Giorno della liberazione raccoglie nove racconti pubblicati da George Saunders su riviste – soprattutto sul «New Yorker» – tra il 2013 e il 2022; in Italia è uscito solo quest’anno grazie a Feltrinelli ma senza eccessivo clamore. Eppure, leggere questi racconti prendendo in considerazione questo arco temporale permette di comprenderne la valenza profetica e la cogente attualità. Sono soprattutto i racconti più distopici a parlarci del presente – e di un futuro più o meno prossimo. Per costruire l’impalcatura teorica di questi ultimi, Saunders scomoda Orwell, Huxley e Bradbury e lavora sul genere riattraversando e scandagliando il tema del controllo sociale basato sulla sorveglianza e sulla repressione. L’ipotesto fondamentale è, senza dubbio, 1984 rivisto alla luce delle più attuali minacce informatiche e tecnologiche. Al tempo stesso, l’autore di Lincoln nel bardo riprende la tradizione americana del racconto coniugandola alla passione per i grandi maestri russi, come confessa in Un bagno nello stagno sotto la pioggia (Feltrinelli, 2022). Il risultato finale di Giorno della liberazione, però, è quello di una rappresentazione corale in cui i personaggi dei diversi racconti sembrano in qualche modo poter coesistere all’interno dello stesso contenitore formale.

Contemporaneamente, la brevità appare funzionale a un’analisi sezionante della vulnerabilità umana rispetto al potere che si configura come una coercizione che si stabilisce necessariamente tra gli esseri umani. Esso agisce non solo come strumento di sopruso degli uni verso gli altri ma anche come ciclopica forza castrante volta a infiacchire qualsiasi tentativo di autoaffermazione. Il racconto eponimo agisce, in tal senso, da significante collettivo a fronte di una riflessione molto sfaccettata sulla schiavitù variamente intesa come ineluttabile condizione esistenziale ai tempi del capitalismo tecnologico. Un gruppo di persone private di memoria è costretto a mettere in scena, incatenato a una parete, versioni animate di eventi storici ispirati al facoltoso padrone di casa da History Channel. Saunders sottrae la Storia al dominio della scienza e la proietta, giustamente, nel fragile regno della narrazione e della rappresentazione piegate all’esercizio della spettacolarizzazione e dell’intrattenimento. A tal proposito, è necessario prendere in considerazione un altro nume tutelare della raccolta, Guy Debord, che ne La società dello spettacolo afferma: «L’intera vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli»[1]. Per il filosofo francese lo spettacolo non è che l’affermazione di una visione del mondo dominante cosicché lo spettatore finisce per confondere la realtà – e l’esperienza autentica della realtà – con la sua rappresentazione. All’interno di questo sistema, il proletariato è concepito come soggetto funzionale: questi “schiavi dell’intrattenimento”, scopriremo verso la fine del racconto, non sono altro che individui costretti a rinunciare alla propria libertà per guadagnarsi il pane a seguito di un fallimento lavorativo e quindi economico. In modo significativo, essi sono privati della libertà di parola, trovandosi quindi interdetti nella loro capacità e possibilità di espressione. Soprattutto in questo racconto, l’autore mette in luce come perfino la Storia intesa come memoria di una tradizione e di una narrazione collettiva diventi un costrutto raggirabile da chi detiene il potere. Saunders riprende, quindi, l’intuizione di Debord e la cala nella società del secondo millennio attraverso una deformazione che ci rimanda un’immagine nitidissima di nuove forme di controllo sociale che passano attraverso la manipolazione dell’informazione e l’induzione di desideri inappagabili e irraggiungibili.

Lo stesso meccanismo viene ripreso nel racconto Ghoul, dove una piccola popolazione viene impiegata in un presunto parco a tema sotterraneo dove non giungono mai visitatori. Gli individui sono pertanto tramutati in personaggi costretti ad attenersi a rigide regole di comportamento per evitare punizioni violente ed esiziali. Il protagonista scoprirà a sue spese l’inganno e il paradosso della propria condizione e l’impossibilità di riemergere alla luce del sole: si percepirà, infine, libero soltanto nell’amara presa d’atto di una tragica prigionia senza scampo. In questa prospettiva c’è ancora l’uomo alienato di Debord ridotto a mero consumatore di immagini: «L’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della propria attività incosciente) si esprime così: più esso contempla e meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio»[2]. Saunders rinnova così il genere distopico trasformandolo in una riflessione profondissima sulle nuove forme di alienazione lavorativa – dalla gig economy alla gamification in ambito lavorativo – che convertono la produttività in una performance sottoposta a una continua simulazione e a una costante valutazione.

