In un’intervista rilasciata nel 2014, due anni prima della sua scomparsa, Marina Jarre definisce in questo modo il suo approccio alla scrittura: «Scrivendo restituisco i miei vari strati. I dolori, come le gioie. Le frastornate vicende accadute. È l’accumulo delle cose che mi interessa. La polvere che si toglie dalla vita. Scrivere è una forma di chiarezza. Di onestà con se stessi». Sono gli innumerevoli strati di sé e il frastuono delle cose umane che hanno interessato per sessant’anni questa scrittrice senza patria, la cui opera, improntata a una magistrale chiarezza espressiva, appare oggi sintesi circospetta e cristallina dei tormenti del secolo scorso. Eppure Marina Jarre, nata a Riga nel 1925 da padre lettone ebreo e madre italiana valdese, trasferitasi in Italia a dieci anni dopo la separazione dei genitori, non è entrata tra gli autori stabilmente riconosciuti del nostro secondo Novecento. Nonostante abbia declinato con rigore stilistico in racconti, romanzi e varie forme di scrittura autobiografica temi fondamentali e attuali come l’identità, le frontiere e la memoria nel tumulto della Storia, essa rappresenta ancora un caso letterario appartato e avvolto da enigmatico riserbo.

Una riservatezza che sembra racchiusa nella storia stessa della sua vita, passata in bilico tra le diverse soglie culturali da cui ha scrutato con sguardo lucido e distaccato il mondo e il proprio passato. Di prima lingua tedesca, imparerà l’italiano solo in seguito al trasferimento nelle valli valdesi di Torre Pellice, insegnando poi per decenni francese nelle scuole medie di Torino. Non pienamente italiana, culturalmente non si sentirà mai legata al mondo valdese cui dedicherà però l’ultimo lavoro; anche la nascita baltica non le offrirà un’identità stabile, nonostante i vividi ricordi dell’infanzia in Lettonia, paese dove tornerà solo nel 2003. Sedotta dal mondo russo, anche attraverso il grande lavoro di traduttrice della madre, guarda come un segno difficile da decifrare il suo essere in parte ebrea, non direttamente perseguitata ma colpita nel fantasma lontano del padre, morto fucilato nel 1941 durante i massacri nazisti di Riga. Marina Jarre è stata una straniera delle nostre lettere, vissuta in un’incerta terra di confine che ha faticato a trovare spazio dentro un contesto culturale profondamente identitario come quello italiano.   

Sul piano letterario quello che colpisce è come, a partire da Un leggero accento straniero, pubblicato in una prima versione nel 1967, le numerose stratificazioni storiche e culturali sono potenziate da intuizioni estetiche notevoli. Quel primo romanzo presenta la confessione impenitente di un ex SS riciclatosi in rispettabile ingegnere svizzero, intrecciando al suo monologo le storie di alcuni giovani torinesi scossi dagli anni ’60. L’incrocio tra esigenze private e ragioni letterarie porta all’idea, in anticipo sui tempi se pensiamo a Le benevole di Littell o ai tanti romanzi recenti che danno voce e soggettivizzano il “mostro” della Storia, di far parlare a sua difesa e in un italiano increspato dal sostrato tedesco chi rappresentava i carnefici del padre. Mettendo a contrasto con asettica prudenza le vicende personali e i rimossi della coscienza collettiva, il libro spicca isolato e scontroso in tempi di sommovimenti e sperimentazioni letterarie. Marina Jarre ha sempre scelto forme tradizionali, misurate con la cautela di chi scrive per necessità, riversandoci tuttavia intuizioni precoci, come nel seguente Negli occhi di una ragazza. Qui la storia semplice di una ragazzina problematica, che fatica a diventare donna, punta su un minimalismo cristallino poco frequentato alle nostre latitudini. La geometria di affetti privati, studiati nelle cose e nei gesti, ricorda i racconti di Cechov, in una linea di scrittura dal tono asciutto che porta passando per Carver a scrittrici come Annie Ernaux o Alice Munro. Sospendere il giudizio, esercitare un’ironia sempre trattenuta, mostrare più che dimostrare: un credo poetico per nulla in linea con le accensioni strutturaliste e la smania propositiva dei primi anni ’70, ma che sarebbe del tutto a suo agio con le recenti scritture intimistiche.

