In Omero l’ho incontrata per la prima volta
e da allora per anni l’ho inseguita
sulle pagine. Spesso travestita
spuntava in storici dimenticati
o soffocava nel cuneo dei composti.
In remoti dialetti della lingua greca
l’ho ritrovata con un senso un po’ diverso
e in laboratori chimici metamorfosata in termini
scientifici: labbra straniere la farfugliano
con pronunce variopinte.
Oh no, non è morta
ma viaggiando nei secoli, radicata
nella bocca profonda del Poeta si conserverà…

Aristotelis Nikolaïdis, Una parola (1960), in Antologia della poesia greca contemporanea, a c. di F.M. Pontani, Crocetti, Milano, 2004, 500s.

Questa poesia di Aristotelis Nikolaïdis (1922-1996) è ben rappresentativa della parabola di molte parole greche passate nel lessico delle lingue europee, e di lì spesso, come prestiti di ritorno, rientrate nel greco moderno. Quei termini “significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e precisa, […] comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte” che Giacomo Leopardi esattamente duecento anni fa battezzò europeismi “in gran parte derivano dal latino”, sì, ma, ancor più, “spessissimo vengono dal greco”, grazie alla maggiore prolificità compositiva e derivazionale di quest’ultimo – la sua “flessibilità di corpo allenato” secondo l’Adriano della Yourcenar (lo stesso Leopardi, con simile metafora, lo definisce altrove lingua “immensamente pieghevole e libera”). A dimostrazione dell’inesauribile produttività lessicale della sua lingua, e della sua capacità di nutrire le riserve lessicali delle altre, Nikolaïdis compilò un Dictionnaire des mots inexistants (1989), in cui proponeva ineccepibili neologismi ellenizzanti per ‘arricchire’ il vocabolario francese.

Il greco, dunque, ci riguarda, perché è alla base di gran parte del nostro lessico tecnico e intellettuale, e anche perché l’origine ellenica conferisce alle parole una patente di antichità e nobiltà che le rende più potenti – e pericolose – da maneggiare. È perciò azzeccato il sottotitolo del recente volume di Giorgio Ieranò, ordinario di letteratura greca all’Università di Trento ed esperto divulgatore della cultura classica. Il suo libro offre, in una prosa scorrevole e precisa, la storia culturale di alcune parole-chiave della grecità che per diverse vie sono arrivate al lessico (non solo specialistico) di oggi, organizzato per aree tematiche (l’anima, il sacro, la cultura, la politica…). La user-friendliness del volume è accresciuta dai preziosi materiali in appendice: un’illuminante Postilla sulla pronuncia del greco, che sintetizza in maniera agile ed equanime un dibattito che ha attraversato, anch’esso, la storia della cultura dal Rinascimento a oggi; un glossario delle parole greche discusse nel libro e dei grecismi di conio moderno (con inventore e data di nascita); infine, dei Suggerimenti di lettura che propongono, in realtà, una ricca bibliografia ragionata.

Non mancavano al lettore italiano gli strumenti per esplorare il vasto patrimonio lessicale di origine greca, o forgiato modernamente su radici greche, che tutt’ora vive nella nostra lingua: lasciando da parte dizionari di natura più tecnica, pensati per accompagnare l’apprendimento del greco, simile era l’impostazione de Il nostro greco quotidiano di Pietro Janni (Roma-Bari, Laterza, 1994), ripresa poi da alcuni libri recenti. Il volume di Ieranò si distingue comunque per l’attenzione rivolta alla dimensione diacronica e alle sue problematicità. L’autore, infatti, ammonisce nella sua Introduzione che “[a]l centro deve stare […] la storia, con le sue complicate vicende”. Come nei versi di Nikolaïdis, il viaggio delle parole attraverso i secoli è “necessariamente avventuroso”, un “percorso accidentato e labirintico”, e proprio in questo sta la loro forza e il loro interesse.