Queste considerazioni si fanno più nitidamente politiche in Lettera d’amore, dove un nonno confessa al nipote i propri rimpianti per non aver impedito che un governo sempre meno liberale prendesse piede. Si tratta forse di uno dei racconti più realistici e più attuali della raccolta in cui l’autore porta avanti una tribolata analisi di coscienza generazionale:

Durante quel periodo io e tua nonna (e molti altri) avremmo dovuto essere gente più estrema di quanto non fossimo, per fare quello che eventualmente andava fatto. E la nostra vita non ci aveva preparato a cose estreme, a mobilitarci o a essere concentrati e carichi di energia come, mi accorgo solo ora, avremmo dovuto. Non eravamo pronti a mollare tutto in difesa di un sistema che, per noi, era come ossigeno: usato di continuo senza farci caso[3].

Anche qui è presente il tema del gioco, dell’intrattenimento, in grado di relegare l’individuo a un’inerte condizione di spettatore distratto dalla Storia e da sé stesso. Il rapporto con il potere vincola ogni possibile legame umano: agli uomini non resta che denunciarsi, uccidersi o cercare di salvarsi schivando i dardi di chi, travolto dal terrore, attacca per primo come accade in modo esemplare in Una cosa al lavoro, dove anche le più insignificanti dinamiche relazionali sono pervase da una feroce volontà di sopraffazione. L’empatia che il lettore riesce a provare nei confronti dei personaggi scaturisce dalla loro fragilità dinanzi a un gioco di forze in cui nessun rapporto è al sicuro. Neppure i rapporti familiari, come dimostra il racconto Festa della mamma, riescono a scampare a questa logica perversa. Qui due anziane donne, divise in gioventù dall’amore per lo stesso uomo ma accomunate da uno scarsissimo senso materno, non riescono a mettere da parte il proprio egoismo e la propria spietatezza anche di fronte alla morte. Una non vuole perdonare mentre l’altra si rifiuta di cambiare riaffermando con forza una realtà emotiva fatta di incapacità affettiva e di radicamento in un efferato binomio di sopraffazione e di risentimento: «Lei era quello che era. Nessuno poteva rimproverarglielo. Finché fosse stata Alma, avrebbe continuato a essere arrabbiata. Era un suo diritto. Per caso lo faceva apposta?»[4]. Le disfunzionalità dei legami familiari si ripresentano in L’audace mamma d’azione,che amplia questa riflessione introducendo un tipo di reclusione di natura più profondamente relazionale, segnata dell’impossibilità di restare autentici in un mondo in cui il linguaggio ha la capacità di deformarci perfino di fronte a noi stessi.

Questi racconti appaiono come un elenco di epifanie. I narratori prendono progressivamente atto della propria condizione di prigionia e dell’impossibilità di liberarsene completamente se non attraverso la percezione di un minuscolo spazio di autocoscienza, di libertà interiore animata da una speranza disperata: «Anche se non riuscirò a vederlo, e temo i calci che mi aspettano, mi auguro che queste parole contribuiranno ad abbattere il vecchio mondo»[5], conclude Ghoul fornendo una linea di lettura possibile all’intera raccolta. Quest’ultima contiene la parola chiave: liberazione – e non libertà, percepita come una condizione esistenziale inarrivabile perché definitiva, simbolica e non allegorica. La liberazione è, invece, un processo graduale, che non comporta necessariamente un cambiamento netto, ma consiste nella semplice presa d’atto dell’impossibilità di essere liberi. In alcuni racconti troviamo un narratore interno che fornisce la propria versione dei fatti ma poi giunge, quasi inaspettato, anche il punto di vista di un altro narratore. Le due versioni, però, non conducono a una prospettiva più completa ma sembrano suggerire, sulla scorta di Judith Butler, che si è sempre invischiati con il potere che ci opprime: l’unico spazio di liberazione consiste proprio nella capacità di osservare criticamente il nostro mondo interiore mettendolo in proporzione con l’universo sociale con cui conviviamo. Saunders ci regala l’affresco narrativo di un’umanità che, seppur distorta e fantasiosa, ci somiglia pericolosamente e riafferma la necessità di tornare a un universo letterario più complesso, in grado di risvegliare il senso critico e politico di chi legge e che, oggi più che mai, è chiamato ad una nuova possibile interpretazione e costruzione della realtà.


[1] Guy Debord, La società dello spettacolo. Bolsena: Massari Editore, [2002] 2022. p. 43

[2] Debord, p. 53

[3] George Saunders, Giorno della liberazione. Milano:Feltrinelli, 2005. pp. 105-106.

[4] Saunders, p. 196

[5] Ibidem, p. 171


George Saunders, Giorno della liberazione, trad. C. Mennella, Feltrinelli, Milano 2025, 240 pp. 18,00€