imbecilli devono trovare il modo di distinguersi dagli altri imbecilli. E qui viene a galla il fenomeno più inquietante: la stupidità che cerca di farsi passare per intelligenza. Lo stupido, sicuro di sé, presenta le proprie idiozie come perle di saggezza, osservazioni inedite dovute a profonda riflessione, e naturalmente ci tiene a essere preso sul serio. Una delle sue trovate è il ragionamento fantasma: invece di ragionare veramente per giungere a una conclusione, parte dalla conclusione, per “truccare” il ragionamento che gli permetterà infallibilmente di arrivarci. «La stupidità consiste nel voler giungere a conclusioni», diceva Flaubert»[5]

Frequentando molti gruppi sui vini (come su qualsiasi altra questione) è facile capire che anche se ogni gruppo ha un tema portante, una linea comportamentale, regole diversificate e un immaginario dissimile, le modalità di interazione sono le stesse. Proviamo ora a ricavare dal magma i comportamenti rituali che bisogna conoscere per non soccombere o, meglio, per essere protagonisti nel sistema. E lo dico senza velleità universali, ma perché queste frequentazioni online mi ricordano molto quando da piccoli si facevano le bande, ci si univa in branchi, ci si sentiva forti basandosi di più sull’essere stronzi che esempi.

Si inizia con i ringraziamenti per l’ammissione, a volte dovuti o agognati, come se si trattasse di una loggia piduista. Il passo successivo è capire dove va il gregge e provare a seguire un po’ la corrente così da rendere personale l’obiettivo del gruppo. Sentirsi parte, uniti per uno scopo, quasi in missione (non importa se il fine riguarda un numero di persone limitatissimo o un argomento di infima importanza). Da qui la triplice scelta: umile spettatore silenzioso, rispettabile creatore di contenuti sulla falsariga di quelli esistenti o provocatore ad libitum. Sono tutte e tre figure fondamentali nell’ecosistema di un gruppo che “funziona”. Chi è più sottomesso e mima l’altrui comportamento, assestandosi sulla stessa linea, cerca ovviamente facile approvazione e consenso immediato. Raramente sposta l’ordine delle cose. Chi vuole prevalere può optare per cercare disapprovazione e creare un po’ di hype attorno al nulla oppure enfatizzare oltre misura ciò che già tutti sanno. Una sorta di alzare la voce senza alcun motivo tranne l’autoincensamento. Le modalità sono spesse legate all’uso di stereotipi e slogan propagandistici. Le parole chiave (ricorsive), le etichette, l’incasellare un commento dentro la zona comfort di un giudizio deciso a priori dal popolo/gruppo. Figure sacre in questi ambienti sono poi i moderatori. L’avere un minimo di potere legislativo tira spesso fuori il leone che c’è in ognuno di noi. E sono azioni da circo, sberleffi, accuse, a volte offese. Fondamentali le offese. Aiutano a creare l’immagine autoritaria del sergente di ferro tanto cara a molti. E ovviamente a creare una caccia alle streghe, con tanto di colpevoli individuati, esclusi e perculati, bloccati e messi alla berlina per qualche peccato. Tutto questo solitamente non avviene dopo confronti di un certo spessore ma dopo post striminziti, commenti colmi di banalità ridicole, risposte che semplificano invece che argomentare, il tutto all’insegna di una genericità figlia della velocità e dell’attimo.

Da fuori, ogni gruppo FB, è un vero e proprio stadio che ricrea l’odissea delle tifoserie. Non sarebbe un problema se si prendesse la questione nella sua finitudine. E, ovviamente, ci sono anche aspetti stimolanti e positivi nella frequentazione di questi gruppi. Ma è evidente come sempre più persone consegnano il proprio tempo a questo microcosmo pensando di essere protagonisti mentre quasi sempre si è vittime di modi per farci ingabbiare più che progredire. E consegniamo le nostre passioni al gioco meschino del tritacarne mediatico. Così il vino, nello specifico, diventa alibi, comprimario, satellite, mera giustificazione. Parrebbe dunque sano non affidare tutta la baracca ai social eppure è questo il Canale di Suez della comunicazione. Da qui bisogna passare. E la domanda rimane: stiamo migliorando l’informazione? Sta aumentando di valore la comunicazione del vino?

