In Primi passi, il terzo racconto della raccolta Quando Chicco si spoglia sorride sempre da poco ripubblicata da Playground (con lievi correzioni stilistiche apportate all’edizione Rizzoli del 1998), c’è una scena a mio parere perfetta per introdurre un discorso sulla prosa di Gilberto Severini, che nel panorama letterario italiano degli ultimi decenni spicca per grazia, equilibrio e limpidezza. Il narratore sta rievocando i pomeriggi dell’adolescenza trascorsi assieme ad altri ragazzi nella grande casa di un amico che faceva loro da insegnante di ballo, in previsione dei futuri appuntamenti danzanti con le coetanee. Dopo le lezioni di prova, prima senza musica e poi con l’accompagnamento del giradischi (siamo alla fine degli anni ’50), il racconto si sofferma sull’insegnamento più difficile da padroneggiare, che per i ragazzi rappresenta il culmine del percorso di apprendistato.

Il ballo da fermi era il massimo sia sul piano dell’eleganza che su quello del pomiciare. Eravamo interessatissimi a entrambi. Consisteva nello restare quasi immobili, pur ballando. Il difficile era tutto in quel quasi. Perché a vedere quella fissità di coppia impercettibilmente oscillante si capiva subito chi sapeva ballare e chi no. Chi stava lì, in piedi, come si aspetta un autobus e chi invece era davvero in sintonia con la musica, vi si abbandonava consapevolmente interpretandone il ritmo e persino la melodia. Il segreto stava nell’imprimere al corpo la direzione dei movimenti, ma non i movimenti.(p. 32)

L’immagine di una danza immobile è una metafora calzante per lo stesso racconto, dove in appena una dozzina di pagine convergono numerose tensioni quasi impalpabili. Il tempo è quello dell’attesa e del passaggio alla maturità, ma la voce che ricorda la fine dell’adolescenza da una prospettiva temporale indefinita, pur aderendo agli eventi narrati con grande compostezza, vibra sia delle aspettative per un mondo a venire, sia di una nostalgia per il passato espressa in toni allusivi. L’intero racconto è permeato da un’atmosfera agrodolce, ma non mancano note di schietta comicità, di meraviglia e di mistero – come gli accenni iniziali, di gusto infantile e fiabesco, alle scatole di cioccolatini ancora cellofanate e alle due porte sempre chiuse della grande casa – che lo rendono simile a un prisma irradiato nella penombra da più fonti luminose.

Uno degli elementi più interessanti del racconto è la prima persona plurale utilizzata dalla voce narrante, a rimarcare da un lato la partecipazione a un’esperienza condivisa, dall’altro la distanza temporale che separa i fatti dal momento della loro rievocazione soggettiva. Anche il lettore che non abbia familiarità coi temi più caratteristici dell’opera di Severini, e in particolare col motivo a lui caro del desiderio omoerotico vissuto in modo problematico nell’ambiente chiuso della provincia, è portato così a immaginare che il narratore stia proiettando sui sogni del passato, almeno in parte, la propria disillusione posteriore, nonostante la sua voce rifugga tanto le lamentele quanto le stucchevoli idealizzazioni. L’abilità dell’autore, qui, consiste nell’ottenere tale effetto senza alcuna esplicita confessione, ma attraverso riferimenti musicali che fungono da cassa di risonanza per un intero universo emotivo inespresso. La musica che «traboccava di sicurezze e di futuro» e «annunciava il tipo d’amore che ognuno di noi stava aspettando senza confidarlo a nessuno», in una storia al plurale dove il futuro è fuori scena, produce una singolare eco dissonante, e anticipa la «vecchia canzonetta» finale, le cui parole, rivolgendosi a un “tu”, spezzano l’incantesimo del “noi”.

Altre immagini affini al motivo della danza immobile ricorrono significativamente in ognuno dei nove racconti. La prima, sempre legata alla musica, è quella che apre la storia iniziale – una memoria domestica d’infanzia coniugata alla terza persona – su una processione di bandisti che «più che marciare barcollavano a tempo ondeggiando per il corso del paese» (Radiosa entrò la radio). Nel secondo racconto è invece la «leggerissima traccia celeste» negli occhi dell’anziana signora che sperimenta le sue prime telefonate a una persona non meglio identificata, «una sorta di voglia d’avventura impressa nell’iride con discrezione» (Elvira al telefono), e altri indizi di questa fenomenologia di gesti appena accennati, in bilico tra interiorità ed esteriorità, compaiono più avanti nell’andatura del misterioso vip che «camminava piano, con i piedi rivolti all’interno» (Rabagliati), nei sorrisi degli amanti che in un teatro adattato a cinema «ridevano con garbati sussulti» (Doppio spettacolo) e nella «smorfia di violenza trattenuta a fatica» di un giovane che invita a casa sua un ragazzo per condividere la propria corrispondenza privata (Farfalle).

