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«Cadete voi, io non cadrò mai più»: la storia di Venera in Quello che so di te di Nadia Terranova

Martina PaladiMartina Pala
10 Ottobre 2025
in Letterature
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«Cadete voi, io non cadrò mai più»: la storia di Venera in Quello che so di te di Nadia Terranova

Quello che so di te (Guanda, 2025), l’ultimo romanzo di Nadia Terranova e finalista nella più recente edizione del Premio Strega, è la storia di Venera, bisnonna della narratrice che, subito dopo la nascita della sua bambina, comincia ad indagarne la vicenda. Quello che rende straordinaria la vita di Venera è il ricovero in manicomio a causa della morte, in grembo, della figlia Giovanna.

Il romanzo si muove nel tempo e nello spazio, inseguendo le protagoniste di una Mitologia Familiare (le maiuscole adottate dall’autrice suggeriscono già come questa si elevi a vero e proprio personaggio nel romanzo). Non è la prima volta che Terranova si occupa di mitologie familiari, e, come nei suoi precedenti romanzi, uno degli strumenti di indagine favoriti sono gli oggetti, che si fanno portatori di messaggi e che prendono quasi vita: «la Mitologia Familiare furibonda scuote gli scaffali, un dizionario viene giù dalla libreria, slega dal polso il braccialetto di ametista e cade anch’esso sul pavimento: como oso, urlano le cose tintinnanti, togliere la polvere dalla storia di Venera?».

Eppure, più che gli oggetti, sono i corpi, stavolta, a popolare le pagine e le riflessioni della narratrice e soprattutto a fare da collante a vicende remote e distanti. Non è un caso che uno dei temi centrali del romanzo sia la maternità, che tradizionalmente, in letteratura soprattutto, è inscindibile da una certa attenzione ai corpi delle donne. E infatti le redini della narrazione, che non si fa mai confusa, nonostante i salti temporali e le diverse personagge, sono tenute strette proprio attraverso il leitmotiv dei corpi delle donne raccontate, legate tutte da una scia di sangue che ne rende i destini simili: «[…] cent’anni fa una donna è entrata in manicomio, mia figlia discende da lei. La linea del sangue non imbroglia. I rapporti madre-figlia lasciano segni sui corpi («La macchia sul mio zigomo è lei») e li rendono, a volte, indistinguibili, se non addirittura l’uno parte dell’altro («La prima volta che sono uscita in strada senza pancia e senza carrozzina, senza la neonata nella fascia attaccata al seno, avevo la sensazione che mi fosse volato via un braccio o un pezzo di gamba»).

Questa serie di rimandi e confronti tra una generazione e l’altra permette al lettore di scavare nella soggettività anche della narratrice, nonostante il suo spazio narrativo sia ridotto rispetto a quello concesso alle antenate e, ancor di più, alla bisnonna. Quest’ultima costituisce una sorta di doppio della nipote-narratrice, che in lei si specchia e di cui Venera racchiude il potenziale destino (la maternità, la pazzia) sia in quanto appartenenti alla stessa Mitologia Familiare, sia in quanto donne che si muovono ed esistono in società lontane nel tempo, ma con aspettative e dettami ancora simili.

La pazzia, altro tema centrale nel romanzo, si aggiunge al binomio maternità-corpo, complicandolo. Così come la maternità, infatti, anche la pazzia, intesa come perdita di sé, sembra una esperienza tutta femminile: «[…] succede sempre, si perdono tutte. Dice proprio così: tutte. Si vede che gli uomini non perdono l’orientamento, oppure lo ritrovano da soli». La narratrice stessa rende esplicito il legame di causa-effetto tra maternità e pazzia spiegando che «[a] legare la maternità al manicomio è il fatto che tutte e due interrompono il racconto convenzionale della vita». È questo un tema di grandissima attualità e rinnovata popolarità: basti pensare al recente documentario di Elizabeth Sankey Witches (2024), che, a partire da un excursus storico sulle streghe, indaga proprio gli effetti della maternità sulla salute mentale delle donne.