Consumare ed eliminare, senza assimilare. Questo credo sia l’assunto primario imperante. E non ci sono santi né madonne che riescano a rendere ineludibile la presenza di tale processo. Il che riporta ogni considerazione assoluta a semplice tassello. E lo stesso marketing social in gran fermento induce a pensare se stiamo bevendo ciò che vorremmo o ciò che ci arriva addosso.

Carmelo Bene, in tempi non sospetti, sosteneva che:

Le masse devono capire che non sono più loro a fare acquisti, ma esse stesse ad essere acquistate. Non ci sono più consumatori, ma consumati.

E ancora prima, nel 1895, Gustav Le Bon, nel suo La psicologia delle folle, scriveva:

Studiando l’immaginazione delle folle, abbiamo visto che le folle sono impressionate specialmente dalle immagini. Se non sempre si dispone di queste immagini, si può evocarle adoperando con giudizio parole e formule. Adoperate con arte, possiedono davvero il misterioso potere che, un tempo, loro attribuivano a quelli che si intendevano di magia. Provocano nell’anima delle moltitudini le più terribili tempeste, e sanno anche calmarle. Si potrebbe innalzare una piramide più alta di quella di Cheope soltanto con le ossa delle vittime del potere delle parole e delle formule.
Il potere delle parole è legato alle immagini che evocano, e completamente indipendente dal loro reale significato. Talvolta le parole più mal definite, sono quelle che fanno più impressione. Come, ad esempio, le parole: democrazia, socialismo, eguaglianza, libertà, ecc. il cui senso è così vago che non basterebbero dei grossi volumi a precisarlo. E tuttavia alle loro sillabe è unito un magico potere, come se contenessero la soluzione di tutti i problemi. Queste parole sintetizzano diverse aspirazioni incoscienti e la speranza della loro realizzazione.[6]

Discorso ripreso di recente da Byung-Chul Han, filosofo e docente sudcoreano, nel suo volume appena edito Nello sciame, visioni del digitale, dove scrive:

la nuova folla si chiama sciame digitale e ha caratteristiche che la differenziano radicalmente dal classico schieramento dei molti, vale a dire dalla folla.
Lo sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima, uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è composto da individui isolati. La folla è strutturata in modo totalmente diverso: ha caratteristiche che non vanno attribuite ai singoli. I singoli si fondono in una nuova unità, all’interno della quale non dispongono più di un proprio profilo. Un assembramento casuale di uomini non costituisce ancora una folla: ciò avviene soltanto quando un’anima o uno spirito li saldano in una massa omogenea, in sé chiusa.
Allo sciame digitale manca l’anima della folla o lo spirito della folla: gli individui che si uniscono in uno sciame non sviluppano un Noi.
Gli individui digitali si raggruppano occasionalmente in assembramenti, come per esempio gli smart mobs. Tuttavia, i loro modelli collettivi di movimento sono, in analogia con gli sciami costituiti da animali, assai fugaci, instabili e contraddistinti dalla volatilità. Inoltre, spesso agiscono in modo carnevalesco, scherzoso e disimpegnato. In questo lo sciame digitale si differenzia dalla massa classica[7]

Tutte queste parole portano a pensare veramente quale confronto sia possibile online. Ma non solo al livello degli appassionati. Io credo che non sia un caso che le definizioni e le pratiche biologiche e biodinamiche nel vino siano legiferate e accettate mentre il movimento del vino naturale, più giovane come teorizzazione, manchi ancora di un disegno preciso, avvalorato, valorizzato e condiviso. Questo fermento del vino così denominato ha subito e sta subendo una escalation anche aiutato dal chiacchiericcio della rete, oltre che dalle fiere e dai vignaioli in primis. È un movimento di pochi che sta crescendo ma le cui difficoltà di visione e unione potrebbero essere dipese anche dalla complessità nel creare una massa unita. In questo i social sono lo specchio e lo strumento perfetto. Da un lato mostrano come ognuno voglia dire la sua, ponendosi su diversi piedistalli e dall’altro fomentano il battagliare, la disunione, la reiterazione degli scontri per alimentare la polemica necessaria alla sua logica d’esistenza. A volte mi fermo e penso a questi due estremi: l’ipotesi di verità, onestà e chiarezza di questi vini genuini e le lotte intestine che perdurano tra movimenti e sotto movimenti. E penso poi alla facilità di comunicazione, dettata appunto dai social, che azzera le distanze in certi frangenti ma crea altre distanze, diverse, forse più difficilmente esplicabili e risolvibili proprio perché insite al meccanismo che le regge.