Come si può intuire anche da questi brevi stralci, Severini ama condensare in poche pagine storie ricche di dettagli rivelatori, di implicazioni e di risvolti secondari, che suscitano interrogativi e sollecitano ipotesi di sviluppi futuri. La sua è una poetica dell’essenziale, spesso ispirata da situazioni minime, fedele alla lezione di Marguerite Yourcenar (che nella revisione di un testo si diceva tanto più soddisfatta quante più parole superflue riusciva a cancellare) e di Ennio Flaiano (che sosteneva che i giorni della vita che contano sono pochi, «gli altri fanno volume»). I momenti su cui si appunta l’attenzione dell’autore, in questo caso, hanno sempre a che fare con l’esperienza di una novità o di un incontro inatteso, e nello specifico sono spesso una diretta conseguenza dell’ingresso nella vita di tutti i giorni dei mezzi di comunicazione e di riproduzione (dalla radio al telefono, dal giradischi alla tv). Per i personaggi coinvolti queste tecnologie offrono da un lato la possibilità di ridefinire i confini del proprio mondo e di superare le barriere della solitudine, come quelle che nel racconto iniziale costringono il bambino ammalato nello spazio della sua camera, ma dall’altro sono anche veicolo di aspettative e illusioni destinate a rimanere sospese in una sorta di eterna fantasticheria, come all’inizio di Doppio spettacolo con la comparsa di una televisione dietro una vetrina: «Adesso si poteva davvero credere a tutto, era questo il sentimento condiviso da quella piccola folla. Adesso davvero cominciava il futuro».

Un discorso a parte meritano gli ultimi due racconti, sia per la loro ampiezza (di trenta pagine ciascuno, compongono da soli quasi metà del volume), sia perché sviluppano in modo più articolato alcune dinamiche interpersonali che altrove mantengono contorni elusivi, a cominciare da quella erotica e amorosa. L’espediente della lettera, una costante dell’opera di Severini che già in Farfalle un giovanotto utilizza per entrare in confidenza con un amico, in Casella postale influenza anche la struttura del testo, costituito dalle sole lettere inviate da un ragazzo a un corrispondente trovato grazie a un annuncio, al quale racconta un difficile percorso di scoperta della propria sessualità, segnato anche da eventi traumatici. Anche qui Severini è molto abile nel trasformare il “non detto” in un fattore di tensione narrativa, sia scegliendo di presentare solo una parte della corrispondenza, sia calibrando le informazioni che il ragazzo si sente a poco a poco di condividere, sia tenendo volutamente celata l’identità del suo interlocutore, che una volta rivelata ridefinirà l’intero racconto in una prospettiva del tutto imprevista.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, invece, il mezzo a cui una signora poco attraente si affida per provare i piaceri di una relazione di coppia è la realtà virtuale, grazie alla quale può godere in segreto della bellezza di Chicco, ragazzo che prende vita da «un dischetto, un paio di occhiali e un guanto che sembrava far parte di un’antica corazza appena lucidata», in uno scenario di ripetizioni ossessive e allucinatorie che ha spinto René De Ceccatty a suggerire un paragone con L’invenzione di Morel di Bioy Casares. Ciò che appare come la materializzazione di una realtà che «supera il più ambizioso dei sogni», infatti, è anche un dispositivo di alienazione che asseconda un bisogno di solitudine e di oblio: «Il mio ideale» osserva la donna «era quello di avvicinarmi alla bellezza rendendomi invisibile».

In questi ultimi due racconti siamo molto lontani dal senso di indistinzione e di comunione che ai ricordi d’infanzia e adolescenza, in Radiosa entrò la radio e Primi passi, restituivano rispettivamente l’utilizzo della terza persona e della prima persona plurale, e all’emergere di una narrazione impostata sull’io fa riscontro il rilievo che assume il tema del confronto con sé stessi attraverso l’esperienza dell’alterità. Nei racconti di questa raccolta troviamo sia l’altro come figura che esiste solo (o soprattutto) nella mente dell’osservatore, sotto forma di proiezioni e illusioni fantasmatiche (Chicco è l’esempio più estremo di questa polarità), sia l’altro come figura della distanza, dal profilo sfuggente, incomprensibile, inavvicinabile (come la misteriosa signora di Madame, descritta perlopiù attraverso dicerie). È possibile immaginare i personaggi solitari di Severini come schiacciati tra questi due poli, o sospinti alternativamente dall’uno all’altro in cerca di un equilibrio, ma è importante notare come anche nei casi in cui l’incontro con l’altro non dà luogo a un dialogo vero e proprio, o comporta amare delusioni, si traduce comunque in un’occasione di comunicazione mediata con sé stessi, come la confessione per lettera che diviene strumento di auto-consapevolezza nel momento in cui l’“io” riesce a parlare di sé proprio perché esiste un “tu” a cui riferirsi.

