Di recente una parte della critica ha sentito l’esigenza di impostare un bilancio sulla letteratura italiana degli ultimi vent’anni, circoscrivendo questa prima tranche di secolo che ha visto orbitare intorno a sé letture molto polarizzate o vulgate semplificatorie esibite in fretta e con facilità. Nel novero di queste necessarie operazioni di mappatura si colloca senza dubbio e con merito L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020, recentemente curato da Emanuele Zinato. Questo volume a più voci corona un’esperienza inaugurata dalla pubblicazione del quinto numero della seconda serie in edizione quadrilingue della rivista «CARTADITALIA», diretta da Paolo Grossi, e proseguita in un dibattito svoltosi a Bruxelles nel giugno 2019 e intitolato Stati generali della nuova letteratura italiana, che ha visto radunarsi alcuni dei critici più attenti alla produzione letteraria contemporanea del nostro paese.

Il libro pubblicato da Treccani si presenta così articolato: dopo un’introduzione del curatore, la prima sezione presenta saggi di Morena Marsilio (La narrativa italiana del Duemila), Marianna Marrucci (La poesia italiana del Duemila) e Valentino Baldi (La saggistica letteraria del Duemila); la seconda riporta, suggellati da una conclusione di Zinato, gli interventi di Mario Barenghi, Andrea Cortellessa, Paolo Giovannetti, Filippo La Porta, Matteo Marchesini e Luigi Matt. Dispiace il non trovare nel volume le relazioni degli altri invitati alla tavola rotonda, che avrebbero certamente contribuito a rendere più definiti i termini del dibattito tenutosi nelle due giornate di Bruxelles.

Una caratteristica comune ai contributi raccolti, e ciò vale sia per i saggi già apparsi su «CARTADITALIA» che per gli interventi occasionati dal dibattito belga, è una tensione alla sintesi che già in sé costituisce un’opzione critica non scontata di questi tempi, che da una parte vuole scantonare dal circuito chiuso degli specialismi accademici e dall’altra prova a considerare la letteratura italiana di questo periodo per così dire “a bocce ferme”, a margine cioè del flusso di recensioni che vengono pubblicate ogni giorno su quotidiani e riviste. L’introduzione di Zinato si apre con un gesto al contempo di umiltà e di necessaria presunzione, dove la presunzione qui è tutta nel non darsi per vinti in partenza: intento del volume è infatti quello di “pesare” e “distinguere” la produzione letteraria recente, sottolineando l’esigenza da parte della critica di superare le retoriche della propria marginalità e di ricusare gli epicedi che la vorrebbero defunta, provando dunque a rinegoziare le proprie ragioni e il proprio vocabolario.

Il volume, animato da uno spirito divulgativo che lo rende avvicinabile anche dai non specialisti, evita l’ennesima ipotesi di canone: di nomi se ne fanno, e molti, ma senza alcuna pretesa di esaustività. Le opere citate mirano invece a rendere più agevole per il lettore la comprensione di specifiche tendenze di durata medio-lunga: non classifiche o steccati, dunque, bensì ipotesi di esemplarità. In questo senso i tre saggi panoramici di Marsilio, Marrucci e Baldi mantengono un equilibrio che riesce a scrostare alcuni stereotipi consolidati e semplifica invece laddove sarebbe più alto il rischio di dispersione analitica. La tripartizione, che Barenghi definisce «senza alternative» (p. 143), fra narrativa, poesia e saggistica risulta peraltro essere uno dei punti intorno al quale divergono maggiormente i critici chiamati al dibattito. Per ciò che riguarda lo spettro periodizzante che aleggia sui decenni in questione, la scelta dell’espressione “estremo contemporaneo”, tutto sommato lasca, rivela la cautela, auspicabile in questo caso, di sottrarsi a un difficoltoso intrico di proposte denominative che se affrontato di petto avrebbe rischiato di far deragliare l’operazione dai suoi sani propositi di accessibilità. 

Non mi soffermerò sui meriti descrittivi dei tre saggi panoramici poiché rischierei di riassumere banalmente un discorso la cui concisione è già il frutto di una costosa selezione. Più proficuo mi pare indicare in maniera desultoria alcune questioni discusse trasversalmente nei testi che mi paiono cruciali per proseguire – in altri tempi, in altre forme, in altre sedi – il dialogo che questo libro si è preso l’onere di avviare.

Una questione segnalata da Marsilio, che mi sembra stimolante per ragionare sullo scollamento che separa la cerchia degli addetti ai lavori da una readership quantitativamente più sostanziosa, è la difficoltà di «tracciare una netta linea di demarcazione fra il romanzo midcult e quello high-brow» (p. 47). Un circolo vizioso legato a questo problema, che pare essersi acuito dopo il trasferimento sulla rete di molte risorse critiche, è più o meno quello che segue: in una società algoritmica e spettacolare che seleziona un pubblico – inevitabilmente ridotto – di persone non solo interessate alla letteratura, ma anche al discorso sulla letteratura in senso ampio, statisticamente si manifesta la tendenza nei critici-recensori a seguire e discutere maggiormente autrici e autori già consacrati e spesso fruiti da una minoranza di lettori forti piuttosto che considerare opere effettivamente più lette. In molti casi i libri di più largo consumo non sembrano offrire al critico una contropartita abbastanza significativa, né intellettuale-simbolica né tantomeno economica, in quanto la potenziale estensione del pubblico di un’opera viene percepita come inversamente proporzionale al possibile interesse verso una critica dell’opera stessa.