È per questo che vorrei sottolineare come sia necessario, sempre e comunque, l’impegno. Ci sono vari modi di scrivere un post e ci sono vari obiettivi per uno scritto sui social. Se l’intento è apparire o essere un semplice ingranaggio passivo, nessun problema come pure nessuna aspettativa “alta”. Ma può esistere anche un altro intento, per lo meno ogni tanto. La voglia, la dedizione di non cedere alla riduzione degli spazi di scrittura e delle possibilità di approfondimento, tipica del sistema della spettacolarizzazione. Alcuni luoghi comuni accelerano sicuramente il gradimento, la popolarità, l’incremento dei followers. Popolano i social, ad esempio, alcune donne (assai meno gli uomini) che postano un calice che ha loro come protagoniste, spesso a casa, vestite di tutto punto, truccate con rossetto, occhiali da sole, vestaglie e magari in pose equivoche, allusive o ammiccanti. E qualche nota di degustazione dal sapore di minestra riscaldata. Nulla di male. I risultati sono valanghe di like, con alcuni uomini che si dilettano tra ironia e complimenti e alcune donne divise tra solidarietà femminile e scandalo per l’indegna svalutazione del proprio corpo per meri fini d’apparenza. È tutto così telecomandato e scontato che sembra un eterno loop temporale in cui sembra di rivedere sempre le stesse scene con le medesime conseguenze. Da parte mia nessuna condanna a questo, solamente la certezza di come i social affossino di frequente il movimento esistenziale che promettono. In moto continuo, scrollando senza sosta, con una moltitudine di finestre sul mondo e così poca vista, così poco orizzonte, fermi più di prima, sia fisicamente sia mentalmente, dentro un recinto che non crediamo sia reale. 

Mi scuso anch’io che tento questo approfondimento. Tedioso, per certi versi. Certamente sono e sarò prolisso. E spesso mi sono sentito dire che scrivo troppo per i criteri di appeal su FB. Quindi nemmeno il mio pormi in antitesi a cosa sia “giusto” è chiave di volta. Ma sarò testardo e un po’ sognatore e la penso come Marcuse quando ne L’uomo a una dimensione scrive:

Non è l’ambito delle scelte aperte all’individuo il fattore decisivo nel determinare il grado della libertà umana, ma che cosa può essere scelto e che cosa è scelto dall’individuo.
Il controllo viene esercitato da tale linguaggio mediante la riduzione delle forme linguistiche e dei simboli usati per la riflessione, l’astrazione, lo sviluppo, la contraddizione mediante la sostituzione di immagini a concetti. Esso nega o assorbe il vocabolario trascendente; non cerca ma stabilisce ed impone verità o falsità.[8]

Quest’ultimo aggancio mi porta a parlare di alcune persone che sono oramai personaggi più o meno noti, nello spazio ampio offerto dai social. Perché è lampante la parte positiva della questione quando si trovano altri utenti che offrono il loro sapere fuori dagli schemi, stimolano con la loro curiosità mai scontata, donano il cuore senza la necessità di essere ripagati. Penso per esempio a Vittorio Rusinà, dell’edicola Cavoretto a Torino, faro sempre attivo nel segnalare articoli di qualità, produttori sconosciuti, approfondimenti originali. Penso a Maurizio Pratelli, giornalista e scrittore, autore di tre bellissimi libri su Vini e Vinili, mai domo nel ricercare connessioni emozionali tra la verità e la profondità di alcuni vini e di alcuni musicisti/dischi. Penso a Gae Saccoccio, curatore del sito www.naturadellecose.com nonché socio della Rimessa Roscioli, locale di culto per il buon bere a Roma e instancabile segnalatore di cibi dimenticati, tradizioni culinarie, microproduzioni gastronomiche e vini/vignaioli incrociati su e giù per lo stivale.

