I capitoli d’apertura di Vittima, romanzo d’esordio di Andrew Boryga (pubblicato in Italia da 66thand2nd nella traduzione di Violetta Bellocchio), contestualizzano con grande efficacia la realtà ambigua e turbolenta in cui è cresciuto il protagonista e narratore. Javi Pérez, newyorkese di nascita, è a Puerto Rico a fare visita al padre, stereotipo del macho latino-americano, affabile e carismatico ma anche aggressivo. Javi ha dodici anni e a Puerto Rico si annoia: gli mancano le comodità di casa; gioca da solo con le sue carte dei Pokémon, incapace di comunicare in spagnolo coi ragazzi del luogo; i tentativi del padre di scuoterlo dal torpore, perlopiù brutali, lo lasciano ferito e incollerito. La noia e la frustrazione di questa vacanza evaporano però nel giro di qualche pagina, quando il padre di Javi, spacciatore di professione, viene assassinato durante una festa.
Tornato a casa, Javi fatica a processare l’esperienza e ad abituarsi all’idea che il padre, a cui pure era legato da un rapporto carico di delusioni, sia scomparso per sempre. Ciò a cui invece si abitua con fin troppa facilità sono i benefici che la scuola si sbriga a concedergli per via della tragedia: il diritto di saltare le lezioni, di passare le ore scolastiche in infermeria, di prendersela comoda.
È in questo passaggio chiave – e in una manciata di altre esperienze accumulate durante la tarda adolescenza – che Javi sperimenta il potere sorprendente del suo stato di vittima: i modi in cui tale stato può influenzare la sua storia. Un consulente in visita alla sua scuola, e che approccia Javi con un’attitudine quasi comica di timore misto a zelo, lo incoraggia a giocare bene le sue carte, e a sfruttare le proprie esperienze come una chiave in grado di aprirgli le porte di un futuro che non aveva nemmeno mai sperato. Le università di prestigio, gli spiega, sono alla ricerca di studenti come lui, provenienti da ambienti poveri e che siano sopravvissuti a esperienze traumatiche. Il paradosso della situazione non sfugge certo a Javi: lui stesso non si sente una vittima; la sua vita gli appare relativamente comoda e non priva di fortune, in primis l’affetto e le cure della madre. Non tarda però a capire quanto proficuo possa rivelarsi sfruttare il modo in cui appare agli occhi degli altri, soprattutto quelli di persone privilegiate, perlopiù bianche.
Da questo incipit e da una serie di episodi di infanzia parte Vittima, storia dei trionfi e delle umiliazioni di Javi come manipolatore esperto della realtà: se non proprio un bugiardo, senz’altro un inveterato “distorsore” di fatti e esperienze. Visti i suoi dichiarati successi come esageratore professionista, è difficile giudicare quanto affidabile sia Javi come narratore: nella pagina di apertura del libro descrive la sua ascesa e caduta come un processo in cui è inciampato suo malgrado – «non l’ho creato io questo imbroglio. Mi ci hanno fatto entrare» – ma appare piuttosto palese come le libertà che si prende con la propria storia, sebbene inizialmente giustificate dal desiderio, per altro tiepido, di raggiungere obiettivi ambiziosi (un college di prestigio, una borsa di studio), vengano ben presto motivate dalla semplice pigrizia: la voglia di mantenere e accrescere il proprio status, in particolare sui social media, senza sforzi. Già al college Javi è castigato dai professori per come i suoi saggi manchino di sostanza e supporto teorico; una volta lanciato nella sua carriera da giornalista, appare ugualmente disinteressato a corroborare i suoi scritti con dettagli “superflui” come fatti e fonti imparziali.