Nel romanzo di Terranova la maternità, come si diceva, comporta la perdita di sé: Venera impazzisce dopo la caduta che ha causato la morte della figlia in grembo; ma anche laddove la maternità si compie, la perdita di sé avviene: per la narratrice, ad esempio, equivale all’incapacità di scrivere – la scrittura, d’altra parte, è un altro topos tradizionalmente associato alla soggettività femminile, sia in letteratura che in certe pensatrici femministe (basti pensare a Cixous): «Scrivere è appiccare incendi, bombardare città, stanare i prigionieri […] come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietate sulla pagina? Per anni mi sono sentita coraggiosa nell’illusione di uccidere, ma non posso scrivere per uccidere mia figlia».

Annie Vivanti, nel suo romanzo I divoratori, già nel 1910, ha descritto madri fagocitate, felicemente, da figli cannibali che devono nutrirsi proprio dei desideri e delle ambizioni di chi li mette al mondo per sopravvivere. In modo simile, in Quello che so di te, l’amore materno sembra per definizione e inevitabilmente annichilente e tendente al sacrificio estremo. Nel caso di figlie e madri, l’annichilimento è ancora più violento:

le figlie sono corpi che strappano e scalciano. Le figlie espropriano il corpo della madre, che per via di quell’esproprio può impazzire, provare un’insofferenza esasperata, sognare di tornare libera e nuda, prima di loro, senza di loro. Per poi soffrire una mancanza indicibile quando i corpi che ha generato sono lontani e non incombono più. Quando contro ogni evidenza la loro presenza resta, come quella degli arti amputati.

La serie di corrispondenze non si esaurisce a quelle già viste tra maternità, pazzia e corpo; la maternità stessa diventa metafora non solo, come ci si aspetterebbe, di vita, ma anche di morte. Se le madri muoiono uccise, metaforicamente, dai figli (dalle figlie, anzi!), le figlie muoiono nascendo, o non nascendo come Giovanna. I modelli letterari e filosofici, anche in questo caso, sono numerosi. Una tra tutti è Anna Banti, che apre il suo ultimo romanzo Un grido lacerante (1981) con una scena di nascita descritta non come «ritorno alla cara vita» ma come «caduta tra i mostri», sia perché nascere significa essere destinati a morire, sia perché è una condanna, per una donna, nascere in un mondo plasmato da e per gli uomini.

Anche Terranova sceglie la metafora della caduta per descrivere la nascita della figlia della narratrice («Mi sporgo verso la culla, guardo giù il cratere […] è atterrata sul nostro pianeta da poche ore e ha già disatteso quello che pensavo di sapere di lei»), ma la caduta di Venera causa la morte di Giovanna. La spinta verso il basso del cratere e la caduta nella pazzia alludono a un sottosuolo sovrannaturale, che sfugge alle leggi della razionalità e della logica, a cui le donne, e soprattutto le madri, appartengono o in cui vengono gettate da una società che le controlla e respinge allo stesso tempo (l’epigrafe di Virginia Woolf della prima parte del romanzo legge, infatti, «C’è nella maternità uno strano potere»). La maternità e la pazzia sono dunque un «disturbo che corre giù per la linea delle antenate».

Gli uomini e i padri non sono esclusi dalla narrazione («Mi illudevo – adesso rido molto forte – di lasciare i padri fuori dalla mia storia»), eppure la loro presenza è ancora debole rispetto alle storie di sangue, morte e pazzia delle madri che popolano la Mitologia Familiare al centro del romanzo. Quello che so di te, d’altra parte, è un romanzo la cui forza sta proprio nella tensione tra presenza e assenza (dei padri, delle figlie, del “sé”), capace di infilarsi nel filone dei romanzi contemporanei sulla maternità senza idealizzarla, e anzi facendola oscillare sempre tra vita e morte, amore e perdita, attraverso una scrittura vivida e un ritmo lento ma fluido, e quindi avvincente.


Nadia Terranova, Quello che so di te, Milano, Guanda, 2025, 272 pp., €19.

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Tags: autofictionGuandaLetteratura femminilenarrativa italiana contemporaneaPremio Stregaromanzo familiare
Martina Pala

Martina Pala

Nata a L’Aquila, collabora con la casa editrice Textus ma vive in Inghilterra dove è dottoranda all’università di Durham con un progetto sul(l’anti)femminismo di Anna Banti, Natalia Ginzburg e Elsa Morante. Quando non scrive di autrici italiane spesso dimenticate, legge lunghe saghe familiari che attraversano il Novecento italiano, guarda musical o film inquietanti, ascolta musica non sempre di qualità, guarda programmi televisivi che le fanno perdere credibilità e sente nostalgia dell’Abruzzo.

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