Penso poi ai fondatori di alcuni gruppi particolarmente attivi nel raggruppare lo scibile di questo mondo: Vini Naturali, Vini Artigianali Naturali, Be.Vi.Amo Naturale, Sommelier: appunti di degustazione, Resistenza naturale: appunti di macerazione e rivoluzione, Vino che Passione, Vini da condividere, La pagina del Sommelier, Confraternita del Vino Naturale e molti altri. Tutti dediti alla causa, con ardore ed esemplare dedizione. Con le dovute differenze tra gruppi più generalisti e gruppi più focalizzati su precise filosofie/agricolture.

Ho chiesto ad alcuni di loro qualche ulteriore considerazione attorno a queste interazioni digitali, per accendere qualche altra luce nella labirintica galassia dei post e dei like sul vino.

Gae Saccoccio pone l’accento sull’attenzione da monitorare, la lucidità del proprio operato e la coscienza dei processi digitali:

«Di questi tempi, spesso non a torto, tendiamo a demonizzare la comunicazione digitale che per sua natura prevede lettori sempre più distratti e comunicatori (anche i più coscienziosi), adeguati a un modello altamente efficiente di massimo dell’informazione in un minimo di spazio/tempo.

Dovrebbe essere obbligatorio usare (mai abusare) la comunicazione con la maggiore libertà espressiva, possibilmente con la premura, l’amore di “pensare alle cose per ciò che esse sono”, come scriveva Virginia Woolf nel suo memorabile Una stanza tutta per sé. Certo, siamo lontani anni luce dalla stanza tutta per sé della scrittrice inglese, ora ci sono semmai le chat room nei social network che all’apparenza sono affollatissime di opinioni tendenziose, nidificazioni di commenti aggressivi, polemiche del giorno gratuite, visioni del mondo che si riducono quasi sempre a stereotipi o a idee grossolane di seconda o terza mano. Pretendiamo tutti di esprimere i nostri “liberi pensieri in un mondo libero”, urlando a squarcia gola da una bacheca proprietà privata di qualche ultra-miliardario della Silicon Valley.

Il problema centrale della comunicazione in generale attraverso i social e nello specifico della comunicazione del vino, sono le polarizzazioni ben poco costruttive tra buoni/cattivi, belli/brutti, naturali/convenzionali. Disinformazione a tappeto, informazione sciatta, manipolazione delle coscienze, falsificazione dei fatti, superficialità di sistema, assenza di contenuto… questi sono solo alcuni tra i giganteschi ostacoli da superare oggi per riorganizzare un ecosistema della comunicazione ad un superiore livello di profondità del sapere e qualità dei contenuti. Oggi è necessario come il pane che la diffusione orizzontale delle conoscenze sia condivisa tra la maggior parte delle persone in barba ai pregiudizi costruiti ad hoc dalla Rete. Sarà cioè sempre più vitale mantenere alta l’asticella dello spirito critico in aperto contrasto agli algoritmi faziosi che vorrebbero sostituire le nostre coscienze autonome e pensanti. Insomma, non dobbiamo mai tenere spenta la guardia dell’attenzione, bisogna evitare di farci narcotizzare le coscienze dall’industria dei Like. Dobbiamo aver fede nelle nostre coscienze insostituibili da qualsiasi Intelligenza Artificiale generata dalle macchine che a loro volta sono pur sempre generate da noi, potenzialmente per aiutarci a vivere meglio e non – si spera – per accelerare il processo della nostra autodistruzione.»

Guardingo e sibillino è poi Maurizio Pratelli che sintetizza così:

«Personalmente penso che i social, al netto dei fanatismi, siano comunque un canale inevitabile per il confronto e anche per il racconto. Come tutte le cose si necessita di alcuni strumenti per poter filtrare le informazioni. C’è il rischio che l’informazione venga inquinata dalla moda del naturale. E distinguere è sempre più difficile.»

