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Home Letterature

Sulla collina Malotempo

1 Ottobre 2025
in Letterature
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Sulla collina Malotempo

L’incipit di Malotempo di Veronica Galletta (Minimum fax, 2025) è a suo modo esemplare: Paolo Rasura torna a casa da Palermo a Santafarra in un gelido giorno di dicembre del 1967 per il funerale del suo maestro e scultore Filippo de li Testi. Il narratore lo segue nei suoi pensieri mentre si dirige al cimitero e ci informa che detesta tornare a Santafarra, luogo «dove l’avvenimenti gli si mischiano in testa, e i vivi e i morti si confondono». Ma non è solo per questo che l’incipit condensa abilmente ciò che verrà sviluppato in seguito: l’altro importante motivo è la perizia visiva che il narratore pone nel descrivere ciò che Paolo Rasura vede quando sale verso il Camposanto. Sono comparse le nuove ville degli speculatori edilizi e soprattutto “lo Scorsone” (in siciliano il serpente), sulla collina Malotempo: una lunghissima palazzina fabbricata in fretta in una zona resa edificabile secondo criteri poco chiari. La descrizione si chiude alludendo alla già avvenuta distruzione del teatro e dell’antica e nobiliare Villa Marcella, di cui in seguito verrà narrato l’episodio, visto come il simbolo della protervia di un potere sempre più cieco ad ogni istanza se non a quella dell’immediato utile, e del “nuovo”.

Galletta nel romanzo precedente, Pelleossa, ha raccontato l’incontro e l’amicizia tra Paolino Rasura bambino nei primi anni del dopoguerra e Filippu, una candida figura di scultore analfabeta isolato, proveniente dal paese di Santafarra, dedito completamente alla sua arte di scolpire in pietra teste di grandi uomini (García Lorca, Toro Seduto, Freud per citarne alcune) e di posizionarle nel suo giardino in cima al paese. In Malotempo, che ne è la continuazione, in un’idea di serie interessante, Paolo è cresciuto, è andato a Palermo per fare il pittore e ha abbandonato Filippu; tuttavia ha fallito, dipinge fondali di carretti siciliani, ha una moglie e due figli ma non ama nulla di ciò che è e ha, e si trova invischiato in sentimenti di colpa per aver tradito l’amico e di odio nei confronti di un paese in cui si sente un intruso.

Malotempo orchestra con intelligenza i due piani dell’opera sopracitati nell’incipit: da una parte il romanzo segue gli andamenti del novel, raccontando l’erranza di venti giorni del protagonista intento a fare i conti con i cocci del proprio passato e intessendola con la rielaborazione, in piccolo, nell’immaginaria Santafarra, del sacco edilizio di Palermo di fine anni ‘60; dall’altra innesta il romance, intercalando nella trama elementi magico-fantastici.

Il fantastico serve a dare al romanzo la tonalità da fiaba nera: una terra maledetta, popolata di morti, di sconfitta e desolazione, bottino di uomini avidi che depredano i luoghi. Ma anche un mondo di giardini incantati in cui teste scolpite nella pietra possono parlare a chi le sa ascoltare, e i morti, talvolta, possono apparire ai vivi per rimetterli sulla retta via. Il ritorno a casa di Paolo Rasura si configura quindi come un racconto di fantasmi, in cui il passato fa capolino con la sua carica perturbante. Durante tutto l’arco della vicenda il protagonista non riesce a sottrarsi alla sua incapacità di comprendere con lucidità né la distruzione di Santafarra operata dai nuovi speculatori edilizi, né il presente della sua vita, ingabbiato com’è nell’essere straniero a sé stesso, preda del fallimento esistenziale, sordo ad ogni altra istanza che non sia la sua vita sbagliata. Proprio questa angolazione permette al romanzo di indagare coraggiosamente la dimensione della sconfitta, della crisi di un uomo incapace di agire; un personaggio non risolto che può scomodare la fondamentale categoria della letteratura primo novecentesca, quella dell’inetto, con la sua carica di ambiguità, per il quale il lettore è portato a sentire un misto di repulsione e fratellanza.

Ed è certo che Paolo Rasura nella vana ricerca di sé non ha nulla della lucidità gravida di conseguenze nefaste del prof. Laurana dello sciasciano A ciascuno il suo, eppure il potere cui deve far fronte è altrettanto violento e spregiudicato, sempre, in piccolo, la micidiale sintesi di denaro, politica e malaffare; esemplificato in modo originale dal personaggio di Francisco Gallo, autentico villain, abilissimo a manipolare – anche e soprattutto linguisticamente (parlando un argentino siciliano inventato) – tutti attorno a sé, con l’obiettivo di ottenere la Casa verde dei Rasura e il giardino di Filippu, unici odiati ostacoli alla costruzione della nuova autostrada per Palermo. Ed è possibile che il modello di Sciascia possa avere influito nell’ideazione del tema di denuncia in Malotempo, con i vari distinguo rispetto ai rarefatti apologhi sul potere dello scrittore agrigentino.

Alla dimensione verghiana de I malavoglia possono invece alludere sia il modello dello scontro dialettico tra il nuovo come distruzione e l’antico come rispetto degli equilibri della natura e degli uomini, sia le dinamiche familiari tra Paolo Rasura e i fratelli Calogero e Pascali, ricchi di sfumature, contraddizioni e evoluzioni sorprendenti, a testimoniare l’interesse dell’autrice per le relazioni all’interno della famiglia; ma non solo, anche la coralità delle vicende dei diversi personaggi rimanda al modello alto del capolavoro verghiano.

