Di che cosa scriveranno i poeti nei tempi bui? si chiese qualcuno in un’epoca buia. E allora si rispose: proprio dei tempi bui. Risulta ancora praticabile questa risposta nei nostri anni Venti? La prima raccolta di liriche e prose poetiche di Niccolò Bosacchi, Disbrigo degli affari correnti (Sensibili alle foglie), edita l’anno scorso con una introduzione di Fabrizio Miliucci e una postfazione di Massimiliano Cappello, parrebbe dirci di no, e vorrei qui provare a spiegare perché.

Classe 1990, milanese, insegnante, ma soprattutto militante politico, l’autore assegna alla sua pubblicazione un titolo volutamente dimesso e impoeticamente amministrativo: Disbrigo degli affari correnti[1]. A un primo sguardo, non ci si dovrebbe aspettare niente di interessante da un libro dotato di un titolo simile.

Se non fosse che chiedersi in quali faccende affaccendati trascorrano le loro giornate gli individui a cui è toccato in sorte di vivere in tempi interessanti, come recita la maledizione ormai a noi così familiare, è in effetti questione di una certa importanza.

Che cosa fa infatti la maggior parte dell’umanità a metà dei nostri anni Venti? Reitera inconsciamente (senza avere però il coraggio della sua disperazione silenziosa) il gesto di Kafka, che in un appunto di diario datato 2 agosto 1914 scrive: “La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio scuola di nuoto.” Da qui si riparte.

La fine della storia è finita, il tragico di nuovo incombe. Il venire meno di un certo assetto del mondo non è più qualcosa da immaginare, ma qualcosa che si consuma ogni giorno più velocemente di fronte a noi. Ma, ci dice l’autore, chi è “afflitto dalle forme della storia si annoia un po’ al lavoro, guarda l’ora” (Le briciole).

Qui sta il problema: la realtà rimane ancora, per i più, al di sotto della soglia dell’evidenza, priva di ricadute esistenziali, confinata a rumore laterale, che nemmeno i boati bellici o i fiumi di fango riescono a portare stabilmente al centro delle vite di tutti: “Scavandomi dentro l’attesa di un’irruzione sono rimasto immobile in mezzo a tutto il rumore” (Le scimmie).

Dunque come rappresentare in versi il ritorno della storia, non solo come campo del pericolo generale o dell’opportunità di azione volta alla salvezza, ma anche come ambito della verità, se essa rimane priva di soggetti collettivi che abbiano coscienza di viverla? 

La risposta che tenta di articolare il libro di Bosacchi sta proprio nello scrutare questa assenza alla storia (e perciò, a una parte importante di verità sulle nostre vite), nell’investigare il lamento funebre di un presente oscuro dal punto di vista di individui grigi, di quelli che Eliot definì in un suo componimento “the hollow men”, gli uomini vuoti, dediti a un uso impiegatizio delle loro esistenze e perciò destinati allo scacco e alla frustrazione.

Due dimensioni consegnateci fin dal primo testo della raccolta, Divaricazione dei destini individuali, in cui assistiamo allo sgretolarsi del progetto di convivenza di una giovane coppia, come se a parlare fosse un sensore nascosto che registra impassibile o con una lieve ironia gli inevitabili smottamenti della relazione tra i due: 

Loro, ancora, di primavera d’estate e dopo d’inverno, stanno nelle case e nei quartieri come dentro a letti sfatti, già le apparenze rovinano e rivelano il poco – lui ha i primi segni dell’ansia più nera, terribile, ridicola. L’epoca perdura esaurendosi. Un certo trasporto isterico li agita, e dopo non trovano lavoro, non capiscono.

Un’altra estate e loro vanno al mare, lei con i segni dell’ansia più nera, terribile, ridicola, e non capiscono da cosa è venuto di starsi ancora accanto fino addirittura a un nuovo inverno. E adesso invece seduti al tavolino di un bar si parlano e così finisce, in fallimento e sordo rancore. Restano poi nei mesi a venire alcuni sussulti e per qualche tempo ancora si guardano si mostrano i denti e si girano intorno. Il complesso del mondo li schiaccia, le impalcature crollano, i giornali gridano l’allarme, i prezzi rincarano, si preparano esercitazioni, inflazione e impotenza inquietano gli animi. Loro odiano tutte le strade e le case sono ostili, dell’ultima sua lui ricorda l’odore la facciata e il balcone, ma soprattutto è quella che ora per lui per sempre passandoci davanti ricorderà come ultima nel loro ultimo inverno nevrotico.

