Chiunque vada in cerca di un’arte senza
simboli, allora, se si considerano tutti i modi 
in cui le opere simbolizzano, non la troverà.
(N. Goodman)

Da che prosperitade ci ha lasciati
o morte medicina d’ogni pena
deh vieni a darci ormai l’ultima cena
(Andrea Orcagna)

Non c’è nulla di male nell’essere asociali. Soprattutto quando
i motivi di questa scelta sono riconducibili a uno solo: l’essere
consci del proprio nulla. Ci si mette autonomamente da parte
quando ci si accorge di essere esattamente come gli altri e di
non avere quindi alcuna necessità di scambiare le proprie esperienze
(Tommaso Labranca)

Titolo del libro: Sonetti e specchi a Orfeo.

Autore: Luciano Mazziotta.

Anno di uscita: 2023.

Editore: Valigie rosse.

Dimensioni del volume: 13 x 21 x 0,7.

Peso in grammi: 159.

Quando e dove l’ho letto: a Maggio, in un Airbnb nel centro di Palermo, città di origine dell’A. Ho pensato che non avrei potuto capire il libro se non avessi visitato Palazzo Abatellis, o meglio, se non avessi preso visione del Trionfo della Morte (1446?), affresco di mano sconosciuta conservato nella galleria, e inizialmente posto nel cortile di un quello che oggi chiameremmo ospedale. I principi che governano la rappresentazione del TdM sono molto simili a quelli che cifrano la scrittura dell’A. Mi rendo conto che questo parallelo andrebbe non dico spiegato ma quanto meno portato avanti, ma voglio essere onesto: non ne sono in grado. Controllo gli appunti sul cellulare in cerca di un aiuto, ma alla data 19/05/23 trovo solo una riga: «arcaismo ultramoderno (benjamin?); notizie in arrivo da un trapassato futuro: oggi, oggi moriremo».

Struttura: il libro è composto dalla traduzione incoerente di 27 sonetti tratti dai Sonette an Orpheus di Rilke (pagina sx) accompagnati da una prosa suggerita dall’originale (lo specchio, pagina dx). Abbiamo così 54 componimenti + 1 (un sonetto autografo a separare le due parti in cui il libro si divide). Anche i Sonette an Orpheus erano 55. La prosa non rispecchia, non commenta, non analizza: specula, articola. È suggestivo che nella fondamentale nota conclusiva l’A. si riferisca a queste prose come ekphraseis. Solitamente le ecfrasi sono descrizioni di immagini. Qui sono descrizioni di parole. Il medium di partenza è lo stesso di quello di arrivo. Ma la trasmissione, come in ogni ecfrasi interessante, è disturbata, in modo che in queste prose entra di tutto.

È necessario conoscere Rilke per leggere questo libro: no.

Appunto del 21/05/23 (Aeroporto Falcone e Borsellino): «l’A. gioca al ventriloquo, fa la voce di Rilke ma la impianta nella nostra età postrema. Rilke scriveva prima che il mondo finisse, per l’A. il mondo è finito, restano solo i cocci, o meglio, la polvere di questi cocci dispersa nell’aria. Ma sia chiaro: in SSO non c’è attualità, è un libro totalmente inattuale, nessun occhiolino al reale, è ambientato in tempo indefinibile, sospeso. L’A. parla da un futuro che è già accaduto, con una dizione sapienziale che ci raggela come le regioni che descrive [debole, migliora]. In generale, la capacità con cui l’A. scandisce la sintassi, la severità della forma, fanno pensare a un classico, o a un autore morto. La voce con cui entriamo in contatto è postuma, appartiene a un nostro antenato (il coro di Ruysch?)».

Ambiente: tempo e spazio sono ibernati. Il mare è stato prosciugato, risucchiato, ha lasciato la terra scoperta. Le prose manifestano una cura del vuoto, come delle mani messe a conca. Incorniciano l’orrore per tramandarlo. Nel libro c’è un’aria metallica, da rovine industriali. Il ghiacciaio, nella seconda parte del libro, si trasforma in un deserto. Gelo e desertificazione. Rilke parla con Eliot (e con Leopardi). Un deserto «nero», fatto di cretti. Il mondo è uno scalpo.

Uniche parole contenute nel libro che fanno pensare che l’A. sia nostro contemporaneo o perlomeno contemporaneo dei nostri nonni: «orologio», «treno», «film», «tunnel», «fotogramma».

Corollario: SSO è attraversato da un’alta tensione verbale, sprigiona un’energia radicalmente modernista, la sua morfologia è complessa, rifiuta l’ironia autotelica delle scritture di ricerca, come le semplificazioni e l’empatia a basso costo della lirica recente. Ha un rigore novecentesco. Nonostante ciò si installa in una faglia tipicamente contemporanea, poiché qui la scrittura può darsi solo come scrittura di secondo grado, come nota (sebbene distante da qualsiasi intento ancillare), come saggio. L’ipotesto rilkiano è un pre-testo, una contrainte che scatena l’immaginazione verbale.

Raccordo: «Pochi tra i molti astanti osano guardare la morte. Solo i mendicanti, gli storpi, i derelitti che dal margine dell’affresco implorano una liberazione. Tutto il resto è un attimo pietrificato del tempo, un fotogramma, un’istantanea su un pubblico distratto, attonito, percorso da un’immemore malinconia. Nunc stans. La creazione si congela. Tempo che si fa spazio. Di ghiaccio» (M. Cometa, Il Trionfo della Morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, Macerata, Quodlibet, 2017).

