Quattro personaggi – due ‘lui’ e due ‘lei’ – camminano in mezzo ai boschi, osservano ciò che accade intorno a loro, si sforzano di decifrare i segni sulla loro strada.

A ben vedere, la storia raccontata in Noi, l’ultimo libro di Alessandro Broggi, è tutta qui. Nella settantina di pagine in cui si sviluppa succede poco altro. Non ci sono eventi in senso forte. Quasi tutte le azioni compiute dai protagonisti sono prive di quel minimo di avventurosità che dovrebbe invogliarci a proseguire nella lettura. Anche quando accade qualcosa di significativo il racconto non ne risente più di tanto. A un certo punto, per dire, uno dei quattro protagonisti è sbranato da un orso, ma il fatto non sembra incidere sul resto della storia.

A ciò va aggiunto che il racconto è privo, o quasi, di quel tanto di interiorità che consente al lettore di affezionarsi ai personaggi. Di quanto questi ultimi pensano o provano non è detto quasi nulla. O meglio, loro stessi non dicono nulla. A raccontare la storia è infatti un ‘noi’, una prima persona plurale dietro la quale si nascondono i quattro protagonisti, ma che risulta per lo più imperscrutabile. Quanto al modo in cui questo ‘noi’ si esprime, ecco un esempio emblematico: «Occorre evitare di trarre conclusioni inconseguenti, farne recedere l’incombenza. I nostri gesti casuali devono procurare informazioni d’umore di cui non ci accorgiamo».

Insomma, a trattare Noi come un romanzo, e a leggerlo come se lo fosse, ci si trova subito in difficoltà. E non è che le cose cambino molto rifugiandosi dietro l’etichetta di ‘romanzo sperimentale’. Probabilmente, non è questo il modo migliore di avvicinarlo. Bisogna rifare tutto da capo, ricominciare dall’inizio, anzi dalla fine. Il libro si chiude infatti con una nota in cui l’autore spiega che «il dettato di Noi è quasi interamente costruito come una sottile e fitta trama di microprelievi, effettuati da testi esistenti di diversa provenienza». E poi, citando Borges, si dichiara convinto che «la lingua è un sistema di citazioni». In gioco c’è dunque l’idea che si possa scrivere un testo riutilizzando ciò che altri hanno scritto; e soprattutto c’è l’idea che più che parlare noi tutti siamo parlati, che anche quando crediamo di essere massimamente autentici non facciamo altro che ripetere discorsi e parole dette da altri.

Niente di nuovo, certo; e comunque non è la prima volta che Broggi lavora in questo modo. Chi ne conosce l’opera, sia in versi che in prosa, sa che fra le sue cifre più distintive ci sono appunto il prelievo di materiali da fonti disparate e la loro manipolazione (non)creativa. E chi non ne ha mai letto nulla ma lo segue su Facebook sa che sulla sua bacheca Broggi affigge quasi soltanto brani tratti da testi di varia natura. Brani di cui spesso, naturalmente, non ci viene detto chi sia l’autore. Peraltro, il 16 giugno 2021 Broggi ha postato l’elenco di tutte le fonti da cui ha prelevato il materiale poi utilizzato in Noi. E se solo avessi il tempo sarebbe interessante capire da chi ha preso cosa, e il tipo di torsione a cui ha sottoposto i frammenti in questione.

Ma il punto è che siamo di fronte a un’operazione che ha poco a che fare con il modo in cui solitamente si procede per dare forma a una storia. L’armamentario del romanziere, Broggi lo lascia da parte; dei precetti alla base dell’‘arte del racconto’ non sa bene che farsene. Proprio per questo motivo avrebbe forse più senso parlare di Noi accostandolo a una serie di esperienze in senso lato poetiche, o post-poetiche, che puntano a straniare forme e generi tradizionali, a mettere da parte ogni sorta di illusionismo mimetico. Del resto, il libro appare in una collana (UltraChapBooks) di una casa editrice (Tic) che ospita testi non allineati alle idee preconcette e oggi dominanti di poesia, narrativa ecc. E comunque è inutile girarci intorno: Noi si rivolge anzitutto a un pubblico di lettori che ha familiarità con questo tipo di testi, con l’universo delle scritture cosiddette di ricerca.

E chi invece non ha familiarità con quel mondo? Come reagirebbe di fronte a Noi? Più banalmente, perché dovrebbe leggerlo? Perché confrontarsi con un testo narrativamente poco affabile, alla cui base c’è un investimento concettuale che non può essere del tutto eluso?

Per provare a rispondere, credo che il modo migliore sia ripartire da uno degli aspetti più peculiari del libro, cioè dalla sua voce narrante. Confesso di sentirmi una specie di partner in crime dell’autore, nel senso che verso la fine del 2014 gli girai sottobanco una serie di saggi incentrati su ciò che i narratologi definiscono we-narrative, qualcosa come ‘racconto del noi’: romanzi e racconti in cui a prendere la parola è un’istanza collettiva. Si tratta di un modo di raccontare poco diffuso, che pone notevoli problemi teorici; l’esempio più noto a un pubblico di non specialisti è forse Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides (per l’Italia si cita spesso Fontamara di Ignazio Silone, che immagino nessuno legga più).