Amaro e diffidente per le difficoltà connesse è Marcello Roversi, moderatore del gruppo FB Vini naturali, attualmente il gruppo con più iscritti interessati a questa tipologia di bevande:

«Per me una grandissima piaga che collega il mondo dei social a quello del vino è la mania di protagonismo. Dei produttori, che sono costantemente presenti su Facebook, a qualsiasi ora e in qualsiasi periodo dell’anno (dove poi trovino il tempo di lavorare è un mistero) e dei consumatori, sempre pronti a credere a qualsiasi cosa gli venga raccontata (biodinamica in primis) perdendo qualsiasi capacità critica. Facebook potrebbe essere un mezzo utilissimo se non fosse popolato da uomini avidi di consensi e di soldi.»

Ci sono poi i vignaioli maggiormente social. Sempre a disposizione per chiarimenti, volenterosi nello spiegare i processi di vinificazione, battaglieri nel difendere le loro scelte o filosofie, intraprendenti nei tentativi di veicolare i propri prodotti. Per alcuni utenti questa inesausta esposizione mediatica va di pari passo con un eccesso d’ego o fa emergere dubbi sul tempo speso in vigna e in cantina. Per altri appassionati questa assenza di distanza nel rapportarsi al vignaiolo è sinonimo di fiducia, di trasparenza, di voglia di credere fermamente in questo nuovo movimento. Tra i vignaioli che più si espongono ce ne sono di almeno due categorie: chi affida la sua volontà di condivisione e comunicazione a pagine scritte, stampate, e poi prosegue alcuni discorsi online, e chi si dedica esclusivamente alla scrittura/rappresentazione digitale.

Della prima categoria fa sicuramente parte Corrado Dottori, vignaiolo a Cupramontana, nelle Marche, autore di ben due libri in cui si scava nelle scelte di vita e di vigna con lancinante sincerità, azzerando ogni lontananza. Già i titoli accennano a cosa andremo incontro leggendoli: Non è il vino dell’enologo. Lessico di un vignaiolo che dissente, del 2012 e Come vignaioli alla fine dell’estate. L’ecologia vista da una vigna, edito da DeriveApprodi nel 2019.

Certo, questi sono libri cartacei che esulano dall’argomento social. Ma in realtà sono profondamente connessi e sono delle pietre di paragone che fungono da trampolini per discorsi poi ampliati sui social, come Corrado Dottori fa sul suo blog http://ladistesa.blogspot.com/ o sul suo profilo Facebook.

Tra i vignaioli naturali più attivi nel solo ambito digitale i primi nomi che mi vengono in mente nell’ambito del vino naturale sono Nicola Gatta, Luca Elettri, Leonardo Cossi e Jacopo Fiore. Alcuni si avvalgono della rete per innumerevoli iniziative di comunicazione e marketing (l’ultima, la più chiacchierata, il progetto “Bevitori Mega” di Nicola Gatta). Altri alternano riflessioni sull’agricoltura ad atteggiamenti scanzonati. E qualcuno non si fa quasi mai sfuggire i confronti e gli stimoli che emergono, non tanto attorno ai suoi vini quanto sui mille aspetti inerenti a questa filosofia di produzione. Penso a Luca Elettri, ex grafico, ora viticoltore dalla grande passione, a cui ho chiesto cosa ne pensasse di questo argomento:

«I social, o meglio, la rete in generale da quando esiste internet, hanno occupato lo spazio principale dell’informazione socialmente condivisa, più o meno ufficiale, in qualsiasi ambito, vino compreso, rendendo estremamente democratica la conoscenza. Il vino ne sta giovando tantissimo. La diffusione di informazioni e immagini, una volta elitarie, di vini poco conosciuti e diffusi, ma ancora più, la possibilità di vedere, leggere e ascoltare persone appassionate, esperte e preparate, sta stimolando una ricerca e un approfondimento mai visti prima in ambito vitivinicolo. Evidentemente la rete rimane solo uno strumento, come tale non sempre vede gli approfondimenti sul vino come fine, spesso, troppo spesso, l’obiettivo è molto meno nobile e condivisibile, ma non credo che questo scalfisca minimamente la forza dirompente della passione che anima la vita e il mondo intero, quindi vino compreso. Oggi le informazioni più stimolanti sono i confronti sulle categorie, esercizio purtroppo avvilente se indirizzato a una semplificazione, o scorciatoia alla conoscenza, interessante invece se orientato a individuare percorsi nuovi e curiosi.»

