Ho potuto intervistare Maylis de Kerangal – scrittrice francese, autrice, fra gli altri, di Nascita di un ponte (2013), Riparare i viventi (2015), Lampedusa (2016) e Corniche Kennedy (2018) – in occasione del premio Lattes Grinzane, che la vedeva fra i finalisti, con Richard Russo, Bernardine Evaristo, Kader Abdolah e Nicola Lagioia, vincitore poi con La città dei vivi (Einaudi, 2020).

Le chiedo perché abbia scelto di raccontare una vicenda di cui mette in luce più volte l’estrema precarietà: se ci fosse un tentativo di denuncia, quasi di impegno. Il suo ultimo libro, Un mondo a portata di mano (Feltrinelli, 2020), racconta infatti di quel momento fra formazione e ingresso, titubante, nel mondo del lavoro: «ero affascinata» risponde «da questi ragazzi nomadi, sempre affacciati su un futuro incerto, i cui programmi si annullano in un pomeriggio. Le loro esistenze mi sembrano castelli di carte che è difficile mantenere stabili. La molteplicità delle loro esperienze richiede coraggio: stare nella fragilità e nella precarietà esistenziale richiede coraggio. Ma non voglio mai inserire messaggi espliciti, fare romanzi a tesi: vorrei solo raccontare lealmente una storia».

Il suo è un Bildungsroman in cui l’idea di iniziazione e formazione è duplice e intrecciata: Paula, che studia decorazione a Bruxelles e si specializza in trompe-l’oeil, impara un mestiere, una disciplina anche fisica, prendendo via via contatto con il suo corpo, costringendolo in nuovi gesti, e, innamorandosi di un compagno di corso, Jonas, con nuove modalità di relazione.

Impara come riprodurre le textures di varie materie, fino a poter ingannare lo sguardo. Il testo è intriso di terminologia artistica, sì, ma senza il mito della creazione “in proprio”, o meglio, indagando quella forma di creazione-ricreazione che è la copia: «Non volevo trattare delle alte sfere dell’arte, non l’Arte con la maiuscola, ma quelle pratiche minori, la copia, la decorazione, dando loro un’importanza di primo piano. Copiare è un’appropriazione, bisogna conoscere a fondo per riprodurre. M’interessa l’idea che i copisti siano i veicoli di trasmissione della conoscenza anche attraverso la loro fisicità. Lei stessa, Paula, all’inizio è un’adolescente un po’ flou, dai contorni poco definiti. Mi piace pensare che si trovi, si formi, imparando le diverse tecniche, viaggiando. E poi sì, che anche l’amore, questa storia d’amore sotterranea che percorre il romanzo, la riveli a se stessa, come spesso fa l’amore. E mi piaceva sottolineare la fatica fisica, i segni che il processo di apprendimento lasciano sul suo corpo: in antropologia si studia che spesso i riti di passaggio comportano una marchiatura, una alterazione corporea».

Ho letto che dopo l’uscita di Nascita di un ponte un intervistatore le ha chiesto se il suo fosse uno pseudonimo femminile, dietro cui si celava uno scrittore, competente di cantieri e opere pubbliche. La sua produzione romanzesca spazia fra contesti e ambientazioni differenti, ma molto rigorosa è sempre la ricostruzione del linguaggio: «I miei romanzi trattano di ambiti diversi – di cantieri, grandi opere pubbliche, di medicina d’urgenza… – e sono per me occasioni di imparare linguaggi nuovi, tecnici, settoriali. Attraverso ciò che mi è sconosciuto cerco qualcosa che mi riguarda. Forse il filo rosso che li lega è l’azione collettiva: è la connessione con gli altri che ci ripara. Volevo decostruire quest’idea dell’artista solo, autoriferito, che lavora isolato, lui e il suo genio. I protagonisti lavorano e studiano insieme, collaborano, vivono più come una bottega rinascimentale, un luogo di apprendimento collettivo».

A chi le chiede del suo lavoro, delle ricerche preliminari, risponde: «Faccio ricerche, mi documento sui soggetti dei miei romanzi, sì, ma non prima di iniziare a scrivere, più durante, parallelamente: trovo che accumulare troppi dati, troppi dettagli inibisca l’invenzione. Ho una poetica quasi baudelairiana: cerco corrispondenze, analogie. Credo che l’immaginazione consista essenzialmente nel mettere in relazione le cose. Più ci si documenta, più si è precisi, più si dà libertà all’invenzione».

L’idea del romanzo, continua, nasce alcuni anni fa, quando de Kerangal scopre che esiste in Francia una sorta di rivalità fra le grotte di Lascaux e quelle di Chauvet, in Ardèche: si dibatteva, in particolare sull’idea, poi attuata, di crearne delle riproduzioni, per preservarle dai danni delle visite turistiche. «Mi pareva quasi una metafora della letteratura che richiede sempre atti di credulità: credere in cose non vere, affinché ci rivelino qualcosa di vero. È stato conoscendo questi “falsari”, come si chiamano fra loro, che lavoravano al cantiere delle grotte che ho capito che non avrei scritto un libro sulla preistoria, su Lascaux, come inizialmente pensavo – avevo paura di non riuscire a trovare un linguaggio per dire efficacemente un tempo così distante – ma su di loro, sui mille cantieri, europei e non, in cui si spostano, sulle loro vite. Bataille definisce Lascaux il luogo dove nasce l’arte e a me affascinava questo verbo, inventare, usato in senso archeologico: in francese quando uno studioso scopre un sito archeologico si dice che lo inventa, come uno scrittore inventa una storia».

Maylis de Kerangal, Un mondo a portata di mano, Feltrinelli, Milano 2020