Questo approccio si contrappone a “certi fervorosi entusiasmi” di chi ancora oggi vorrebbe esaltare una “intrinseca e metafisica bellezza” del greco, rispolverando la vecchia nozione settecentesca di “genio delle lingue” (e dietro la scelta di questo sintagma non è difficile leggere una discreta stoccata a quei volumi di successo che cantano in toni rapiti, e con qualche svarione scientifico, la presunta genialità del greco). Non si tratta solo di tenere rigorosamente distinto il dominio della storia (linguistica e culturale) da quello assai scivoloso del gusto soggettivo, ma di illustrare, a scopo precauzionale, le distorsioni a cui la grecità e le sue parole sono state sottoposte, spesso al servizio di agende politiche discutibili, o peggio: basta sfogliare la seconda pagina dell’Introduzione per trovare, fra i professi ammiratori dell’Atene periclea, il nome di Adolf Hitler. Il greco, inoltre, non è stata solo la lingua della classicità, ma anche quella del cristianesimo. Gli studenti universitari, segnala l’autore, ormai ignorano che il Nuovo Testamento è scritto in greco; ma spesso lo ignorano anche gli autoproclamati paladini dei Valori Cristiani. Fra i pregi del libro va quindi annoverato l’ampio spazio dedicato al ruolo che questa lingua ha avuto nel plasmare il vocabolario religioso dell’Europa cristiana, sia direttamente sia facendo da modello per calchi latini.

Un’impostazione antiretorica e anticlassicistica, dunque, caratterizza felicemente il racconto di Ieranò. Come appare oggi improponibile il culto acritico di un’astratta, atemporale classicità fatta di valori eterni, così è bene riscoprire che anche la storia delle parole che espressero quei valori è fatta di abusi, travisamenti, reinterpretazioni, interferenze (come quella fra il dio Kronos e Chronos, il tempo, o quella fra i Satyroi greci e la satira latina: nomi non imparentati, ma destinati a confondersi). Bisogna insomma guardarsi dalla fallacia etimologica di chi vorrebbe riscoprire il ‘vero’ valore di un’idea o un’istituzione nel significato letterale e originario del suo nome. Già l’Aquinate sapeva bene che aliud est etymologia nominis et aliud est significatio nominis, e lo scavo fino alle radici ultime di una parola, per quanto impresa istruttiva e intellettualmente gratificante, serve soprattutto a constatare quanto il significato cambi col tempo e con l’uso.

La glottologia novecentesca di scuola francese intendeva l’étymologie come histoire des mots (sottotitolo, infatti, del dizionario etimologico, ancora indispensabile, di Pierre Chantraine): attenta ai contesti d’attestazione dei termini e alla loro evoluzione semantica, più che alla loro ricostruzione puramente formale. Tale è l’impostazione del libro di Ieranò, che si concentra ancor più nettamente sulla storia dei significati lasciando da parte quella (fono-morfologica) dei significanti, assai ricca di fascino (ne sa qualcosa chi scrive) ma certo meno gravida d’implicazioni per gli sviluppi della cultura occidentale.

È istruttivo ripercorrere, ad esempio, i vari cambiamenti di significato della parola mito, compresa anche la sua lunga eclissi (quelli che per noi sono senz’altro ‘i miti greci’ erano chiamati, nel Rinascimento, fabulae); od osservare che i Greci, con tutti i loro dèi e i loro culti, non avevano un termine per ‘religione’. Ed è divertente scoprire dalle pagine di un filologo che ai tempi di Platone philologos poteva ancora significare semplicemente ‘chiacchierone’ (“il vino rende filologi”). Ma è soprattutto quando il discorso si sposta sul lessico della politica che i vantaggi di una corretta prospettiva storica diventano evidenti. Una prospettiva corretta porta a diffidare della “retorica un po’ bolsa” sulla democrazia, che non solo ai tempi di Pericle indicava qualcosa di imparagonabile alle democrazie di oggi, ma aveva una decisa sfumatura dispregiativa. Oppure, rinfrescare l’origine della scuola come ‘tempo libero’ (scholè) aiuta a vedere meglio l’errore fondamentale nella triste trovata della ‘alternanza scuola-lavoro’ (peraltro oggi già modificata in PCTO); anche se, alla luce della fallacia etimologica sopra ricordata, non potrà essere questo l’unico o il più pesante argomento.

