Kay Ryan

Pubblichiamo oggi la seconda puntata della recensione a Nuova Poesia Americana vol. 2, edito da Black Coffee nel 2020 a cura di John Freeman e Damiano Abeni. Qui il link alla prima puntata.


Dalla California, ci giunge la poesia di Kay Ryan, vincitrice del Premio Pulitzer (2011) con la raccolta The Best of It: New and Selected Poems, eletta Chancellor of the Academy of American Poets e sedicesima Poet Laureate Consultant in Poetry della Library of Congress. Per Freeman, Kay Ryan è «la versificatrice vivente più originale e versatile d’America, suadente creatrice di piccoli prodigi». Sarebbe impossibile giudicare chi sia il poeta vivente più qualcosa di una nazione, almeno per me. Ma su una cosa Freeman ha ragione: Kay Ryan è una maestra del verso breve, che ci regala piccole scatole poetiche, in cui dentro si possono trovare dei «fenicotteri», una «tartaruga», un branco di «cavalli», un «pulcino», «cani» e «cervi».

Da Emerson in poi, la tradizione americana ha spinto sulla creazione di una letteratura nazionale che, in assenza di una tradizione millenaria come quella europea, insistesse invece su un unicum del continente: il paesaggio. O meglio: la vastità del continente. Se con Walden, ovvero Vita nei boschi Thoreau aveva interpretato il messaggio di Nature come una chiamata per le creature umane a cominciare una esistenza in armonia con le altre creature, l’economia americana e occidentale ha affrontato al contrario il paesaggio con un fare predatorio – una economia che, non senza una certa dose di ambiguità, ha trovato comunque una giustificazione nel pensiero emersoniano della self-reliance. Accanto a, e prima di quella dei coloni, bisogna considerare però che nel continente la tradizione mitica dei nativi ha da sempre fatto dell’incontro con il mondo naturale e animale uno dei suoi punti cardinali. Oggi è chiaro a tutti che il nostro ecosistema è stato sfruttato fino all’inverosimile, per cui è quanto mai necessaria una nuova narrazione collettiva che ci permetta di guardare il mondo daccapo. Così Ryan affronta il mondo animale e vegetale con una sensibilità da bambina, che ha del magico e la cui musicalità, proprio come in una magia, è capace di incantare il lettore: «Ovunque la fenicottera va | porta con sé un’intera città | di falpalà» (Osservare i fenicotteri). E che, con poche onomatopee mirate, è in grado di fare in modo che il mistero lasciato fuori dalla porta continui a battere con insistenza alla mente del lettore una volta chiusa la pagina, quando la poesia è già terminata: «Uno sguardo indietro e marameo, | costerà quanto è costato a Orfeo. | Né puoi rispondere | all’estraneo che bussa, toc-toc» (Dubbio). Chi bussa? Come Orfeo, vorremmo aprire la porta per guardare in faccia chiunque ci sia là fuori, ma qualcosa, forse nel rumore delle nocche, ci suggerisce che sarebbe meglio di no.

Che il gioco sia una questione seria ce lo ha dimostrato fin qui certa poesia di Ryan, capace però di mettere su una faccia seria da adulta quando necessario. In pochi versi, mossi dagli enjambements: «Quanto freddo dovette | sentire per intuire | che il ghiaccio avrebbe | bruciato. Quanto freddo | dovette accettare» scrive in una poesia dedicata allo scrittore tedesco W.G. Sebald, Accese un falò con i ghiaccioli. O ancora, con versi talvolta formati soltanto da una o due parole: «La mente deve | riadattarsi | ovunque va» scrive in Nuove stanze, che Freeman considera «uno dei componimenti poetici più cupi della nostra letteratura» e che non si citerà oltre, con la speranza di incuriosire il lettore a completare da solo. Che Nuove stanze sia una poesia cupa, è vero. Eppure a volte si può dire la stessa cosa da due angolature diverse, una cupa, l’altra capace di considerare la vita «Un | ventaglio lucente di cose | in gara per accadere» (Gli orli del tempo).

Aracelis Girmay

Uao. C’è poco altro da dire leggendo le poesie di Aracelis Girmay, insegnante all’Hampshire College di New York, che si è aggiudicata una fellowship dal National Endowment for the Arts (2011) e ha vinto un Whiting Award (2015). Con la raccolta The Black Maria cominciamo da una fine: «Era la fine del mondo. | Il mondo stava finendo. Io stavo || in casa con le mosche. Anche se | la notte era densa, era lunga, noi || cercavamo di aspettare la luce, di durare. | Ma il vento alle porte. & || il buio batteva con le nocche, mostrava i denti. | Fuori, le altre case […] Penso che saremmo – plurale – sopravvissuti» (luam & le mosche [esatto, proprio così: minuscolo e corsivo]). Tra i lavori della poeta afroamericana proposti in questa antologia, è proprio The Black Maria a colpire più degli altri. C’è nella poesia di Girmay una capacità visionaria, che sembra adattarsi perfettamente alla massima di Emerson per cui ogni poesia detta da sé il proprio ritmo. Ecco allora che le mosche tornano poco dopo, in una magica poesia in prosa: «Quanto torno a casa accorrono a me, le mosche, & mi prenderebbero, mi prenderebbero tra le loro piccole braccia se fossi più piccola, così volano di qui & di là, gioiose, mi danno il benvenuto. Mi baciano la faccia, bacio-bacio, dicono: Entra, entra» (Quando torno a casa accorrono da me, le mosche). Sarebbe bello fare un appello agli editori italiani: traducete questa raccolta, subito! È difficile capire, dalle poche poesie, di che cosa le mosche siano significante. Pochi sono gli indizi: «Io sono una mosca come tu sei una mosca». Ma la loro potenza espressiva è così grande da catturare il lettore.