Non che le testate in cui pubblica siano poi troppo esigenti. Vittima è, in primo luogo, un romanzo sulle tendenze estreme e disfunzionali della cultura dei media contemporanei: un mondo in cui le storie che contano sono quelle che accumulano più visualizzazioni, e in cui i giornalisti stessi sono incoraggiati a competere in “tornei” in cui i contenuti da loro prodotti vengono premiati a seconda di quanti click attraggono. Un mondo che esiste in sinergia perpetua coi social, e in cui l’identità del singolo (o almeno l’identità del singolo online) è definita dai contenuti che si condividono e ripostano. L’indignazione e la rabbia suscitata dalle storie di Javi pare genuina, e i commenti che riceve dai lettori – adorazione per lui, odio per i colpevoli dei presunti atti razzisti che denuncia – sembrano senz’altro genuini, ma appaiono spesso come reazioni emotive e virulente più che riflessioni profonde: reazioni su cui le testate per cui lavora Javi non esitano a capitalizzare, accumulando profitti sulla rabbia e sulla sete di giustizia dei lettori.
Se è impossibile vedere Javi semplicemente come una vittima, è fin troppo semplice dipingerlo come un “banale” truffatore. Le ingiustizie sistematiche che lui stesso esagera nei suoi scritti per soddisfare i lettori – descrivendo un mondo in cui i ragazzini del Bronx vivono nel terrore perpetuo delle violenze della polizia, e in cui il suo campus privilegiato è affetto da un razzismo serpeggiante e velenoso – effettivamente esistono. Per chi non è nato coi giusti mezzi, è estremamente difficile accedere al mondo patinato e ovattato dell’industria culturale. Possiamo dunque davvero giudicare Javi per aver giocato a un gioco creato da università opulente in cerca di una patina di diversità, o da riviste a caccia di storie d’orrore di vita di strada? È così sbagliato che si sia costruito una carriera dando a questa industria esattamente ciò che voleva?
Ma forse la colpa o l’innocenza c’entrano poco con la questione di Javi. Il modo in cui si ritrova a rincorrere il successo, i like e l’approvazione dei suoi follower lo fanno sembrare non tanto un truffatore, quanto una persona affetta da dipendenze. Come un drogato spinto a derubare i famigliari per assicurarsi una dose, Javi arriva a scrivere dei propri cari (ex-ragazze, amici d’infanzia) in modi che ne deformano l’esperienza vera, ma che delineano storie di ingiustizie facilmente digeribili, trasformandoli da persone complesse e contradditorie in semplici ipocriti, razzisti, oppressi. Tutto per assicurarsi che il flow dei like non si spenga – per restare sulla cresta dell’onda dell’attenzione.
Visto il suo interesse nell’indagare la fame dell’industria mediatica americana per le storie truculente sulla vita delle minoranze urbane, il romanzo di Boryga ha portato i critici a confrontarlo con un altro romanzo americano, Cancellazione di Percival Everett, pubblicato originariamente nel 2001 ma riemerso nelle librerie, sia italiane che anglofone, grazie al supporto parallelo del suo adattamento cinematografico (American Fiction, uscito nel 2023) e del grande successo di pubblico e critica di James, il romanzo più recente di Everett. Sia Vittima che Cancellazione sono scritti dalla prospettiva di uno scrittore americano non-bianco (latino il primo, afroamericano il secondo) costretto, o persuaso, a capitalizzare il desiderio del grande pubblico di leggere storie sulle condizioni di vita oppressive e brutali delle minoranze – desiderio mostrato persuasivamente come tinto da un tono macabro di voyeurismo e superiorità. Va detto che i due romanzi sono altresì assai diversi, come dimostrato anche solo dai rispettivi protagonisti: Javi è un ragazzo di strada che, fino alla fine del romanzo, abbraccia in pieno la propria identità e utilizza linguaggi e visioni del mondo tipiche del suo ambiente di provenienza; Thelonious, protagonista di Cancellazione, è invece un accademico e scrittore sperimentale, figlio di una famiglia di medici, a suo agio principalmente nel mondo delle idee e dei grandi pensatori. È comunque innegabile che le due opere condividano elementi chiave e paralleli quasi bizzarri, come il fatto di contenere entrambe scene clou ambientate sul set di talk show televisivi.
