Nel capolavoro di Ovidio, Le Metamorfosi, ci sono molti esempi di personaggi che si trasformano in elementi naturali: Dafne in albero di alloro; Narciso nel fiore omonimo, così come Giacinto; Filomene e Bauci in due alberi intrecciati, un tiglio e una quercia; persino la ninfa Ciane si scioglie in una fonte d’acqua. Nessuno di loro però si era mai trasformato in un giardino, fino ad ora. Il giardiniere e la morte è il nuovo libro di Georgi Gospodinov, uno dei nomi di spicco della letteratura europea contemporanea. Il suo ultimo romanzo parla della morte di suo padre, ma lo fa in maniera astutamente pacata.
Credo sia difficile trattare il tema della morte al giorno d’oggi; così abituati come siamo alla spettacolarizzazione del dolore propinata in tutti i modi nei contenuti che consumiamo: quando finiamo per imbatterci nella morte, quella vera, non sempre riusciamo a riconoscerla e dedicarle il giusto rispetto. Per questo quando ho iniziato a leggere questo libro mi è sembrato come fosse raccontato in “sordina”. Dove sono le urla? Le grida strazianti? La prefica bulgara che si dispera sulla tomba? L’aura di pacatezza che emana questo libro non è dovuta solamente alla narrazione leggerissima dell’autore – che riesce a costruire un discorso, sebbene pregno di emozione, mai ingombrante o sbilanciato da parole fuori posto – o ai moltissimi riferimenti al mondo classico, che la assimilano a quelle trasfigurazioni mitiche che cercano di spiegare i fenomeni naturali del mondo; più probabilmente è un’impersonificazione della stessa figura del padre dell’autore: un uomo mite, buono e taciturno.
L’idea che mi sono fatta del libro è che si tratti di un “diario-non-diario”. Non ha certamente l’impianto tradizionale del genere, non ci sono date – se non qualche riferimento cronologico esplicitato nel testo dall’autore stesso – ma ho percepito la stessa intimità che c’è tra un diario e il suo proprietario. Un diario, però, è un qualcosa di privato, non dovrebbe esserci permesso leggerlo. Ecco perché ho pensato che Il giardiniere e la morte è forse un libro senza pubblico. Un destinatario non ce l’ha, o meglio forse uno sì, ma uno di numero: Georgi Gospodinov. Se volessimo proprio esagerare, potremmo aggiungere anche lo stesso padre dell’autore a questa platea selezionatissima, ma questo è un libro dell’autore per l’autore – e per caso capita tra le mani di noi lettori, come se avessimo sgraffignato il quaderno degli appunti di Gospodinov dal cassetto del suo comodino e, buttando un occhio sulla porta di tanto in tanto per controllare che non arrivi, ne avessimo letto qualche pagina senza farci scoprire.
È chiaramente un testo sui generis, in parte perché prende corpo dagli appunti che Gospodinov scrive man mano che la malattia del padre progredisce; in parte perché, ancora una volta, la mano dell’autore solleva la narrazione dalle solite assi spazio-temporali, verso una dimensione astratta, dove il susseguirsi degli eventi segue regole proprie.
Oltre che non avere un pubblico, dunque, Il giardiniere e la morte non ha neanche un tempo. Lo stesso autore, soprattutto all’inizio del romanzo, fa susseguire una serie di capitoli che sarebbero tutti ugualmente adattissimi a fare da incipit; Gospodinov avrebbe potuto pescare un qualsiasi ricordo del padre e iniziare a raccontare da là. In effetti è così per tutto il libro, in una sorta di tombola familiare: stralci di memoria, sua e di suo padre, dal presente, dal passato e da piccoli frammenti di futuro appena intravisto. Questo movimento apparentemente caotico ha una strana ma efficace conseguenza, e cioè che la morte del padre non è il punto focale del discorso. Addirittura in prima pagina l’autore si premura di avvisare: «lasciatemi dire da subito che alla fine di questo libro l’eroe muore. Neppure alla fine, già a metà, ma poi è di nuovo vivo» (p. 9). Con questo avviso da bugiardino letterario, Gospodinov sfonda le aspettative di chi credeva di aver tra le mani un libro sulla morte, come promesso fin dal titolo. Ma la morte si accompagna da subito a un contrappeso: il giardiniere.
Perché ho parlato di metamorfosi all’inizio? A una prima lettura si potrebbe dire che il libro racconta la storia di un uomo che quando muore diventa il suo giardino. È una metamorfosi naturale, come quella di Filomene, di Bauci. Un uomo che si trasforma, nel momento della fine, in qualcosa che ha amato profondamente per tutta la sua vita, essendo probabilmente ricambiato. Ma a mio avviso c’è qualcosa di più. Se il fattore T di tempo cade in questa intima dimensione, allora è davvero giusto parlare di un momento in cui il giardiniere si fa giardino? Il giardiniere è sempre stato nel giardino, e viceversa. A maggior ragione se l’autore ci racconta che il padre di suo padre – il nonno di Gospodinov – aveva la stessa fissazione per il suo giardino, come un gene recessivo che in famiglia si risveglia con la vecchiaia. Anche i due fratelli, una volta scomparso il padre, riprendono in mano il quaderno dei suoi appunti sul lavoro che faceva nel campo.
