Lo scrittore isolato è migliore degli altri. Ripeterlo, soprattutto per continuare a tenerlo nell’isolamento (Giuseppe Pontiggia)
Mancato nel luglio di quest’anno, lo scrittore marchigiano Gilberto Severini (1941-2025) non è conosciuto da un pubblico ampio, ma, nonostante gli elogi di molti critici avvertiti e l’affezione di una devota cerchia di lettori, la sua opera non è stata oggetto nemmeno di quelle ambigue canonizzazioni accademico-editoriali capaci di elevare al rango di classico contemporaneo autori che hanno svolto nel tardo Novecento il ruolo di coprotagonista. Pier Vittorio Tondelli considerava Severini lo scrittore italiano più sottovalutato dei suoi anni: è normale che critici e giornalisti, soprattutto se chiamati a compilare un necrologio in tempi brevissimi, si appoggino agli strilli di autori noti per diffondere il nome di un autore poco noto, quando non francamente ignorato. È comprensibile anche che, come risulta da un bel ricordo di Linnio Accorroni uscito su «Le parole e le cose», Severini non amasse molto l’etichetta tondelliana, che in effetti suona retorica se non si cercano di chiarire le cause di questa pluridecennale sottovalutazione. L’occasione per tornare a leggere Severini arriva dalla recente riedizione di A cosa servono gli amori infelici (2010) per Playground, pubblicata alla fine del 2024 per festeggiare i vent’anni della casa editrice che negli ultimi decenni si è incaricata di diffondere i nuovi libri di Severini e di riproporne i titoli più antichi. La nuova edizione di questo breve romanzo si conclude con una conversazione fra Severini e il critico Massimo Raffaeli, un dialogo che aiuta a contestualizzare meglio l’opera di uno scrittore di cui si sa ancora pochissimo.
In A cosa servono gli amori infelici, un uomo di quasi sessant’anni si ammala alla vigilia del nuovo millennio: dovrà subire un delicato intervento chirurgico, rinviato a causa di un esame preliminare andato male. Nella lunga fase di prericovero, l’uomo decide di non ricevere visite, preferendo passare il tempo leggendo e prendendo appunti per la stesura di un libro. Scrive soprattutto tre lettere, che rappresentano il corpo principale del romanzo: prima a un collega d’ufficio, poi a un sacerdote che lo ha amato in gioventù e da cui è scappato, infine a un misterioso personaggio senza nome, una specie di alter-ego con cui ha creduto di parlare per tutta la vita. In queste lettere l’uomo racconta incontri ed eventi fondamentali della propria esistenza, svela retroscena, e allo stesso tempo riflette sulla storia italiana della seconda metà del Novecento: il Sessantotto mancato, il mito del posto fisso, la rivoluzione tecnologica e quella dei costumi. La parabola biografica del protagonista del libro può essere grosso modo sovrapposta a quella dell’autore: nato a Osimo nel 1941, Severini ha potuto osservare con curiosità i cambiamenti della società italiana del secondo Novecento da una posizione periferica, senza mitizzarli e senza liquidarli con sussiego, esordendo già maturo in quegli anni Ottanta che ancora oggi sono storicizzati con grande fatica sul piano letterario. Nel 1982 esce Consumazioni al tavolo e due anni dopo Sentiamoci qualche volta, riuniti in volume unico da Playground nel 2019: da quel momento l’autore pubblica con continuità con alcuni importanti marchi editoriali anconetani di quella stagione (Il lavoro culturale, Transeuropa, Pequod). Gli esordi di Severini sono lontani dalle esternazioni ribellistiche del primo Tondelli, autore con il quale Severini condivise un legame di amicizia insieme all’ammirazione per scrittori come Alberto Arbasino e Carlo Coccioli. Candidato al Premio Strega nel 2011, A cosa servono gli amori infelici è quindi un’opera matura, che Severini pubblica alle soglie dei settant’anni e che svolge anche la funzione di bilancio del suo percorso come scrittore, riassumendone temi e toni tipici.