Ciò che appare oggi più interessante della sua parca produzione sono però i libri autobiografici, in particolare I padri lontani e Ritorno in Lettonia. E non solo per l’oggettiva attrazione che le vicende umane e storiche attraversate dalla Jarre possono suscitare, ma anche per lo stile e l’impostazione strutturale che l’autrice ha dato alle opere in cui racconta di sé. E proprio con I padri lontani, uscito per Einaudi nel 1987 e mai più ristampato, è iniziato da Bompiani il meritorio piano di ripubblicazione delle opere della Jarre, sotto l’impegno e la cura di Marta Barone. Anche con questo libro anomalo di memorie l’autrice si trova fuori dai tempi: in un momento di ritorno all’ordine, alla ricostruzione romanzesca e alla frizione tra tradizione e nuovi linguaggi, la Jarre sceglie di concentrarsi sulla propria storia in modo straniante, per frammenti sfasati che anticipano l’autofiction degli anni a venire, fino ad oggi. È una strana autobiografia, che Marta Barone chiama giustamente “interrogazione identitaria” più che confessione di vita o memoir. Perché se in superficie il racconto procede cronologicamente scandito in tre parti, corrispondenti grosso modo a infanzia, giovinezza ed età adulta, a livello microtestuale attua dei piccoli scarti, delle infrazioni del discorso dovute a sensazioni improvvise e piccoli dettagli che sfumano e mettono continuamente in discussione l’immagine complessiva di sé. E così le immagini staccate dalla memoria si richiamano tra loro a distanza, magari illuminate a posteriori, come nell’ultimo incontro con il padre, che stringe e bacia in bocca la figlia per strada, di ritorno da scuola:

Mentre correndo svoltavo nello stradone e con la mano mi asciugavo la bocca, continuavo a chiedermi: ma che cosa gli è saltato in mente? E insieme mi chiedevo: chi è lui? Mi stupivo, però, in senso opposto a come mi ero stupita per il pianto di mia madre. Questo me l’aveva rivelata estranea, invece il gesto improvviso e insolito – non recitato, di mio padre, s’era teso ad aggrappare qualche cosa in me. Qualche cosa che non c’era, che era assente. Quest’assenza la sentii immediatamente come una colpa, ben prima di sapere che lo avevo lasciato nella stradina ai Dagotti per l’ultima volta, alto nel suo cappotto scuro, ritto davanti ai tedeschi che lo fucilarono a Riga nell’ottobre o novembre del 1941. Una colpa condivisa tra lui e me che entrambi non avevamo potuto conoscerci.

Il racconto si interroga ­− e quante domande nel suo tessuto retorico − si avvolge attorno a gesti e sentimenti precisi, come la gelosia per la sorella minore Sisi, le sensazioni vive legate al proprio corpo, fino a brevi tratti scatologici, la curiosità sessuale dell’infanzia, l’incomprensione e l’attrazione verso la madre, che vede sempre come ragionevole e giusta nonostante il senso di impotenza che le suscita. Per la giovane Marina ogni cosa è disperatamente incasellata nel proprio nome, nel fortilizio identitario della cultura o nelle etichette delle “buone maniere”, dentro cui si sente sempre estranea: «Di rado sono libera dai miei impacci». Ama invece i «nomi non nominati – come il suono del pianoforte e il fiato ancora trattenuto del vento d’inverno quando sta per gettarsi vorticando attraverso la pianura innevata», che la «attraggono e immergono in un’attesa segreta, più dei nomi nominati sui quali devi sempre precisamente ragionare». È un’opera di svelamento quella che sovrappone il tempo della scrittura con l’allora del vissuto, unisce le stagioni della vita in cerca di chiarezza: «Ero impegnata in una costante, seppure cauta, operazione di sbugiardamento non solo del prossimo, ma anche della realtà che si presentava in figure inaspettate e, come mi sembrava, illusorie». L’accumulo delle cose, il toglierli la polvere, è guidato da una tensione algida ma consapevole del proprio tumulto interiore. E dove non sono le cose a parlare è vano susseguirsi di referenti in cerca di una realtà stabile:

Il mio nonno lettone e la mia nonna russa sono ebrei. I miei nonni italiani – ma in realtà sono anche un po’ francesi – sono valdesi. Mia madre è valdese. Alcuni lettoni – i più stupidi – sono cattolici. Ma è anche cattolica la zia Jo che non è affatto stupida. Anche Petkevič, il nostro autista, è cattolico. I polacchi sono cattolici. I russi sono ortodossi, ma la mia nonna russa è ebrea. D’altronde i russi che stanno all’ambasciata sovietica non sono ortodossi. Sono come mio padre: non hanno religione. […] Pietroburgo l’hanno chiamata Leningrado e hanno fucilato lo zar con la sua famiglia. Anche lo zar però non era uno stinco di santo e a sua volta fucilava quelli che non gridavano “Viva lo zar”. Era ortodosso; fra tutte le religioni, quella ortodossa non è quasi una religione.     