E si torna al principio, chiudendo il cerchio con il caro Debord che non smette di essere faro nel buio:

“10. Il concetto di spettacolo unifica e spiega una gran diversità di fenomeni apparenti. Le loro diversità e i loro contrasti sono le apparenze di quest’apparenza socialmente organizzata che dev’essere essa stessa riconosciuta nella propria verità generale. Considerato secondo i suoi veri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come semplice apparenza. Ma la critica, che coglie la verità dello spettacolo, lo scopre come la negazione visibile della vita; come negazione della vita che è divenuta visibile.

13. Il carattere fondamentalmente tautologico dello spettacolo, deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono nel contempo anche i suoi scopi. È il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Esso ricopre tutta la superficie del mondo e si bagna indefinitamente nella propria gloria.
14. La società basata sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, essa è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in sé stesso.
[…]
19. Lo spettacolo […] non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. È la vita concreta di tutti che si è degradata in un universo speculativo.
[…]
33. L’uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato dalla propria vita.

Verbosità canaglia. E io che amo la poesia scordo il potere sovrano della sintesi. Come, ad esempio, in questo testo di Bartolo Cattafi, dal suo meraviglioso libro L’osso, l’anima (1964), in cui tratteggia un piccolo universo non lontano dalla bolla dei social:

Un’area molto estesa
nel tempo e nello spazio.
Ebbe feste, bandiere,
usi e costumi rilassati,
abitanti abili
dediti a commerci redditizi,
mercanti, meretrici, giocolieri.
Nazione di losco splendore
fu sempre amata dall’intimo dell’anima
per la pronta destrezza, l’ingegno
perverso, l’impossibile
ingresso nel suo cuore[6]

Ma suvvia, l’Italia è il Festival di Sanremo, che nemmeno il Covid 19 può fermare, perché regala la speranza sulla scia della mai deposta canzone leggera. E tutti questi ragionamenti, queste tensioni mentali, queste profezie agonizzanti che dicono della società non ci devono spaventare.

Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone
Ma non abbiamo più contatti, soltanto like a un altro post”[7]

Tanto ci basta. Fino al prossimo respiro. Per molti. Non per tutti.
Veniamo al dunque, alla ciccia o, meglio, al succo. Concludiamo in bellezza.

Tre vini. Tre approcci diversi all’esposizione mediatica. Tre modalità di comunicazione differenti. Nicola Gatta, iperattivo vignaiolo che spopola su Instagram e traccia nuove strade con le sue bolle nell’area del Franciacorta. Nicolas Joly, uno dei primi comunicatori a livello mondiale nell’ambito dell’agricoltura biodinamica, prolifico scrittore oltre che vignaiolo guru, nonché protagonista di alcuni dei maggiori documentari nell’ambito del vino naturale. E poi Andi Fausto, un pensatore libero dell’Oltrepò Pavese, al di fuori della comunicazione, al di fuori dei social, al di là del tempo. Vini dal tratto profondamente identitario, spesso lavorati a botte scolma (ovvero con la botte non completamente colma affinché una parte rimanga più a contatto con l’ossigeno e conduca a vini ossidativi). Indelebili. Veri fino al midollo. Così fuori dagli schemi da fondare un laboratorio (denominato Fuori dalla mischia) per aiutare persone con diversamente abili che collaborano alla creazione delle sue etichette. E una frase, riportata in ogni suo vino: “Tu fai … e lasciali parlare”.