Negli anni Ottanta i brevi romanzi-lettera di Severini non hanno messo radici in un decennio segnato dalle sperimentazioni postmodernistiche di romanzi come Il nome della rosa o Se una notte d’inverno un viaggiatore, né potevano inserirsi in quel filone di narrativa rarefatta a dominante descrittivo-fenomenologica che intorno all’ultimo Calvino ha raccolto autori come Celati, Del Giudice e il primo De Carlo, o ambientarsi nella foresta di gialli metafisici in cui talvolta si sono un po’ persi anche narratori di valore come Tabucchi, Pontiggia o Bufalino. Se infatti, recensendo nel 1985 Narratori delle pianure di Celati, Calvino poteva scrivere che il movimento più caratterizzante della narrativa degli anni Ottanta era stato il «rovesciamento dall’interno sull’esterno», in conversazione con Raffaeli Severini si pone agli antipodi rispetto al dominio della visività pervasiva che ha caratterizzato il decennio, presentandosi cioè come uno scrittore dell’infra:
Sono stato adolescente negli anni Cinquanta, ossia nell’immediato dopoguerra, in un mondo in cui l’invisibile contava infinitamente più del visibile. Soprattutto, vivendo in provincia, il visibile era scarso, ripetitivo, noioso, invece l’invisibile spalancava universi. La mia è stata un’educazione all’invisibile. Parlo evidentemente dell’educazione cattolica, in cui conta infinitamente di più quello che non si vede rispetto a quello che è visibile e tangibile (Severini 2024, p. 157).
Severini non ha mai rincorso il grande romanzo, tantomeno quello che riusa i generi letterari ironicamente, né credeva che per rimediare alla propria crescente marginalità la narrazione letteraria dovesse farsi racconto filosofico o parassitare gli altri media. Forse la capacità che spiccava in Severini più che in tutti i narratori italiani dei suoni anni era quella di saper gestire e graduare i registri delle sue pagine, mantenendosi sempre nell’alveo di una scrittura piana, pronunciabile: i suoi lettori sono abituati a passare nel giro di poche righe da una parentesi apertamente sentimentale a una pointe di intelligente sprezzatura senza mai notare salti o stonature nella transizione. Pur essendo capace di un’ironia intelligente, anche se non cinica, e dello humour tipico di tutti i grandi osservatori del comportamento umano, Severini è stato uno dei pochi autori italiani che negli anni Ottanta e Novanta non ha mostrato imbarazzi nello scrivere all’occorrenza Ti amo disperatamente, proprio come avrebbe fatto Liala e come si potrebbe dire ancora oggi in determinate circostanze della vita, con buona pace di Umberto Eco e dell’ironia postmodernista.
Abilissimo indagatore dei sentimenti anche nei loro aspetti più torbidi e compromissori, Severini si è trovato ancora una volta emarginato dagli opposti estremismi del minimalismo e del massimalismo degli anni Novanta. In anni di euforia carveriana, durante i quali le neonate scuole di scrittura si attaccavano a slogan come Show, don’t tell, come poteva essere riscoperto un autore la cui poetica era all’insegna del Tell, tell, tell? Influenzata da musica e poesia, la pagina narrativa di Severini spesso si appoggia alla finzione epistolare, che incoraggia una scrittura ‘vocale’ e di registro confidenziale, dove la qualità del tono e la capacità di rendere gli stati interiori dei personaggi sopperiscono a una mancanza di vocazione per la costruzione di intrecci. Come si poteva leggere in anni di cannibalismo editoriale un narratore i cui personaggi possono rovinarsi un’estate per una frase pronunciata col tono sbagliato? Che posto poteva trovare un maestro dell’allusione e della sfumatura, capace di raccontare con pietas creaturale anche la pederastia di un prete, in un decennio che ha concesso le sue preferenze all’aggressività e all’esagerazione del pulp? Oltretutto, la vocazione crepuscolare ed elegiaca dell’opera di Severini la rende costitutivamente allergica a ogni forma vera o supposta di avanguardismo, fra i pochi contrassegni a disposizione degli autori italiani per presentarsi come materia da convegno o da tesi di laurea anche in mancanza del riscontro di un pubblico.
