Quando il presidente della giuria Spike Lee, durante la cerimonia di premiazione al festival di Cannes, commise una gaffe rivelando anzitempo il vincitore dell’edizione 2021, non furono in pochi a rimanere sorpresi dalla scelta. Davveo Titane di Julia Ducournau aveva vinto la Palma d’oro? Un body horror con protagonista una ballerina che rimane incinta di una macchina? Fin dalla prima proiezione la critica sul film si era divisa nettamente tra chi intuiva la genialità del progetto, nonostante gli elementi disturbanti – vedi il Chicago Sun times – e chi lo demoliva senza mezze misure, disgustato da un certo yucky flair (“tocco schifoso”) come Il Guardian. Per non parlare della nostra critica istituzionale, tra cui spicca il commento lapidario di Mereghetti, che parla di un film finito incomprensibilmente in gara e Nanni Moretti – in concorso anche lui con il film Tre piani – che commenta ironico la vittoria del film con un post su Instagram. Solitamente quando un’opera polarizza così tanto il dibattito gli scenari sono due: o siamo di fronte a una truffa o a uno di quei film che hanno il sapore del futuro. Per chi vi scrive, non c’è dubbio che con Titane siamo nel secondo caso. Julia Ducournau si era presentata al Festival da predestinata del nuovo cinema francese, con all’attivo qualche cortometraggio, e un solo film, Raw – presentato sempre a Cannes – , in cui mette in scena una storia di due sorelle cannibali in una scuola di eccellenza di veterinaria. Fin dall’esordio la regista fa sfoggio di grandi abilità tecniche, tra piani sequenza audaci e una sceneggiatura efficace, oltre a uno stile personale figlio di una profonda conoscenza dei maestri del genere horror, da John Carpenter a Tobe Hooper, passando per la fantascienza dark e organica di David Cronenberg. Ed è soprattutto a quest’ultimo il nume tutelare a cui la regista si affida per il suo Titane, film dalla natura mutante dove mitologia, fantascienza, body horror si fondono miracolosamente per raccontare, in fondo, una storia d’amore. Alixia è una ballerina che si esibisce in saloni per automobili e le sue performance consistono in sensuali danze sopra il cofano di auto che sembrano uscite dall’ultimo capitolo di Fast and Furious. Alixia ha una placca di titanio nella testa a causa di un incidente d’auto avvenuto quand’era bambina e per questo una grossa cicatrice attraversa una porzione del suo cranio. Questa protesi non le ha impedito di diventare una performer alquanto famosa nel suo genere, con tanto di turba stravolta di uomini che la abbordano senza poesia fuori dallo spogliatoio. È proprio L’incontro con un ammiratore un po’ troppo invadente a mostrarci l’altro talento di Alexia: quello di uccidere. Incrocio tra Nikita e Terminator, Alixia si rivela una fredda macchina di morte, implacabile nell’eliminare le proprie vittime, non appena si sente minacciata. A scatenare il suo istinto omicida sembrano essere i tentativi da parte di un qualsiasi umano ad entrare in intimità con lei. Solo con le auto sembra sentirsi al sicuro, tanto da accettare le avance di una Cadillac, farci del sesso, e rimanere incinta. Gravida e con la polizia sulle sue tracce per la striscia di morte che si lascia dietro, Alexia si dà alla fuga, cancella ogni traccia del suo passato e cambia identità, fingendosi il figlio maschio scomparso di un pompiere ultramachista. La prima grande sorpresa di Titane è l’inaspettata tenuta di una trama così inverosimile. Sempre in perfetto equilibrio tra il grottesco e il ridicolo, le scene si susseguono conquistando la fiducia dello spettatore, attraverso un ritmo incalzante e un immagine che seduce. Man mano che la pellicola corre, il dna della storia si altera, evolve, e il pubblico con lui, quasi incredulo all’inizio, poi affinando orecchio e vista e sintonizzandosi sulle nuove frequenze. La regista non guida la visione disseminando