Vivian Lamarque scrive poesie fin da bambina e ne pubblica da cinquant’anni. Nel 2002 è uscita per Mondadori la raccolta di tutte le sue poesie, ma ha continuato, e continua, a scriverne. Ha collezionato numerosi premi (il Montale, il Carducci, il Morante, il Saba e, recentemente, il Premio Strega Poesia).

Vorrei cominciare dall’inizio, quindi dal titolo di questa sua ultima raccolta di poesie: L’amore da vecchia. Cosa può raccontarci di questa scelta?

Se ben ricordo, tutti i titoli dei miei libri di poesia sono apparsi prima delle poesie stesse, hanno “dato il la”. Unica eccezione, Madre d’inverno, che giunse a libro terminato. Il titolo L’amore da vecchia nacque nel 2016 contemporaneamente all’uscita di Madre d’inverno, il giorno del mio settantesimo compleanno. Proprio in quei giorni mi capitò come una sassata un colpo di fulmine (in assenza di metà fulmine però!), una specie di stordito innamoramento. Poesie come se piovesse, precedute dal fulmineo nuovo titolo: L’amore da vecchia. Amore naturalmente non rivelato all’interessato (anzi al disinteressato). Intanto le recensioni al libro precedente, pur ottime, mi parevano ruotare troppo intorno alla mia biografia, mea culpa pensai, nel prossimo libro guai a me se toccherò ancora il tema infanzia, solo versi d’amore. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, cioè senza le poesie stesse. Dopo un anno (mi ero festeggiata zitta zitta anche l’anniversario del fulmine), camuffate di rami e foglie come nella foresta di Birnam, sono avanzate di nuovo, striscianti, le poesie sui soliti temi prediletti. Allora nove sezioni anziché l’unica prevista. E della prima, “I nomi degli amanti”, salvate solo metà delle poesie.

e perdono chiedo ai fidanzati.
Tutti dimenticati?
No, i loro nomi ho ancora dentro bene
incisi, ma come per nebbia
confondo un poco rami e mani, colore
delle foglie e dei capelli.
Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?

Lei dichiara per questo libro una matrice fortemente autobiografica, forse mai così netta come in queste pagine. Quale rapporto intercorre oggi fra le sue vicissitudini e le sue poesie?

Siamo in guerra! Più giuro di non parlare mai più d’infanzia, più loro insistono. Devo informarle che ho quasi ottant’anni, che sono ridicole, che la smettano. Niente, imperterrite si camuffano, veda nella risposta precedente la foresta di Birnam. Tempo fa avevo studiato una strategia: iniziai a scrivere la mia autobiografia, in prosa naturalmente, pensando di così tacitare quel tema in versi. Fallimento totale: e per di più invasero anche la prosa.

I am an orphan! I am an orphan!
Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto.
Come io non lo sono
come voi non lo siete
come tutti –
lo siamo.

In copertina appare il disegno essenziale della curva di una linea, fa pensare all’avvolgimento di un filo. Come nasce questa immagine e quanto è casuale?

Le copertine sono le mie croci. Le vorrei solo con titolo e nome dell’autore, fine, come nei vecchi Specchi color seppia. Le vorrei fisse nel tempo, come avviene con la bianca Einaudi o con gli Adelphi. Le prime copertine che mi proposero per L’amore da vecchia mi spaventarono. “Aiuto, sul mio corpo avete messo una testa non mia”, scrivevo disperata a Elisabetta Risari e a Luigi Belmonte. Nel 2002 avevo ottenuto di disegnarmela da me la copertina dell’Oscar, idem anni dopo quella di Poesie per un gatto e poi quella di La gentilèssa. Per L’amore da vecchia chiedevo meno segni, più vuoto, infine dopo una quindicina di prove, ecco giungermi l’attuale. Nel centro del filo c’era una specie di occhio inquietante, ottenni di eliminare pure lui e sì, ha ragione, il risultato è un filo e, me ne sono accorta dopo, in quarta di copertina la poesia parla di un filo da ricamo, felice casualità.

Finito, già finito
l’incantato tempo
dei rami in fiore?
Come quando
sul più bello del ricamo
finisce il filo da ricamo?

L’ironia e soprattutto l’autoironia sembrano essere compagne fedeli dei suoi componimenti, anche in una delle sezioni più intense, Io non sono morta io sono nata. Quanto aiuta l’alleggerimento?

È la mia arma, la mia salvezza. Imparai a farne uso fin da bambina. In un tema di seconda o terza elementare, dovendo parlare del babbo Dante morto quando avevo 4 anni, dopo tante belle dovute parole, si infilò nel pennino l’invidia per gli altri bambini che il papà lo avevano ancora: “ci sono anche altri colleghi del mio babbo morti, ma pochissimi!”. Dire e non dire, oppure dire modificando l’alfabeto: in una letterina di Natale dettata dalla maestra e che cominciava con “Cari genitori”, per un lapsus calami, firmai anziché Vivian, Viviam. Imperativo esortativo del verbo vivere, fa niente se uno dei due genitori era morto!

Nessuno si meraviglia
se uno alla sua età
muore.
Nessuno.
Ma lei sì!
Lei che sarei io, sì.
Sì, lei si meraviglierà,
io mi meraviglierò.
Tanto

Fra i suoi versi compaiono i nomi di tanti poeti del passato, Pascoli, Caproni, Gozzano, Saba… Rivolgo a lei la stessa domanda della sezione Poesie sulla poesia: non ce ne inviano più di poesie i morti, nemmeno una?

Ha ragione. La sua domanda mi fa pensare che in fondo anche da là ce ne inviano ancora, a tonnellate. Perché, se rileggo oggi a 80 anni poesie che avevo letto a 30, mi dicono molte cose in più, nuove, nuovissime, grazie poeti! Per esempio grazie Lello Baldini, che sto rileggendoti in questi giorni.

Dipenderà dalla poesia e dalla rosa
– una tra i fogli l’altra tra le foglie –
se di qualche millimetro col tempo
cresceranno, o se resteranno lì inerti
sul foglio e nel vaso, senza una nuova
parola, senza una foglia nuova.


Vivian Lamarque, L’amore da vecchia, Milano, Mondadori, 2022.