Per uno di quegli apparenti paradossi che nella migliore letteratura trovano conferma, la costruzione dell’identità equivale allora alla dissoluzione di una concezione di identità rigida e autonoma, ovvero separata dalle relazioni interpersonali che le permettono di esprimersi. Per questo motivo anche la reticenza, la lacuna e l’allusione, nella prosa di Severini, rispondono a un’esigenza di sincerità, e la limpidezza della scrittura non è mai al servizio di un semplicistico tentativo di fissare confini, giudizi e definizioni, ma partecipa di una complessità di sguardo sul mondo che chiama in causa anche il lettore per essere decifrata, senza l’ambizione di esaurirne il mistero. Come nell’immagine della danza immobile di Primi passi, ciò che da fuori, a una prima occhiata, sembrerebbe fisso e monolitico, all’interno rivela infinite tensioni e sfaccettature, ma solo a chi è disposto ad abbracciare un orizzonte più ampio del proprio “io”. Nel finale di Quando Chicco si spoglia sorride sempre, lo sguardo della donna è rivolto a una coppia di ragazzi che osserva assieme al suo ragazzo virtuale in un gioco di sguardi, gesti e sorrisi che ricorda il riflesso di uno specchio, eppure è la vita come appare dalle finestre «sempre aperte».

Dalle finestre sempre aperte li vedo ridere, litigare, abbracciarsi, persino giocare a nascondersi per la casa. Io li guardo e approvo. Mi sale questo sentimento gioioso per la loro vita come se mi riguardasse, come se ne fossi personalmente coinvolta. Ho provato a farne partecipe Chicco. Lo porto davanti alla finestra tenendolo per mano. Gli dico: «Guarda.» Lui sembra vedere e capire. Ricambia persino la pressione delle mie dita. E sorride. Ma è il solito sorriso invitante, del tutto identico a quando comincia a spogliarsi. (p. 131)

Con Quando Chicco si spoglia sorride sempre la casa editrice Playground prosegue la lodevole iniziativa di ripubblicazione delle opere di Gilberto Severini, dopo che lo scorso anno, a pochi mesi di distanza dall’uscita del suo romanzo più recente (Dilettanti, Playground 2018), il volume Consumazioni al tavolo – Sentiamoci qualche volta (2019) ha riportato nelle librerie i primi due titoli della sua produzione in prosa, che risalgono rispettivamente al 1982 e al 1984. Trattandosi di opere nelle quali il lavoro sul linguaggio e sull’immaginario è condotto con estrema consapevolezza, libero dal proposito di inseguire mode o di appropriarsi di stili comunicativi di tendenza (e degli stereotipi che spesso vi si accompagnano), non stupisce che il passare del tempo non abbia minimamente intaccato la loro risonanza anche nei confronti delle nuove generazioni. Uno degli autori più interessanti della scena letteraria italiana contemporanea, Giorgio Ghiotti (classe 1994), annovera Severini tra i suoi scrittori di riferimento, e lo definì «scrittore raffinato, dalla voce inconfondibile, autore di veri e propri prodigi letterari ammirati da un pubblico ristretto ma fedelissimo». Troppe volte il nome di Severini è preceduto dalla fama di “scrittore più sottovalutato d’Italia”, secondo un giudizio attribuito a Tondelli (e talvolta riferito anche a Carlo Coccioli) che non rende conto di quanto lo stesso autore abbia volontariamente coltivato un’idea di letteratura e un’immagine di sé lontane dalle luci della ribalta. Sicuramente il numero di lettori che si avvicineranno alla sua prosa attraverso i racconti di Chicco non sarà comparabile con quello attratto dai premi letterari più ambiti, ma è probabile che la scoperta preluda in questo caso alla ricerca di molti altri tesori, ovvero al desiderio di conoscere più a fondo le opere di un autore dalla voce così limpida e sincera.


Gilberto Severini, Quando Chicco si spoglia sorride sempre, Roma, Playground, 2020, pp. 144, € 13.