Adesso si stanno lontani nella minaccia del disastro futuro, sotto il cielo di una sola eterna stagione.

Divaricazione dei destini individuali

C’è appunto qualcosa di terribile, benché al contempo ridicolo, nello spettro dell’insignificanza, nella sterilità dei giorni, nelle diverse manifestazioni di spreco dell’esistenza colte da Bosacchi tramite brandelli di conversazione quotidiana carichi di illusioni e aspettative tradite, nel lavoro come nelle relazioni.

Qualcosa però che non è riducibile a mero documento poetico di una mediocrità piccolo-borghese senza tempo, e neppure a riedizione dell’inquietudine sottile di marca primonovecentesca da fine della “seconda Belle Époque”.

Di più (quel di più che però le figure umane che ci vengono mostrate non riescono a vedere e a comprendere, ma solo a percepire come un’incombenza rarefatta e afosa[2]) c’è la coscienza dell’occupazione dei destini generali da parte della logica del capitale, al tempo dell’inferocirsi della competizione tra imperialismi.

La riduzione delle vite di tutti a capitale umano, cioè a merce sfruttabile, deperibile, più profittevolmente allocabile – “Colli, unità di carico” è, eloquentemente, il titolo burocratico e logistico della prima sezione della raccolta – è ciò che autorizza, ad esempio, a interpretare la figura protagonista del secondo testo, Il buon soldato, come la stessa del primo, solo spostata da un quartiere-dormitorio a una imprecisata trincea.

Ad accomunarle, è lo stesso identico sguardo corto, l’incapacità di trarre dall’esperienza minuta una conoscenza più ampia. Un vedersi da fuori, per tirarsi fuori, per disertare, per non essere inutile vittima sacrificale.

Un vedere i limiti dell’io, per ricercare un noi necessario, quel noi capace di silenziare la voce narcotica della storia dei vincitori, e che solo nella tradizione degli oppressi può radicare il proprio diritto a una buona vita, irriducibile a tutti i presunti interessi generali, che sono sempre quelli delle classi dominanti:

Tutti i masticati dai macchinari
Tutti gli schiantati per i frutti della terra
Tutti gli annegati dalle guardie del mare
Tutti gli appesi in cella
Tutti i caduti dell’unica guerra. 

Tutti

Quei “tutti” che oggi si vorrebbe ridurre ad invisibili impunemente calpestabili, anche tramite il dirottamento e il confinamento delle passioni collettive sul piano della contrapposizione di Stati, alleanze o “civiltà” belligeranti in nome di presunti valori e identità inconciliabili, eppure così simili nella ricerca con ogni sporco mezzo di una fetta più vantaggiosa del mercato globale.

Di ciò parla un testo assai riuscito come Geopolitica, costruito tramite il montaggio straniante di frasi tratte da un numero della rivista Limes dell’autunno 2022, allo scopo di svelare la serie di assurdità intercambiabili a cui si può acconsentire, una volta accettato senza riserve un certo piano di scontro mistificato e la lingua che ne deriva. 

Come si esce allora dalla caverna? Intanto prendendo sul serio il bisogno umano radicato di farlo, dovunque e in qualunque modo esso si presenta. Curandolo, raffinandolo, persino sovvertendone i connotati e le direzioni, ma mai irridendolo perché magari provvisoriamente ingenuo e rozzo.

O almeno, io questo leggo in un breve testo come Teorie, che definirei uno sguardo di sbieco su un altro buco nero di possibilità trasformative che è l’odierna e altrettanto mistificata contrapposizione tra “complottismo” e anticomplottismo: “Uno all’improvviso interrompe quello che sta facendo e guarda in alto. Vede intrecciarsi le traiettorie, però oscure. Nessun disegno. | Ma allora l’origine di tutto quel male?”