Dopo il burrascoso divorzio dei genitori, nel 1935 la madre trasferisce le due figlie presso la nonna a Torre Pelice, dove Marina inizierà a parlare e studiare l’italiano. Qui entra in contatto con il mondo valdese, austero e caparbio, di cui comprende la tradizione e i valori ma non condivide il fervore, che per lei può fermarsi solo alla lettura appassionata dei testi sacri: «Ma già allora questioni dottrinarie e teologiche mi impazientivano ed ero emozionata solo dal testo in cui si manifestasse in forma poetica e drammatica quell’unico punto che mi stava direttamente a cuore, quello che si riferiva cioè ai miei rapporti con Dio». Il Dio tremendo degli antenati è trattato con la stessa discrezione con cui tratta le cose umane e le proprie: le amicizie, le prime infatuazioni, un’adolescenza arrabbiata che oscilla tra duelli psicologici con la nonna e un’enorme fame di conoscenza. Il fascismo è ricordato nelle sue forme esteriori, nel senso di fastosità magniloquente, e solo dopo lo scoppio della guerra inizierà un prudente e guardingo riesame della Storia recente. Ma sempre osservando tutto, anche gli amici partigiani giellisti e il movimento di Resistenza, come da lontano, come stesse sempre in una camera ovattata dal proprio Io interiore, che non si sbilancia mai e che arriva anche a riconoscersi nei segni della viltà: «Ero in genere una ragazza prudente, non partecipe e spesso vile». Avrà qualche mansione da staffetta, ma è solo al racconto riferitogli di un ragazzino impiccato dai tedeschi, «che mi ero messa improvvisamente a piangere, ma le lacrime che mi bagnavano il viso non venivano dai miei libri e dalle mie fantasticherie e neppure più indietro dall’ormai pietrificata infanzia, sgorgavano dal mio corpo per la prima volta consapevole di sé, dentro il quale avrei voluto nascondere e proteggere il ragazzo sconosciuto». L’estraneità sospettosa ai rapidi cambiamenti della Storia si sfalda solo grazie al racconto, a una storia ascoltata più che vista o vissuta, come se solo nella parola-testimone si nascondesse per questa scrittrice di ghiaccio la crepa vitale da cui uscire fuori con sincerità, senza altre identità che non siano l’umanità partecipe. E tra tutte le storie che ha fatto sue, è quella della morte del padre, di cui verrà a sapere solo dieci anni dopo, che sarà il punto di svolta della sua crescita: «Da qui è nata, seppure tardi com’è nel mio costume, la mia pietà adulta, come nascono dal gelsomino sarmentoso le radici per ritornare alla terra che le ha generate. Uniche radici che riconosco mie».            

La terza parte riprende il moto ondoso della prima, tra esattezza del ricordo e squarci immaginifici, come quello sulla propria morte che apre il capitolo ancor prima del racconto della maturità («Voglio morire in piazza San Marco, la testa sulle ginocchia») o le rapide visioni oniriche («Ho sognato nei mesi che seguirono l’isterectomia, che mi cadeva un enorme e sanissimo dente bianco; ciò mi irritava e mi inquietava, però nel sogno continuavo a ripetermi: non fa niente, me ne faccio mettere uno falso!»). Dopo le impressioni di una vecchiaia colta nell’affettuoso e a tratti ironico quotidiano e nei sogni, Jarre torna agli anni di giovane insegnante e sposa. Ma sarà solo con la nascita dei figli che sentirà di essere nata «come donna» («mi sono partorita insieme ai miei figli»), e poi la fatica quotidiana del lavoro e della famiglia, la vocazione letteraria che sgorga seguendo «l’esigenza di trasformare, la spinta a rappresentare, a ricreare, la persuasione che tutto può essere riprodotto e raffigurato». Vede se stessa nell’atto di scrivere come «un cane randagio addormentato nella calura di luglio al riparo fresco di un edicola chiusa». È il carattere di una nomade esistenziale che cerca un punto di osservazione nel contagocce della scrittura, dove a ogni libro sembra chiarire meglio e completare i precedenti. Così Ritorno in Lettonia del 2003 risulta essere un adempimento nei confronti della figura del padre, che in questi Padri lontani entra come personaggio fisico ma il suo fantasma non viene mai guardato fino in fondo negli occhi. Nel successivo Il silenzio di Mosca ritorna invece a indagare un fatto storico, l’immagine dei prigionieri tedeschi che sfilano per le piazze di Mosca dopo la sconfitta, riportato tra finzione e realtà da più punti di vista e messo in relazione, alla fine, alla morte ormai vicina che guarda con la stessa definizione con cui ha guardato la propria vita.

Le pagine di Marina Jarre sono levigate infine su una lingua che poco condivide del ribollire meridiano della tradizione italiana. Si potrebbero portare a chiarimento Deleuze e Guattari, con il loro concetto di «letteratura minore», per decifrare il fascino enigmatico dell’uso di una lingua maggioritaria da parte di una minoranza che non si riconosce pienamente in essa. Non fosse che la Jarre non si è mai sentita a casa nemmeno in una delle tante minoranze in cui avrebbe potuto trovare rifugio, e il suo uso dissidente e dal leggero accento straniero dell’italiano lo condivide solo con altre voci isolate dal secolo scorso, come Fleur Jaeggy o in tutt’altro genere Giorgio Scerbanenco. Il suo destino la accomuna anche ad altre grandi autrici del secondo Novecento che hanno faticato o faticano a trovare un posto stabile nella nostra recente tradizione, se pensiamo all’ormai riconosciuta Amelia Rosselli o ad Alice Ceresa. Tuttavia i suoi libri da riscoprire possono risultare preziosi per le riflessioni intorno alla letteratura dei nostri anni: le tante opere di autofiction che si interrogano sulla Storia all’incrocio con la propria autobiografia, da Eraldo Affinati a Helena Janeczek, troveranno in Marina Jarre una madre vicina.    


M. Jarre, I padri lontani, intr. M. Barone, Milano, Bompiani, 192 pp., € 12,00.