Ma non voglio annoiare chi sta leggendo, per cui mi limito a dire che Noi fa qualcosa di sensibilmente diverso da altre we-narratives, ma anche da quei testi (report di ricerche svolte in gruppo, manifesti, testimonianze di ricordi condivisi) che al di fuori della letteratura di finzione ricorrono alla prima persona plurale. Siamo abituati a pensare al ‘noi’ come a una specie di corazza pronominale, dietro a cui si nasconde una serie di ‘io’, di individui che aggregandosi cercano di farsi forza, di dare più risonanza alle proprie rivendicazioni, o più semplicemente di sentirsi parte di una comunità. Qui, invece, il ‘noi’ somiglia a un guscio vuoto, a una scorza sotto la quale non si agita alcun ‘io’. Ovviamente, sappiamo che alle sue spalle ci sono Norberto, Tania, Eleonora e Maurizio – i quattro protagonisti. Ma la loro somma, se ha senso dire così, non prelude ad alcun rafforzamento vocale. Né sembra esserci in gioco alcuna volontà di testimonianza, nessun tentativo di amplificare un sentire condiviso.

Ecco. Anche solo per questa ragione credo varrebbe la pena leggere Noi. In mezzo a una schiera di prime persone che sgomitano per esibirsi e dire la loro, il soggetto plurale di Noi suggerisce un percorso diverso. Ai soggetti estroflessi di tanta autofiction, ma anche di tanto saggismo più o meno creativo, Broggi contrappone un’istanza ‘cava’, che non smania per esternare ciò che ha dentro ma al contrario si sforza di entrare in contatto con quanto è fuori da sé.

Prima ho scritto che leggendo Noi non sappiamo ciò che i personaggi pensano o provano, e che dunque le loro esperienze più autentiche ci sono precluse. Non è esattamente così. Sarebbe più corretto dire che Noi tematizza un tipo diverso di esperienza, ovvero che mette in discussione l’idea che l’esperienza sia la somma di tutti i fatti che ci sono accaduti, di tutte le storie che abbiamo vissuto e che abbiamo fatto oggetto di una rielaborazione interiore. In Noi l’esperienza è qualcosa di molto più epidermico, di letteralmente superficiale, che emerge a partire dalle interazioni con l’ambiente in cui si è immersi. Non per caso, camminare è per i personaggi il solo modo di conoscere il mondo che hanno di fronte: «Questo nostro camminare – leggiamo a un certo punto – produce abitudini mentali, posture, pregiudizi, conoscenza». E d’altro canto il libro è pieno di affermazioni, cioè di citazioni, che girano intorno all’idea di un’interdipendenza fra i personaggi e lo spazio in cui si trovano: «Pur riconoscendo loro la natura selvaggia, le nostre vite e quelle delle piante e degli animali ci sembrano ormai vicendevolmente costitutive»; «Liberandoci per sempre dalla separatezza siamo stabilmente a contatto con lo spazio in cui ci troviamo, diventiamo l’altro»; e così via. Attraverso questo genere di asserzioni Broggi sembra dirci che l’‘io’, e quindi il ‘noi’, esistono solo nella misura in cui provano a pensarsi come parte dello spazio che li circonda, di un paesaggio che è tutto fuorché uno sfondo inerte. Col rischio di banalizzare il discorso, si potrebbe dire che il protagonista del libro è proprio lo spazio; che è poi una sorta di iperspazio, o di spazio aumentato, nel senso che mescola e sovraimpone l’uno sull’altro elementi provenienti da diversi ecosistemi, per cui un tucano può manifestarsi dove prima c’era una lepre, una manioca occupare lo stesso spazio di un melograno, sprazzi di macchia mediterranea alternarsi a scenari tropicali.

Mi rendo conto di essermi espresso in maniera grossolana, di essere andato troppo a braccio. Per spiegare ciò che c’è ‘dietro’ a Noi bisognerebbe utilizzare strumenti più sofisticati, mobilitare concetti propri della psicologia della percezione, della filosofia della mente, delle scienze cognitive, dell’ecocritica. Anche se non credo che sia necessario padroneggiare un simile bagaglio teorico per apprezzare il libro. D’altra parte, è probabile che esibendo lacerti testuali concettualmente complessi, o forse solo retoricamente farraginosi, Broggi abbia voluto farsi beffa dei tanti discorsi filosofici e parafilosoficiche vogliono convincerci della necessità di un modo diverso di pensare il rapporto fra noi esseri umani e il mondo che ci ospita.

Se c’è una cosa che Noi non fa, del resto, è proprio cercare di convincere il suo lettore di qualcosa, men che meno di spronarlo ad agire. Piuttosto, il suo scopo sembra essere quello di mostrare una particolare postura ricettiva, un modo diverso di porsi nei confronti di ciò che ci accade intorno. Forse si potrebbe pensare a Noi come a una sorta di paradossale prosa meditativa – la versione concettuale di un trattato new age? –, ovvero come a un testo che non assume prese di posizione nette ma tenta di rappresentare, più che raccontare, un tipo diverso di soggettività: più compassata, più distaccata, ma anche più aperta e dialogica di quella oggi sbandierata da tante scritture dell’‘io’.


Photo credit: Arte Sella


A. Broggi, Noi, Tic, Roma 2021, 72 pp., € 14.