Come si situa SSO nella produzione dell’autore: SSO è il recto apocalittico e cosmico di quel verbario dei conflitti domestici che è Posti a sedere. Entrambi i libri condividono l’impianto luttuoso e post-umanistico, ma qui la posta in gioco è molto più alta. SSO è un libro definitivo, che azzera le possibilità di sopravvivenza della nostra specie e chiude ermeticamente ad ogni speranza. È un’enciclopedia delle science de la mors.

Parole contenute in SSO che ho cercato su Google: «cinetosi».

Dialettica: contro le indicazioni dell’A., che rifiuta qualsiasi prospettiva dialettica, Hegel esce ma torna dalla finestra. Nella prosa conclusiva, il soggetto si dichiara per quello che è: un dormiente, un sonnambulo che vive una vita vicaria, per sentito dire. Indifferente, atterrito. I «senza-sonno», coloro che vivono, raccontano di un mondo dove afa e neve, deserto e ghiaccio coesistono alternandosi nello spazio di pochi minuti (sintesi o semplice giustapposizione?). Il soggetto delega il racconto della realtà a un intermediario (ma la forma, la forma non delega mai): non sappiamo quanto il suo dispaccio sia vero. Ma come meccanismo di difesa nei confronti di un mondo morente il soggetto non può far altro che – verrebbe da dire, per mimesi – dormire. Fingersi morto. Giocare il gioco dell’estinzione.

Verbo preferito utilizzato dall’A.: «perimetrare».

Piccole annotazioni sul ritmo in SSO: le prose sono un basso, un tamburo. Talvolta la metrica è rintracciabile, talvolta salta. L’intelaiatura prosodica è complessa e stratificata. Ogni prosa è una stanza acustica piena di risonanze, variazioni, riprese. Esempio del ritmo a precipizio: «[…] uno ancora e il distacco dal piano sconnesso dei dati di fatto su cui si riversa lo sfarsi dei ghiacci» (7+12+12, con cesura a metà verso, cioè dopo «sconnesso» e «riversa»). Ancora più ambizioso: «E non c’è mai speranza che salga la goccia alla bocca a infrangerne i numeri e i nomi dentro la capsula, e neppure che cada la sfera impiccata alla faccia e la lingua che cerca la spinta a raggiungere un pozzo». Grande sensibilità metrica, niente scrittura monoblocco piatta a nero tipografica ecc. molto in voga oggi, ma al contempo un dettato privo di quella rincorsa all’eufonia che troviamo in altri poeti che usano la prosa: qui c’è una densità collosa, scura e pesante come pece.

Cose a cui ho pensato rileggendo SSO per scrivere questa recensione per LBB: Didi-Huberman, Warburg, la tradizione monastica della meditatio mortis, Heidegger, Szondi, delle metastasi, Furio Jesi, due donne che litigano perché una ha saltato la fila per i taxi dicendo di essere incinta, il giorno più caldo dell’Europa moderna, i rifiuti, DeLillo quando era ispirato, il cyberpunk.

Frase del libro che avrei voluto scrivere io: «Sembriamo goffi, con la puzza di cripta da cui siamo usciti per poco».

Non-ancora, non-più: il soggetto-sonnambulo non è in allerta per un pericolo imminente. L’apocalisse è qualcosa di già accaduto, di dato per scontato, qualcosa di reale e intangibile come un albergo fuori stagione su un’isola vulcanica (l’unico pericolo incombente è quello di «rimanere vivi»). Tornando al Trionfo della Morte: la peste non arriva dall’Asia, si contrae alla nascita. Al contempo, non è possibile pensare al disastro se non come qualcosa di storico. Anzi, esso è proprio il principio della storia, il banco da macellaio dove si riproducono i gesti e i rituali dei vincitori di ieri. Non credo fosse nelle intenzioni dell’A. scrivere un libro sul cambiamento climatico, ma SSO è anche questo (per usare una formula abusata: contemporaneità del non contemporaneo, mal nel contemporaneo). Per tutte queste ragioni il soggetto-sonnambulo finisce per invidiare i morti, i quali sono i soli che hanno accesso alla «forma definita», rasserenati e scolpiti dall’eternità del loro non essere più. È con loro che spesso il libro parla (si potrebbe dire, con Stephen Greenblatt: «Tutto iniziò col desiderio di parlare con i morti»). Questi morti però, a differenza delle mummie di Ruysch cui si accennava sopra, non pensano alla vita con nostalgia, ma come a una possibilità mai esistita. E di fatti la coazione all’inorganico che a ben vedere attraversa tutto il libro è un’aspirazione non tanto al non essere più quanto proprio al non essere mai stati, a disperdersi tra le tante possibilità scartate dell’esistenza.

Sul rapporto ecfrastico: la letteratura non indica con il dito l’immagine, la dimostra.

Coda della recensione (o anche, il verso che dell’A. che ripeto più spesso a mente mentre guido il motorino): «ma quello che accade ci accade di spalle» (da Posti a sedere).


Luciano Mazziotta, Sonetti e specchi a Orfeo, Valigie Rosse, 2023, €13.


(in copertina: foto di Mathew MacQuarrieUnsplash)