Con Girmay siamo davanti a una di quelle autrici che potrebbero rientrare appieno nella categoria critica della «letteratura della catastrofe».[1] La catastrofe ha indubbiamente a che fare con il campo semantico del disastro e della fine. Quella della catastrofe però non è una letteratura distopica. Se la distopia infatti riguarda qualcosa che potrebbe accadere, ma che ancora non è accaduto e non è detto che accada per forza, la catastrofe è invece, almeno per ora, qualcosa di certo. Ci sono ormai autori che affrontano apertamente l’argomento, facendone il centro semantico della propria opera. C’è poi un altro gruppo di autori che, anche se non fa della propria opera uno strumento di aperta denuncia verso la crisi ambientale, tuttavia non può fare a meno di sentire la crisi… e perciò di risentirne. Solo uno sprovveduto potrebbe davvero vivere il presente senza percepire addosso gli echi di rimando emessi da un mondo devastato dal disastro ecologico. E perciò, in qualsiasi cosa facciamo, in qualsiasi libro scriviamo, la terra ci grida attraverso. Aracelis Girmay, che potremmo inserire nel primo gruppo critico, propone così una poesia in cui biografia personale, denuncia della catastrofe e lotta delle minoranze si uniscono in una sola voce, che ha trovato nella mosca il proprio assoluto – proprio la mosca, che sa nutrirsi della sozzura per vivere. Che sa, in poche parole, accoglierla per trasformarla.

Keving Young

Kevin Young è stato candidato al National Book Award (2017) con i saggi di Bunk: The Rise of Hoaxes, Humbug, Plagiarists, Phonies, Post-Facts, and Fake News, e si è aggiudicato il PEN Open Award con The Grey Album: On the Blackness of Blackness. È editor della sezione poesia del «New Yorker» e dirige il Schomburg Center for Research in Black Culture di Harlem. Freeman ce lo presenta così: «Come Whitehead in prosa, un libro dopo l’altro Young traspone in versi interi episodi della storia americana osservati da una prospettiva nera, e lo fa creando immagini dal ritmo irresistibile», in una America oggi messa in discussione dal movimento Black Lives Matter. Questo ritmo nasce dall’incontro tra poesia e musica blues. La «prospettiva nera» messa in evidenza da Freeman dialogherebbe quindi con una tradizione orale, propria della tradizione afroamericana, sebbene da tempo la critica negli Stati Uniti abbia recuperato anche quella ricca tradizione delle slave-narratives, come nelle autobiografie di Frederick Douglass o Harriet A. Jacobs. Contro certi stereotipi, la critica ha mostrato così come esista una tradizione afroamericana scritta altrettanto valida che affianca quella orale. Per questo scegliere di rifarsi comunque alla tradizione orale rispetto a quella scritta ha oggi un significato del tutto diverso rispetto a una volta, quando una di esse restava invisibile. La comunità nera non è solo balli e canti, ora che «i balli sono stati fermati || da un qualche nonno. | A cosa serviva allora il sonno? || Housequake || A cosa serviva allora il sonno?» (Little Red Corvette).

Sarebbe bello ascoltare in un reading pubblico la poesia di Young, che è fatta di movimento e cerca di «Farsi strada || dove non c’è strada» (Ziette). Addirittura sulla pagina il poeta segna i momenti delle voci e dei cori alla maniera di Vachel Lindsay, che vagò per gli Stati Uniti recitando e suonando le sue poesie. Ma c’è anche, ancora una volta, la lezione della poesia beat e del suo dialogo con la musica jazz e poi blues, poesie fatte per essere ascoltate più che lette, come il bellissimo Father Death Blues di Allen Ginsberg.[2] Tornare a una poesia letta in pubblico sarebbe un modo per affrontare la solitudine della poesia. Tornare a sentire le voci dei poeti – mentre scrivo di Kevin Young, sto ascoltando Kevin Young leggere poesie alla Emory University.[3] Credo che questo sia il bello della poesia americana: la capacità di creare partecipazione e aggregazione, che non nasce per caso e che forse non sarà mai possibile in Italia. Per capire il rapporto tra poesia e oralità negli Stati Uniti, come evidenziato sopra, è bene non fermarsi alla sola immagine cristallizzata che vede gli schiavi cantare e ballare nelle piantagioni, ma capire che quella americana è una poesia tradita fin dagli albori , se pensiamo alla musicalità di Walt Whitman: una poesia che nasce come tradizione e che già la rompe. È una poesia fatta di incontro – a dispetto di ciò che accade nel continente – in cui oralità e scrittura si sono sovrapposte e mescolate fino a creare qualcosa di stupefacente. Una poesia che oggi sta imparando ad usare la propria capacità di aggregazione per denunciare i collassi degli ecosistemi: «Voglio essere sveglio | quando il mondo finisce» (Estasi).


John Freeman e Damiano Abeni (a cura di), Nuova poesia americana, Firenze, Black Coffee, 2020, pp. 192, € 13.


[1] https://diacritica.it/letture-critiche/letteratura-della-catastrofe-tra-le-fiabe-di-luis-sepulveda-su-storia-di-una-balena-bianca-raccontata-da-lei-medesima.html. Cf. anche https://www.barbaricoyawp.com/post/poesia-letteratura-della-catastrofe-sulla-poesia-di-gianluca-d-andrea

[2]https://www.youtube.com/watch?v=Ew6ef3nE-E4

[3]https://www.youtube.com/watch?v=oCnN6XB4VAk