Nicola Gatta – 5.15 Nature 36 lune

Nicola Gatta è sempre più uno dei nomi di riferimento della zona che si identifica con i Franciacorta. E lo è anche al di fuori dei vini naturali e/o biodinamici. Certo la sua attenzione è verso queste modalità di agricoltura e vinificazione ma le sue bollicine oramai sono apprezzate da chi non compra solo in base alla definizione. E qui nasce il problema, per gli appassionati, perché le bottiglie non sono poi molte, finiscono in fretta e i prezzi lievitano. Personalmente avevo bevuto gran parte della sua gamma e mi erano piaciuti i suoi vini. Ricordo con piacere anche Febo, il suo macerato bianco fermo. Devo dire però che la scintilla di pura emozione non era ancora scattata. Fino a quando non ho bevuto questo 5.15 Nature 36 lune con sboccatura nel 2018. Si tratta in sostanza di Pinot Nero in purezza, affinato in botte scolma. Una sorta di metodo Solera che raggruppa parti di 10 annate dal 2005 al 2015 contenute in tonneaux appunto scolme. Imbottigliato e sboccato dopo 36 mesi sui lieviti. 930 bottiglie.

Eclatante. Una torre di Babele. Ha molte componenti all’apice del loro carattere e maestosità. Acidità, intensità, freschezza, una carezza ossidativa, una bollicina elettrica e finissima. Emozione liquida che scuote la mente mentre vaga alla ricerca di appigli. E si perde tra un agrume che si spancia nel divano e si adagia finissimo mentre la frutta secca si scatena sulla pista da ballo. E attorno sono fiori bianchi, aria pulita e, scaldandosi nel calice, pure frutta candita, lievissime note ferrose, noce moscata. Sono sensazioni non nette ma più che altro visioni per provare a restituire la complessità della bevuta che esula totalmente da alcuna difficoltà. Non si smetterebbe di berlo. Per me un nuovo punto esclamativo tra le mie bollicine di riferimento.

La cantina Nicola Gatta si trova a Gussago, in provincia di Brescia. I vigneti crescono su terreni calcarei, sui 400 metri s.l.m. Agricoltura biodinamica. Fermentazioni spontanee. Lieviti indigeni. Nessuna chiarifica né stabilizzazione. Nessuna aggiunta di solforosa.

Nicolas Joly – Les Vieux Clos 2015

Nicolas Joly è una delle persone più note quando si parla di vini naturali e/o biodinamici. Uno dei primi a credere nel vino naturale, creando informazione, cultura e pure marketing attorno ad esso. Dai primi anni 80 applica i principi della biodinamica nei suoi vigneti usando tisane per il terreno, pecore che pascolano tra le vigne e letame da una piccola mandria di mucche. Al di là del personaggio sono i vini a parlare. Chenin in purezza per ottenere tre vini diversi. Questo Les Vieux Clos non è l’apice della sua produzione ma un ottimo comprimario. Morbido ed elegante. Erbaceo. Fieno e fiori secchi. Camomilla e miele. Aprendosi sembra riprendere maggiore vita e una lieve acidità. Sicuramente un ruolo importante lo svolge la frutta secca (soprattutto nocciole) che si stringe al marzapane, ad un caramello soave e pure a susine soffuse ed eucalipto. È un passo di danza in una chiesa. L’incenso riempie l’atmosfera. Ha un che di spirituale. Se devo dirla tutta un vino che mi ha più affascinato che proprio stregato. Personalmente non uno di quei vini per i quali la bocca e il corpo gioiscono per la bevuta ma un vino capace di ammaliare la mente. Chissà, forse incide la notorietà del produttore nel giudizio. O magari è stato solamente aperto troppo giovane. Ma la sensazione che personalmente rimane ruota attorno alla tecnica e alla filosofia più che all’emozione. Per dirla in altri termini è un po’ l’AstraZeneca di turno: un vaccino essenziale, uno dei migliori, impossibile da ignorare ma su cui qualche dubbio (probabilmente ingiustificato) permane.

Per la cronaca siamo in Loira e si tratta di Chenin in purezza. Suoli scistosi. Vigne di circa 30 anni. Rese sui 35 q/ha. La vinificazione prevede pressatura soffice, fermentazione spontanea e affinamento per otto mesi sulle fecce fini in doppie barrique usate di rovere.