Bisogna però fare un’aggiunta. Il giardino stesso segue le leggi della natura, della semina, del raccolto, del gelo dell’inverno e della rinascita primaverile. Dunque in sé ingloba la vita e la morte, accolta come rotella dell’ingranaggio. E se la morte non è più un punto T su una linea, ma segue dei cicli ricorrenti, allora il tempo smette di esistere nel giardino, così come nelle opere di Gospodinov.
Il giardiniere e la morte è allora un libro: senza pubblico, senza tempo e senza morte. Sembra un eufemismo, perché la morte in realtà c’è, ma, quante volte muore il padre dell’autore in effetti? C’è un primo falso allarme anni prima, vissuto in preparazione di un momento che sarà solo ritardato; poi c’è la lunga malattia, una paura che da un momento all’altro succederà l’inevitabile. La stessa ultima notte del padre, a metà del romanzo, è continuamente interrotta dall’autore che frappone altri brandelli di vita a quell’ultimo e più denso ricordo di morte. Dopo però tornerà a parlare di lui, che in qualche modo si trasforma, risorge, rivive nelle storie e nei fatterelli che Gospodinov ricorda. È quindi quella dell’autore una decostruzione che diluisce la morte, in modo tale da non farle occupare mai il posto in primo piano, ma affidandole un ruolo da comparsa, da semplice causa efficiente.
Ci sono poi altri due temi attorno ai quali ruota l’intera narrazione: il raccontare storie e la generazione del padre. Partiamo dall’ultimo. La frase che il padre ripete molto spesso nel corso non solo del libro ma della sua vita è, appunto, “niente di grave”, anche quando la situazione pare esserlo. Lui non si lamenta, anzi nel periodo della malattia non dice praticamente nulla. Si capisce però da un paio di passaggi che deve vergognarsi della sua condizione. Una condizione, in primis quella della vecchiaia, che porta molto spesso a non essere più del tutto autosufficienti, figurarsi con l’aggiunta di una malattia. Quante volte si scusa con il figlio, quante volte dice di stargli arrecando disturbo; si sente forte l’imbarazzo di chi per la prima volta è l’accudito e non colui che accudisce: un uomo che non ha mai avuto un’infanzia sembra viverla negli ultimi giorni della sua vita.
Purtroppo è così anche per molti di quella generazione, per la quale le esigenze psicologiche e lo sviluppo di un’intelligenza emotiva non sono state una priorità, anche per ragioni storiche. È molto tenero però il rapporto di questo figlio che inizia a prendersi cura del padre come a ruoli invertiti; è come se lo ripagasse di tutti gli anni in cui le parti invece erano quelle giuste e Gospodinov, senza mai sbordare nel sentimentale, riesce finalmente ad avvicinare suo padre. Parlando di generazioni e traumi tramandati di ramo in ramo, c’è una cosa che mi ha però fatto storcere il naso: «mia madre e mia moglie si svegliarono e si unirono in silenzio alla veglia. Di colpo ebbi paura che mia figlia si svegliasse ed entrasse. Non doveva vedere tutto quel sangue e quella morte» (p. 81). Se la morte viene alla fine accolta come parte del gioco mi chiedo se sia giusto privare qualcuno, anche se giovane, del diritto alla sofferenza. Il padre non è solo il padre di chi scrive, ma è anche il nonno di sua figlia. La smania di proteggere i più piccoli (da cosa poi?), ritenuti più deboli, porta semplicemente all’inesperienza: «Perché nessuno ci insegna cosa fare con la morte degli altri? Perché nessuno ci insegna come si muore, come dobbiamo morire?» (p.85) dirà giustamente l’autore pochi capitoli più avanti. L’ultimo punto riguarda le storie. Il bisogno di scrivere quello che sta succedendo e di rifugiarsi nel racconto compare più volte nel testo: gli appunti presi a mano per non dimenticare nulla o l’albero genealogico ricostruito alla svelta con la figlia e le storie stesse che Gospodinov racconta per stemperare, addolcire e ricordare suo padre e così farlo vivere ancora un po’. Trovandosi davanti un evento così denso e asfissiante, è comprensibile che il modo più efficace per digerirlo sia quello di fuggire altrove, in un’altra dimensione, che Gospodinov è abilissimo nel costruire.
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G. Gospodinov, Il giardiniere e la morte, traduzione di Giuseppe Dell’Agata, Roma, Voland, 2025, 208 pp., 19 €.