indizi, ma innesta sotto la pelle del film una serie di riferimenti ambiziosi, molti dei quali recuperati dalla mitologia greca. Come il collega greco Yorgos Lanthimos, che scomoda il tema tragico dell’ubris nel suo recente Il sacrifico del cervo sacro, qui Ducornau attinge direttamente alle vicende degli dei, in particolari di quei titani, giganti mostruosi figli di Urano e Gea, che sfidarono l’antico ordine dell’Olimpo per instaurarne uno del tutto nuovo. Un po’ come fanno la ballerina Alexia e il pompiere Vincent, creature dolenti e mostruose, che decidono di unire le loro deformità spirituali e fisiche andando contro qualunque convenzione e covando insieme un misterioso futuro di carne e metallo. Il film mantiene un respiro da sinfonia gotica con intermezzi ed episodi che si susseguono introducendo temi diversi, quasi come se l’opera contenesse in sé altre opere. Difficile infatti considerare la prima e la seconda parte di Titane come un unico film, tanto è grande la differenza di atmosfera, luce, ritmo e persino personaggi. Per i primi trenta minuti potremmo benissimo essere in un film di Tarantino, o di Takashi Miike, in cui i corpi si dimenano, si flettono, sono palpati e poi massacrati da fermagli per capelli o gambe di sedie, mentre risuona la canzone “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli. Subito dopo ogni elemento cambia, la luce si fa più calda, il ritmo meno vorticoso e al thriller adrenalinico si sostituisce il dramma, con Alexia e Vincent a confrontare la misura dei propri abissi in un rapporto padre-figlio inedito. Agathe Rousselle, al suo primo lungometraggio – e scovata dalla regista con un casting su Instagram – ci mostra tutti i passaggi della metamorfosi di Alexia, da ballerina a ragazzo, grazie ai suoi lineamenti androgini, un corpo flessuoso e camaleontico che, da oggetto sessuale, viene piegato dalle necessità, subisce fasciature per nascondere femminilità e gravidanza mentre perde olio motore dai seni: transumano latte materno. Dall’altra Vincent è il monumento vivente al tracollo del modello machista: ammasso di muscoli cascanti e scossi da improvvise crisi di pianto, si inietta ogni sera steroidi per sconfiggere l’usura di un corpo martoriato e rimanere così il maschio alfa a capo del suo branco di giovani pompieri. Per certi aspetti la sua figura ricorda quel modello di virilità in declino mostrata da Darren Aronosfky in The Wrestler, in particolare quando la camera indugia più volte sulla goffaggine di una macchina umana che ha perso la centralità nella sua stessa storia. Il rapporto tra Vincent e Alexia – nei panni di Adrien, il figlio perduto – vive di pochi dialoghi, sospetti e tensioni che trovano il loro scioglimento solo quando i corpi – ancora loro – trovano un linguaggio per esprimere l’indicibile: la danza. Nel film sono diverse le scene di ballo, a partire dalle performance sexy di Alexia sulla Cadillac, fino ai balli camerateschi ma teneri tra i pompieri, ed è attraverso l’incastrarsi e l’annusarsi di questi corpi in movimento che avvengono i veri riconoscimenti e le comprensioni reciproche. I canali di comunicazioni sono quindi anch’essi mutati e il dispositivo per esprimersi non è più la voce con i suoi dialoghi, ma il corpo con il suo muoversi e ricercare l’altro. Titane per questo e molto altro resta un film che sfugge alle facili catalogazioni, è un oggetto non identificato che racconta proprio la demolizione delle categorie, anche di genere. Sarebbe però un errore cercare in Titane un film sulla gender fluidity o sulla transessualità, in quanto i protagonisti non scelgono di trasformarsi, ma lo fanno loro malgrado, per evoluzione e sopravvivenza, come da lezione di Darwin. Semmai Titane è il manifesto della nuova carne del cinema, che assimila l’insegnamento di Cronenberg e lo trascende, cantando l’infinito mutare delle nostre identità.