La vitalità di questa lingua ‘morta’ è testimoniata non solo dai ripescaggi che spesso stravolgono l’accezione antica di un termine, ma anche dalle moltissime parole di nuovo conio nascoste sotto un aspetto ellenizzante (e magari anche relativamente malformate, come psichedelico, che più correttamente – aggiungiamo – dovrebbe dirsi ‘psicodelotico’). S’impara, così, che Galileo avrebbe voluto battezzare la sua invenzione perspicillo, alla latina, prima che un erudito greco suggerisse l’equivalente telescopio, e che la xenofobia è creazione di Anatole France (per quanto sul modello di alcuni composti già antichi) datata 1901. Tra i composti moderni destinati a grande successo sono annoverati, e debitamente discussi, anche ecologia e nostalgia. In tutti questi casi, è possibile forse rintracciare nella civiltà antica qualche anticipazione dei fenomeni in questione (una coscienza ‘ecologica’ affiora già tra Platone e Teofrasto), ma non i nomi (greci) con cui oggi li indichiamo. In ogni caso, il libro di Ieranò ci aiuta anche a guardarci dalla tentazione di appiattire l’antico sul contemporaneo, tracciando troppo facili paralleli tra istituzioni ed eventi di allora e di oggi.

L’aspetto ‘impegnato’ del volume emerge pienamente nell’ultimo capitolo, tutto dedicato alle inevitabili parole del 2020: epidemia e pandemia. Come l’autore osserva, entrambe risalgono effettivamente all’antichità, ma avevano altri significati: ‘epidemico’ è ciò che riguarda un dato territorio; ‘pandemico’, ciò che riguarda tutto un popolo (ma non è mai usato dagli antichi in senso medico). E anche quando epidemia diventa un tecnicismo della medicina, a partire dagli scritti ippocratici, lo fa con un’altra accezione (quasi opposta a quella odierna) di malattia confinata in uno specifico territorio. Di contro, se è vero che la letteratura greca si apre con la descrizione di una pestilenza nel primo canto dell’Iliade, sia i poemi omerici sia tutta la grecità arcaica e classica usano altri termini per definirla. Insomma, “mentre tutti si improvvisavano virologi, molti, compresi i virologi, si sono improvvisati grecisti” tracciando pretestuose analogie fra le grandi pestilenze della storia e della letteratura antica e il nuovo coronavirus, “rischiando di falsare, ancora una volta, la prospettiva della storia”: sostenendo, ad esempio, che Sars-Cov2 sarebbe ‘democratico’ perché si abbatte ‘su tutto il popolo’ indifferentemente, dando a un tempo una lettura errata del termine epidemia e non vedendo come la pandemia abbia, casomai, esasperato le diseguaglianze sociali.

Ieranò conclude chiedendosi retoricamente se davvero, parlando della Covid-19, abbiamo sempre usato le parole giuste. La domanda è fondamentale, e pone un problema che va al di là del greco. Nell’ultimo anno quasi tutti abbiamo contribuito, anche involontariamente, alla risemantizzazione di termini estremamente ‘carichi’ come untore e negazionista (o, dalla parte opposta, dittatura); abbiamo sperimentato come ciò abbia distorto e reso tossico il discorso attorno all’emergenza e alle misure per affrontarla. Lo stesso frequente ricorso alla metafora bellica è comprensibile, ma tutt’altro che neutro. Sulle trasformazioni linguistiche dell’età covidiana si scriveranno certamente dotti studi, col dovuto distacco cronologico e scientifico (come già accade in Germania). Ma quando i responsabili della trasformazione siamo noi, qui e ora, sarebbe nostro dovere resistere contro gli usi falsificanti e irresponsabili. Un libro come quello di Ieranò ci ricorda lucidamente che, anche a distanza di secoli, le parole hanno un peso e potere che non possono essere sottovalutati.


Giorgio Ieranò, Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 224, € 17,00.