La voce narrante in Malotempo si avvicina ad un narratore orale che racconta una storia ad una comunità – archetipo della narrazione per eccellenza – e trasporta sul filo delle parole, in un’atmosfera di sospensione che usa il dispositivo della fiaba, come viene palesato esplicitamente nell’ultimo capitolo dedicato al terremoto: «Ma la storia racconta, perché siamo qui a contare una storia, che tremolò due volte e poi si inginocchiò» (p. 237; si riferisce allo Scorsone, la palazzina costruita in contrada Malotempo simbolo del sacco edilizio di Santafarra, che si sgretola alle prime scosse).

È un narratore che conosce ogni cosa dei suoi personaggi, li mette a nudo, ne fa emergere i pensieri intimi e latenti, che dà luogo ad una narrazione rallentata, accurata e ricca di dettagli, in controtendenza rispetto alla velocità della narrativa contemporanea. In questo modo ci vengono restituiti soprattutto i travagli interiori di Paolo Rasura, rappresentati dall’immagine ricorrente dello straccio in gola che lo soffoca, dal senso di vertigine di molte sequenze, dalle sensazioni di malessere che gli provoca la vita di Santafarra e la difficoltà di fare i conti con sé stesso: con l’amore ormai perso per Natalia, i sogni di realizzarsi svaniti, il tradimento di Filippu. Una sequenza ne renderà l’idea:

«(Paolo)Si trascina al centro della Piazza, s’assetta sotto all’ulivo secolare, mentre comincia la danza con i fantasmi, il destino che tocca a tutti quelli che se ne sono andati. Passano le sorelle Grasso a salutarlo… parla senza sapere cosa dice, mentre il paese gli passa intorno… Domani me ne parto, pensa salendo di corsa la collina» (p.65).

O ancora:

«Filippu non ha venduto le Teste, non ha mai svenduto la sua arte, e tu invece hai svenduto te stesso. Vivi una vita falsa, senza nulla dintra. Si mette seduto sul letto, l’occhi spalancati per evitare che i sogni lo riafferrino. Non è felice di stare alla Casa Verde, non è felice di stare a Palermo, non è felice di stare sveglio, non è felice di dormire. Quando chiude gli occhi sogni strammi lo tormentano, si ficcano in bocca e s’aggrappano alle viscere, come edera» (p.96)

Ma l’attenzione di Galletta non è notevole solo nella rappresentazione dell’interiorità dei personaggi, anche il mondo esterno è descritto con lucidità scrupolosa, si veda ancora come esempio:

«È calato il buio. Da là sopra si vede tutto (dal giardino di Filippu che domina dall’alto Santafarra). Il grande albero sulla collina della Casa Verde scontorna la sua sagoma in una nebbiolina fine, illuminato dalla luna piena. I lampioni del Corso tremano come cosa viva. Le torce del Petrolchimico illuminano un mare che non è più di nessuno, ceduto in cambio di travagghiù e benessere. Noi ce ne andiamo ma la terra rimane, diceva Filippu, ma adesso sembra non essere più vero. Sotto alla collina i camion scaricano massi, un rullo compattatore spiana l’impronta della nuova strada, come uno sciame di calabroni meccanici. Si volta verso Contrada Malotempo. Lo Scorsone dorme sulla collina, il profilo frammentato tenuto insieme dalle finestre illuminate» (p.191)

Anche l’intreccio in Malotempo è ben ideato, con un sistema di personaggi forte e svolte drammaturgiche orchestrate con cura, a testimoniare un lavoro sulla struttura meditato. Come ad esempio la scena di forte carica emotiva nel climax finale quando Pascali, fratello di Paolo Rasura, spara a Francisco Gallo, prima del sorprendente ultimo capitolo dedicato alla descrizione del terremoto e delle sue conseguenze – riferimento storico a quello del Belice del 1968: nemesi di una natura abusata ma anche leopardianamente matrigna. C’è il pathos dei sentimenti, è innegabile, ma l’autrice lo dosa con cura, e non si fa mai lacrimevole ed enfatico. Soprattutto ci sono scene e dialoghi davvero riusciti, tra i molti la gita per osservare il paese e i dintorni – altra accuratissima descrizione di luoghi – con il barbiere Michele Leggio che fa da contraltare a Paolo Rasura: incarna i valori della giustizia, delle radici nei luoghi natii e dell’attenta coscienza critica di una comunità irretita dai falsi dettami del progresso economico a tutti i costi.

La lingua – come nel precedente Pelleossa – tenta una torsione per allontanarsi da un italiano sentito dall’autrice forse troppo stretto e asettico per raccontare una storia in cui il dialetto siciliano diventa rivelatore di un modo di essere e di pensare dei personaggi rappresentati. Il siciliano della Galletta si innesta con invenzione nella lingua letteraria del romanzo, e pare svelare nel fondo una nostalgia creativa dell’autrice per parole e modi di dire che icasticamente definiscono un carattere, un giudizio netto, una tonalità sentimentale capaci di illuminare la verità di un ambiente e di un tempo; un modo, soprattutto, di ritrovare le voci che ci abitano attraverso il lavoro letterario. Anche per questa tensione conoscitiva nei confronti della lingua e delle storie che racchiude, in grado di costruire un mondo, Malotempo è un’opera felice.


Veronica Galletta, Malotempo, minimum fax 2025, pp. 245, 18 €

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Tags: letteratura italiana contemporaneaMalotempoMinimum FaxromanzoVeronica Galletta

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