«Ma io non sono colpevole […], è un errore. E poi, in generale, come può un uomo essere colpevole?». In uno degli ultimi episodi del Processo di Franz Kafka questa domanda sorge amaramente spontanea dalla bocca di Josef K., protagonista del romanzo. In Imputazione e colpa. L’invenzione della volontà (Quodlibet, 2024) Arianna Brunori si confronta con la stessa questione, indagando la storia occidentale dell’idea di colpa.

Nello specifico, il testo studia il processo storico che ha ancorato l’imputabilità di un’azione alla sua volontarietà. La genealogia di Michel Foucault e l’archeologia filosofica di Giorgio Agamben ne segnano il solco metodologico. Il panorama delle fonti è vasto. Filosofia antica, pensiero ebraico e cultura medievale hanno un ruolo preminente nella struttura del libro, che si snoda però lungo l’intera storia della filosofia e della letteratura occidentali.

L’argomentazione muove dalla peculiare affinità tra il concetto di imputazione e quello di colpa: «storicamente, la domanda sull’imputabilità di un’azione è soprattutto legata a quella sulla sua eventuale natura colpevole» (p. 11). La domanda che riecheggia costantemente nel testo è dunque quella sulle origini del plesso tra imputabilità, colpa e volontà, la cui co-implicazione dischiude per l’Autrice la subordinazione dell’etica occidentale al diritto, in particolare alla sua esigenza punitiva: «Non la constatazione del carattere volontario di un’azione ha fondato la possibilità di una sua imputazione, ma, al contrario, l’esigenza di legittimare le punizioni ha portato all’elaborazione della nozione di volontà» (p. 54).

Ragionando intorno a temi quali la colpa nella tragedia antica o il peccato nella Torah (cap. I), Brunori sottolinea come in questi due concetti non vi sia alcun riferimento alla nozione di volontà. Non c’è perciò nessuna evidenza naturale di un suo legame con la colpa. La volontà è un prodotto storico e alle sue prime formulazioni è dedicato il terzo capitolo, snodo fondamentale del testo.

La volontà prende qui forma come dissoluzione di due nessi: quello tra azione e conoscenza alla base dell’intellettualismo greco, secondo cui l’agire deriva dal conoscere, e quello tra essere ed agire, per il quale – a differenza del mondo greco – le azioni non sono più intese «come espressione necessaria del carattere di un agente, ma come sua autonoma decisione» (p. 75). Da un lato, la separazione dell’agire dal conoscere spodesta il giudizio della ragione e affida alla volontà la determinazione di un atto. Dall’altro, l’insorgere della volontà nello scarto tra essere ed agire «permette di aprire lo spazio dell’imputazione e della colpa»:

La volontà è un cuore vuoto, di cristallo e non di carne, un organo artificiale, non soggetto ad alcun tipo di influenza esterna, che, collocandosi nel senso più intimo della persona, irradia su di essa la propria luce irreale. Questa facoltà, cioè, disegnando il perimetro di uno spazio indeterminato, sottrae all’indagine naturale e consegna alla morale non solo le azioni e le passioni di cui si pone come principio, ma il carattere stesso (p. 76).

La Patristica cristiana è la placenta di questa nuova idea, che di primo acchito appare intrinsecamente dialettica. Prendiamo ad esempio la volontà agostiniana. Brunori chiarisce come essa si distingua in due «fasi»: la «volontà attuale» che tende verso un oggetto e la «volontà autoriflessiva» che vuole il suo volere. Se nell’Eden l’una seguiva immancabilmente l’altra, le due possono invece confliggere a seguito del peccato originale. Eppure l’unitarietà della volontà, che rispecchia l’identità unica e singolare dell’individuo, non è per questo compromessa. Ne discende una «nozione di soggetto che si articola in una moltitudine di figure contraddittorie rimanendo nondimeno unitario» (pp. 69-70).

L’autrice approfondisce particolarmente questo aspetto, che viene giudicato come la «coniazione teorica per eccellenza del pensiero cristiano» (p. 69). È in effetti quel che più può interessare Brunori, dato che dal punto di vista etico la volontà assicura così «un sostrato unitario al meccanismo imputativo» al di là delle sue contraddizioni: «la volontà, cui inerisce la colpa, e l’individuo, cui tale volontà appartiene, non saranno, in fondo, che la stessa identica cosa» (p. 70).