Mi riservo di pensarci meglio in futuro perché si tratta di un punto delicato e che richiede maggiore approfondimento, ma anche la rappresentazione della condizione omosessuale maschile nell’Italia del dopoguerra nei libri di Severini forse si distacca dalle rese, fra loro diversamente eccezionali o scandalose, che ci vengono dalle pagine di autori come Pasolini, Arbasino, Tondelli o Busi. Da lettore di Severini, mescolando il ricordo di vari libri, mi sembra che l’autore sia riuscito nell’impresa non semplice di raccontare, da un lato, l’ineluttabilità del confronto con la cultura cattolica nella provincia di un’Italia che si voleva già pienamente secolarizzata e, dall’altro, le pressioni e i ricatti a cui questa millenaria coltre culturale esponeva (e ancora oggi può esporre) i giovani omosessuali in cerca della propria identità. Recupero a questo proposito un passaggio da una bella intervista a Severini realizzata nel 2003 da Giovanni Dell’Orto per «Pride», che prima chiedeva a Severini perché scegliesse di ambientare le vicende dei suoi personaggi sempre in provincia e poi se la rivoluzione sessuale al centro di molti dei suoi libri avesse migliorato le condizioni delle persone omosessuali in Italia:
Per ragioni anagrafiche, e poi perché la provincia è un grande teatro in cui si spettacolarizza la vita dei sentimenti e delle passioni con maggiore facilità. Senza contare che credo che tutta l’Italia sia sostanzialmente una grande provincia. Esistono aree dove tutto è più facile e più accessibile, ma a fronte delle grandi passioni o dei grandi dolori credo che siamo tutti piuttosto provinciali.
Ci sono città in cui l’incontro è più facile, perché offrono associazioni e punti di ritrovo, ma tu immagina un ragazzo che vive oggi in una cittadina dell’Umbria o dell’Abruzzo o delle Marche, che non vuole dare dispiaceri ai genitori, e che non vuole “sputtanarsi” con un gruppo di compagni con cui è cresciuto, e che non può muoversi di lì per ragioni economiche, o semplicemente perché non ha coraggio… mescola tutto, e trovi un destino analogo a quello dei decenni di cui parlavamo. (Severini 2003)
Nei suoi libri Severini riesce a tirare i fili, guardandosi bene dal tentare di districarli del tutto, del misterioso gomitolo di ambizioni, passioni e ragioni che governa la vita degli uomini non illustri o, come scriverebbe lui, dei “generici della vita” che animano tutta la sua opera. Oltre che nella perizia della rappresentazione, questo principio di carità verso l’esistente, che antepone la curiosità al giudizio, è forse la ragione principale che giustifica la perenne gioventù dei libri di Severini, che si presentano alla lettura ancora freschi e ricchi di interesse per i lettori di oggi e di domani. Avendo provato a indicare alcune ragioni della perdurante sfortuna dello “scrittore italiano più sottovalutato” della fine del secolo, che dovrebbero costituire altrettante occasioni di riflessione su come l’establishment letterario italiano – ma anche le sue nicchie – ha costruito i suoi valori in materia di narrativa negli ultimi quarant’anni, in chiusura voglio consigliare di nuovo ai curiosi che volessero finalmente scoprire questo autore di recuperare la riedizione di A cosa servono gli amori infelici. In alternativa, altri libri da cui consiglio di cominciare per avvicinare il mondo poetico di Severini sono la raccolta di racconti Quando Chicco si spoglia sorride sempre del 1998 e il dittico d’esordio Consumazioni al tavolo/Sentiamoci qualche volta, entrambi facilmente reperibili grazie alle benemerite riedizioni Playground, editore che speriamo possa continuare a diffondere l’opera di questo grande scrittore anche dopo la sua scomparsa.
L’immagine utilizzata per l’header dell’articolo è opera di Maurizio Ceccato (IFIX)

G. Severini, A cosa servono gli amori infelici, nuova ed., Roma, Playground, 2024, pp. 192, € 16.








sarebbe auspicabile indicare il nome dell’illustratore (Maurizio Ceccato – IFIX) per l’utilizzo sull’header dell’immagine.
Gentilissimo Ceccato,
ha ragione, avevamo ricevuto l’immagine dall’editore senza particolari raccomandazioni sull’utilizzo.
Provvediamo subito a integrare l’informazione.
Ci scusi per l’inconveniente e complimenti per il suo lavoro.