Vittima è un’opera figlia della propria epoca, pubblicata con un tempismo per molti versi infelice. Scritto e inizialmente pubblicato negli USA durante gli anni dell’amministrazione Biden, in cui le questioni di diversità e inclusività erano tornate sulla cresta dell’onda, a meno di un anno dall’uscita ha intersecato il ritorno al potere di Trump e la vendetta ferrea ed estrema contro ogni genere di iniziativa volta a promuovere la diversità – vendetta che ha colpito profondamente la facciata della vita culturale americana, in particolare il mondo accademico e scientifico. In uno scritto recente, Boryga stesso sostiene che questo sviluppo abbia reso il romanzo ancora più profetico. La rapidità con cui brand e grandi aziende hanno abbandonato i propri impegni a promuovere diversità e giustizia sociale ha messo in luce precisamente quello di cui Vittima parla in maniera così persuasiva, ossia il fatto che queste iniziative e correnti culturali siano, troppo spesso, una moda, legata a semplici ragioni di mercato e scollegata dalle supposte (e ipocrite) convinzioni morali di conglomerati, multinazionali o testate globali. Una moda che è infatti scomparsa al cambiare del vento.
Può darsi. È però innegabile che il romanzo, e la sua critica della cosiddetta cultura woke, si leggano in maniera inevitabilmente diversa in un periodo storico in cui i valori associati a quest’idea (la necessità di agire in maniera concreta per ovviare alle inuguaglianze e alle ingiustizie del mondo contemporaneo) stanno subendo, in America e non solo, un attacco sistematico e brutale. Ma forse Vittima è diventato così presto vittima del suo tempo anche per via di una certa mancanza di dimensionalità, di quella complessità e apertura alle contraddizioni che si avvicina alla realtà dell’esperienza e della psiche umana e assicura la longevità ai romanzi.
L’impressione che si ha leggendo Vittima è – a tratti, e nei suoi momenti meno fortunati – che si tratti proprio del genere di opera che ha portato alla fortuna del suo protagonista: una narrazione sì ingegnosa e ben costruita, ma anche calibrata minuziosamente per ottenere il massimo impatto emotivo col minimo sforzo. Diversi personaggi appaino fin troppo stereotipati: il padre di Javi, spacciatore arrogante; la madre, donna latina sfacciata e cocciuta; l’amico Gio, le cui esperienze di vita e gli anni in carcere paiono aver trasmesso poco più di un calmo stoicismo. Più che complicare le questioni legate a razzismo, autenticità e cultura dei media, Vittima pare a volte volerle semplificare, riducendole a una mera questione di ipocrisia e andando pericolosamente vicino alle posizioni, ormai in ascesa negli Stati Uniti, che vedono nella condanna del razzismo sistematico un atto fondamentalmente ipocrita.
Tutti questi aspetti non affossano il romanzo, ma ne fanno semmai un grande lavoro mancato. Vittima resta una lettura coinvolgente, in larga parte in virtù della sua irriverenza, e un ritratto convincente di una vita passata in bilico fra mondi diversi: New York e Puerto Rico; il Bronx e i borough più benestanti; un quartiere povero e un college ricchissimo. È nel descrivere i modi strani e inaspettati in cui questi mondi formano e alterano il carattere di Javi, lasciandolo in sospeso tra realtà a volte contraddittorie, che il romanzo risulta più convincente. È possibile (e giusto) applicare ideali progressisti sviluppati nel vuoto clinico delle università a contesti urbani che spesso li vedono con diffidenza? Chi crede nell’uguaglianza e nel riscatto degli ultimi ha il dovere (o il diritto) di condividerne le condizioni di vita? E ci si può mai sottrarre davvero al gioco dell’hustling, al doversi vendere e arrabattare per fare successo, sfruttando qualunque carta ci conceda la vita? È nei momenti in cui solleva questi quesiti che Vittima si rivela una lettura davvero interessante, un’analisi di alcune delle derive più recenti, e perverse, dell’insopprimibile sogno americano.

Andrew Boryga, Vittima, traduzione italiana di Violetta Bellocchio, Roma, 66thand2nd, 2025, € 19, 324 pp.