Dove il male, più che un qualche disastro generale ben definito, è una presenza silenziosa che comprime la libertà degli individui ai minimi termini del bisogno, alla fame di cibo, di calore umano, di una casa, di una vita da abitare – “Abitare è necessario, forse annidati in un tepore di zone cattive o non vere” (Ferie) –, di cui si compone un testo come Le briciole. Una sequenza di vite proletarie alla deriva, prigioniere della metropoli feroce, di cui riporto di seguito alcune dolenti istantanee:

Morto assiderato nella città più ricca, sotto Natale in grazia di unanime cordoglio.

Ha dormito poco e quando entra nell’appartamento si rende conto che non c’è la lavatrice, il bagno è sporco lurido, incrostato. Deve alzarsi alle cinque l’indomani ed è smarrito, piange.

Le garantiscono il pasto e un piccolo sistema di irrigazione del deserto, sente una coscienza sorda che scorre nelle vene.

Eppure, anche in questi documenti di non identità, fra le varie immagini di vite impedite dei gozzaniani “cosi con due gambe che fanno tanta pena”, compaiono fragili tracce di una salvezza possibile, oggetti-scrigno di piccole verità, come ad esempio nel già citato Le scimmie, con la ripresa prosastica dell’incipit di uno degli Ossi di Montale: 

Tu riportami per favore le bucce dei mandarini, il tostapane, la tastiera su cui suonavi pochissimo, le foto di vecchie attrici e agenti di partito del Novecento che hai appeso sopra il letto e la cassa portatile che avrebbe dovuto farci compagnia quando viaggiavamo per andare a vedere le scimmie. Se la trovi mostrami poi anche l’altra vita.

Le scimmie

Dove si colloca il poeta in tutto questo, qual è il suo punto di osservazione? Il suo sguardo sulle vite d’appendice dei cittadini delle metropoli, i cui “affari correnti” vengono sottoposti a montaggi imprevisti o semplicemente raccolti e riconsegnati alla pura superficie[3], al loro non significare più di se stessi, sembra infatti avere qualcosa di extraumano. Come se ad ascoltare, ad essere occupato e sopraffatto dall’affastellarsi di una moltitudine sterminata di atti e pensieri, ma anche a giudicarli e a mandare loro dei messaggi in codice, fosse uno degli angeli wendersiani.

Leggendo questi testi, mi sono domandato quale potrebbe essere il linguaggio espressivo più adeguato a una densità di messaggio la cui messa in forma ha ancora però qualcosa di acerbo e di semilavorato (si veda una certa insicurezza dell’andare a capo che talora si percepisce, o la tendenza a ricorrere alle rime baciate nei testi più brevi).

Qualche forma ibrida tra videoarte e documentario “lirico” potrebbe essere un terreno promettente per tradurre e riconfigurare il sentimento di solitudine e sospensione che attraversa questi testi intrisi di pietà, per quanto misurata e discreta? Lancio lo spunto a chi magari potrebbe avere le capacità e la voglia di raccoglierlo. 

A dare il contrassegno della possibile evasione dal consumo incolore dei giorni – “Perché appunto ricorre il sentimento di non esserci o comunque non pienamente”, ancora Ferie – stanno le due sezioni finali, “Memoria difensiva” e “Mobilitazione”. A emergere nella prima è la rigidità di un noi, le forme della responsabilità e della presenza alla storia da parte degli individui: il vero affronto da giustificare in tribunale.

È la sezione in cui si percepiscono le tracce di una comunità realmente abitata e difesa, finché si è potuto, nei quartieri popolari milanesi, organizzando picchetti antisfratto, restituendo all’abitare comune le case tenute artificialmente sfitte, con sullo sfondo “le ceneri della piazza in disarmo”, echi di altre battaglie contro la metropoli e il deserto-inferno che si allargava al seguito dei suoi confini.

Di memoria si parla perché la lotta nel presente langue, è sotto il peso di una scure processuale pesante e infamante[4], sconta lo sfaldarsi dei legami durante il periodo pandemico, il mancato ricambio, l’interrogarsi sui “perché” e sui “ne valeva la pena?” sconosciuti a chi non è mai stato sfiorato dal rischio di finire impelagati fra le carte e le sbarre dei funzionari del Leviatano.