Sebbene già in Aristotele si riscontri una vicendevolezza tra legittimità della sanzione e responsabilità delle azioni, aspetto che secondo Brunori rimane spesso «inosservato» (p. 83), è la riflessione cristiana sul peccato originale a penetrare il cuore della questione: pensare gli esseri umani come dotati di libero volere permette di giustificare la loro imputabilità e di legittimare la pena conseguente al peccato. Difatti, senza volontà, Adamo ed Eva non avrebbero potuto compiere un atto di disobbedienza; senza volontà, «la loro mancanza sarebbe niente più che un effetto della loro natura, sadicamente creata da Dio per il gusto di punirla» (p. 91).

L’idea di autodeterminazione umana vive la sua epopea nella cultura occidentale mossa dalla necessità di legittimare il sistema imputativo comminante premi e castighi. È d’altronde proprio intorno al tema della legittimità delle punizioni che l’autrice scorge l’unità del pensiero etico tra Antichità e Medioevo (p. 89). Ampliare la volontarietà dell’agire diviene pertanto un obiettivo programmatico al fine di estendere il raggio dell’imputabilità. Per i teologi e i giuristi medievali, la voluntas ha avuto il preciso compito di rendere imputabili il più vasto numero di atti umani. L’involontarietà stessa non è stata esente da questo proposito.

Come si mostra nella seconda parte del saggio, numerosi dispositivi sono stati concepiti per imputare forme di non volontarietà. L’inconscio, anzitutto. L’autrice ne parla in relazione al caso di studio delle polluzioni notturne (cap. V). Qui il dispositivo in questione è quello della culpa praecedens, ideato per condannare un atto in virtù di una colpa precedente – anche inconscia – che l’ha in qualche modo causato. Sulla base di questo dispositivo, una polluzione notturna è perciò da considerarsi come sanzionabile se ricondotta alla natura peccaminosa dell’impulso, del contenuto mentale o del sogno che l’ha preceduta.

In secondo luogo, l’imprevedibile. Il principio denominato versari in re illicita giudica imputabili «tutte le conseguenze, anche involontarie e inestimabilmente più gravi» che derivano da un atto (cap. IX). Sul piano giuridico vige qui un’idea di «prevedibilità» per la quale chi compie un’azione presume e accetta delle conseguenze illecite che non desidera, ma stima – erroneamente – che non avranno luogo (p. 190).

Un terzo esempio è la costrizione, la quale non comprometterebbe la libertà e dunque la responsabilità del volere. In breve: «[…] se la volontà sceglie il male, non si può dire che essa è stata sopraffatta, ma solo che non ha voluto il bene» (p. 142).

Infine, un ultimo esempio: v’è responsabilità anche quando si manca di contrastare un illecito altrui. Il dispositivo di riferimento è qui il consensus negligentiae, secondo cui «si può pensare che esista […] un consenso – di fatto puramente virtuale e implicito – che coincide con la mancata opposizione alle azioni altrui» (p. 121). Come riassume bene l’autrice, anche il non voler fare è tramutato in un modo della volontà.

Insomma, la volontà dei teologi medievali emerge dalle pagine di Brunori come teoricamente infallibile: se lo volesse, essa potrebbe non peccare mai. Non esiste una colpa senza volontà: equivalente all’imputabilità, la volontarietà dell’agire ne estende a dismisura il raggio di azione grazie a ciò che l’autrice definisce come «un’eticizzazione integrale della vita umana, una progressiva sussunzione della natura nell’alveo della norma» (pp. 122-123). «Tutto è suscettibile di una qualificazione morale» perché tutto dipende dalla volontà.

Queste sono le fondamenta dalle quali il libro si issa in molteplici pinnacoli argomentativi decorati da un fitto (e avvincente) intreccio di fonti filosofiche, teologiche, giuridiche e letterarie. Il loro susseguirsi traccia un percorso al contempo lineare e concentrico: “lineare” perché la prima metà del testo è pensata come un percorso quasi cronologico che porta dalla necessità naturale dell’ethos greco alla libertà di una volontà autonoma; “circolare” perché nella seconda metà i capitoli si focalizzano invece in maniera – direi – vorticale sulla corrispondenza tra radicalizzazione dell’autonomia umana ed estensione dell’imputabilità. L’incontro tra queste due prospettive restituisce quella che forse è la prospettiva teorica più stimolante del libro: slegate dalla necessità del carattere, le azioni della volontà divengono tanto più punibili quanto più libere, radicando la colpa nell’essere dell’individuo, nonostante la volontà sia appunto sorta come uno iato tra essere e agire.

Pur non retrocedendo di fronte alla tecnicità delle questioni affrontate, in particolar modo di quelle teologiche e giuridiche, Arianna Brunori realizza un libro dall’alta leggibilità, in grado di accogliere più livelli di familiarità con le materie trattate.


Arianna Brunori, Imputazione e colpa. L’invenzione della volontà, Quodlibet, Macerata 2024, 208 pp., € 17,10.