Andi Fausto – Poderosa 2014

Andi Fausto è l’esempio perfetto di come eludere gli inevitabili meccanismi contemporanei e uscirne vincitore. Marketing: zero. Comunicazione social, di qualsiasi tipo: zero. Rincorsa alle mode che si accavallano (orange, rosati, rifermentati, ecc.): zero. Volontà di appartenere a qualche categoria/filosofia/pratica: zero.

È un cavallo libero che corre solitario. E dalla sua ha l’ingegno dei grandi, l’intuizione dei fini osservatori e la pazienza dei saggi. Ma non solo è una monade del mondo del vino convenzionale, ma pure del vino naturale. Crede nell’agricoltura biodinamica ma ha scelto di estremizzarla togliendo anche il rame e ammettendo in vigna l’utilizzo di soli microrganismi effettivi, alghe, macerati e idrolati. È uno dei pochi che lavora quasi tutti i suoi vini a botte scolma. Fa uscire alcuni vini anche dopo dieci/quindici anni dalla vendemmia. È disposto a stravolgere totalmente le sue idee se l’andamento climatico fa il matto.

Un esempio sfavillante è appunto questa Poderosa del 2014. Barbera in purezza vinificato in bianco. Per lui, fermo sostenitore dei vini rossi e dei lunghi invecchiamenti, una rivoluzione. Quell’annata non si vide il sole e le piogge furono abbondanti. Dunque, un mese prima della piena maturazione, la raccolse per spingere sull’acidità, non puntando sulla macerazione e la conseguente estrazione dei tannini.

Il risultato è un unicum che non ammette ripetizioni, un colpo di genio difficilmente replicabile ma indelebile nella memoria. Bevo molti vini e, quasi sempre, di buona/ottima qualità. Nella mischia ci sono però alcune gemme che si differenziano nettamente dalla massa e brillano di una luce così originale da non avere un prima e un dopo di riferimento.

Oggi questo vino è molte storie assieme. La parte ossidativa è presente ma delicata e in completa armonia con l’acidità della Barbera, anch’essa protagonista assoluta. Le impressioni viaggiano agli antipodi: fichi d’india, alghe, susine surmature, miscugli salmastri ed erbacei, sigaro e mapo, miele di tiglio, pinoli, alloro. Ma emergono poi visioni assurde in testa: tamarindo flambé, arance candite in balia di un ballo caraibico, eucalipto in tuta mimetica, una resina leggiadra, un viaggio ai tropici in una bolla d’incenso.

Per certi versi un bicchiere basterebbe talmente tante sono le vicende che contiene. Ma è pur vero che finito il calice il corpo chiede di essere ancora inebriato.

Rimane, in tutto e per tutto, un vino luminoso, scintillante. Di una pulizia e di un’eleganza originale. A suo agio nei giorni successivi all’apertura, in cui l’acidità mitigata concede ancora più godimento grazie ad una morbidezza deflagrante. All’interno di una forma ossidativa raramente così controllata. L’infinità e oltre, nel ventre del respiro del tempo che si fa eterno. Per distacco, una pietra miliare.


[1] Guy Debord – La società dello spettacolo (Buchet/Chastel, 1967, trad. Pasquale Stanziale, Massari Editore, 2002)

[2] Jean Baudrillard, Philippe Petit – Paroxysm: Interviews with Philippe Petit (Verso Books, 1998)

[3] Zygmunt Bauman da Vita liquida (Economica Laterza, 2008)

[4] Justin E.H. Smith, Irrazionalità, Storia del lato oscuro della ragione (Ponte alle Grazie, 2020).

[5] François Jost da I social media stupidi e malvagi saggio contenuto in Psicologia della stupidità a cura di Jean-François Marmion (Nuova IPSA Editore, 2020).

[6] Gustav Le Bon da La psicologia delle folle (Edizioni Clandestine, 2013)

[7] Byung-Chul Han da Nello sciame, visioni del digitale

[8] Herbert Marcuse da L’uomo a una dimensione (Einaudi, 1967).

[9] Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima (Mondadori, 1964).

[10] Takagi & Ketra feat. Lorenzo Fragola e Arisa (2017).