Anche curare la memoria di una storia minore, incompiuta, ma chiaramente ulteriore agli angusti confini dell’io, serbare in sé il ricordo del grado altro di felicità che ad essa si è accompagnato può significare tenere aperta una porta verso l’altrove. Un monito che chiunque possa riconoscersi in storie come questa è chiamato a raccogliere e a interrogare attivamente:

La città era la stessa: mercato a cielo aperto e fiera degli spettri. Però anche nel dolore per noi non c’era tenebra. 

(E infatti così ingenui da bambini a pensare di cambiare il nome delle strade)

Pensare che l’albero piantato con le sue radici avrebbe aperto delle crepe. E sotto i nostri colpi, tutti insieme, sarebbe apparso il filone d’oro.

(Quando ti ho incontrata per caso dopo che era inverno sotto i palazzi stanchi proprio dopo la nostra prima notte)

Coloro che avranno smarrito

o ogni ricordo, ogni memoria di essere anche luce, andranno perduti irrimediabilmente.

Ma non vale se poi diventiamo anche noi degli spettri.

Vivremo bene

Assumendo i panni di un Gioacchino da Fiore trafelato nella metro o di una presenza sospesa nel cielo sopra Milano, l’angelo della storia continua a volgere le spalle al futuro, chiamando ad esistenza quell’utopia redentrice che inizia ad abitare il mondo e le singole vite solo se si radica nell’urgenza di uscire dallo stato di minorità della propria storia[5].

I testi di Niccolò Bosacchi sono in conclusione un bel tentativo di descrivere questo stato di attesa e di sonnambulismo diffuso, l’accumulo dei ritardi e delle scuse per cui ancora manchiamo all’appuntamento con la storia di tutti e di tutte.  


N. Bosacchi, Disbrigo degli affari correnti, Sensibili alle foglie 2024, 72 pp., €12.

[1] Mi sia permesso di suggerire, a chi come me è risultato attratto da questo titolo ben poco altisonante, la lettura di una poesia di Primo Levi, contenuta in Ad ora incerta, dal titolo Le pratiche inevase.

[2] Questa condizione di malfunzionamento percettivo e sulla condizione umana mutilata che ne consegue mi pare anche uno dei nuclei di senso della raccolta di un altro autore che si è affacciato sulla scena della poesia italiana negli anni Venti, Francesco Scapecchi, e che ha con il nostro più di un’affinità poetica e politica. Ne ho già scritto qui: https://www.labalenabianca.com/2024/05/17/rizzo-scapecchi/

[3] Il riferimento all’omonima raccolta di Guido Mazzoni edita da Donzelli nel 2017, a cui devo tra l’altro l’incontro con la citazione kafkiana iniziale, è voluto.

[4] In primo grado (novembre 2022), con l’accusa di associazione a delinquere, il Tribunale di Milano aveva comminato a molti membri del Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio pene fino a 5 anni e mezzo di reclusione per la loro lotta per il diritto all’abitare. A riparazione di quest’onta giudiziaria, il secondo grado di giudizio (avvenuto nel dicembre 2024 a libro già pubblicato) ha fatto cadere il suddetto capo d’accusa, riconoscendo le finalità sociali e l’assenza di lucro nelle attività del Comitato, ribassando fortemente le pene attribuite in precedenza.

[5] Almeno in nota, vorrei qui invitare alla lettura di un altro testo che può aprire delle crepe soggettive da non richiudere né rimuovere, a partire da una citazione che ha molto a che fare con ciò di cui si è trattato qui: «Fronteggiare il negativo significa in primo luogo ritrarsi nel negativo che si è. Nel mettere a fuoco la propria mancanza, più che nel lamentare le mancanze del mondo, è il lavoro della critica. Mancanza che non va tanto intesa come “ciò che mi manca”, ma piuttosto come “ciò che io manco”, “ciò a cui io manco”, il luogo in cui io non sono presente, l’appuntamento che ho mancato e che continuo a mancare.” (Daniele Giglioli, Stato di minorità, Laterza 2015).