È anche in questo quadro che si comprende il progressivo smantellamento dell’istituto della stroncatura, che spesso sopravvive in forma residuale come postumo spettacolo critico, alla bisogna sprezzante, umorale o nostalgico. Eppure, basta l’intervento di Marchesini presente nel volume (leggibile qui), che utilizza il Girard di Menzogna romantica e verità romanzesca come strumento di analisi posturale e ideologica di due quotati narratori contemporanei, a rammentare, qualora ce ne fosse bisogno, quanto possa essere stimolante una critica di segno negativo se supportata da un’argomentazione chiara e coerente. Il punto di partenza dell’intervento di Marchesini è peraltro lo stesso dell’inquadramento stilistico della narrativa recente operato da Luigi Matt: un’analisi stilistica conseguente non dovrebbe portare tanto a separare lo “scriver bene” dallo “scriver male” – qualsiasi cosa queste espressioni designino – quanto a prendere in esame tutti gli aspetti formali di un testo e il loro modo di relazionarsi al piano dei contenuti, al fine di verificare e comprendere quale prospettiva l’opera inviti il lettore ad adottare.

Il capitolo firmato da Valentino Baldi ha il pregio di tentare un accostamento maneggevole fra esempi di saggismo contemporaneo, anche molto diversi tra loro, sulla base di alcune costanti che vengono lette come reazioni a quella che l’autore definisce l’«evaporazione» (p. 127) della sacralità e del carattere collettivo di questa forma espressiva: personalismo autobiografico, senso di precarietà, utilizzo di retoriche della minorità. Resta da verificare se queste invarianti individuate da Baldi vadano interpretate più come sintomi specifici della saggistica del ventennio recente che non come possibili risposte alla più generale mutazione informativa in atto, in Italia, da almeno cinquant’anni. Baldi affronta la questione della «mutazione della mediazione», ossia del rapporto tra saggismo e comunicazione digitale, aprendo a un discorso problematizzante sui nuovi orizzonti spalancati dalla critica sul web, un fenomeno ormai più che decennale che necessita di essere dibattuto organicamente. Quali sono i costi e i benefici reali di ciò è stato spesso presentato come un’occasione di «visibilità immediata e insperata» (p. 138)? Passata l’epoca dei proclami entusiasti relativi alle nuove possibilità offerte dalla rete – e forse a maggior ragione dopo un anno abbondante di completa smaterializzazione della vita culturale – è giunto il momento di una riflessione sul fenomeno nel suo complesso: «La seconda interpretazione è più preoccupante, perché dimostrerebbe come quel marketing che ha completamente sostituito il lavoro editoriale sia capace di innestarsi anche in spazi celebrati come alternativi» (p. 138).

Tale preoccupazione è ribadita nell’intervento di Andrea Cortellessa: «È uno degli aspetti più minacciosi del trompe-l’œil che sono i social network: quanto di più remoto si possa immaginare, cioè, rispetto a un’autentica condizione sociale. I commenti dei loro utenti non sono rivolti a lettori, ma a destinatari interni alla propria “cerchia”, o “bolla” che dir vogliano» (p. 159). Si può dire però che ogni pessimismo manifestato nel volume non tracima mai in un troppo comodo nichilismo; non mancano infatti abbozzi di proposte attive: in questo senso l’“utopia minimalista” di Filippo La Porta, che paragona i gruppi di lettura creati dal basso (biblioteche, scuole, librerie) a organismi di formazione dell’individuo e della comunità democratica, invita a studiare e praticare strategie di coesione tra le realtà indipendenti che servono a garantire quel minimo di ossigeno necessario a preservare la “bibliodiversità” delle patrie lettere. Il punto è ribadito almeno nell’introduzione al volume e nel saggio di Marsilio: «In tale contesto gli editori e le librerie indipendenti, benché economicamente fragili rispetto alle concentrazioni monopolistiche, restano probabilmente il vero antidoto contro le tendenze omologanti di un’“editoria senza editori”» (p. 38). È Barenghi a indicare un ulteriore orizzonte di riflessione, spesso poco considerato, di importanza cruciale nell’ottica di un discorso sul pubblico, ossia quello didattico-pedagogico, lamentando la mancanza di collane destinate al giovane pubblico in formazione: «Anziché sui lettori potenziali – i ragazzi – si punta sui lettori esistenti, per lo più di età avanzata (p. 147). Sono tutti spunti, questi, che invitano non solo a ragionare sul pubblico in termini quantitativi, ma anche in termini di coscienza critica, come già segnalava Fortini in Per una critica come servizio ormai settant’anni fa, sostenendo che «non è la semplice estensione numerica dei consumatori di opere, di poesia e d’arte, forma necessaria ma non sufficiente della democrazia culturale; quanto piuttosto che il corpo – numeroso o ristretto – dei consumatori sia cosciente dei problemi di organizzazione della cultura e non già impotente di fronte a essi» (F. Fortini, Dieci inverni [1947-1957], a c. di S. Peluso, con un saggio di M. Marchesini, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 75-86: 85).

Un’altra questione che genera nel libro posizioni divergenti riguarda l’eredità del Novecento italiano nella produzione contemporanea e il ruolo che tale eredità debba coprire nella pratica interpretativa: ne esce ridimensionata la vulgata che vorrebbe le giovani autrici e i giovani autori nostrani plasmati per lo più su esperienze extra-letterarie e su modelli letterari stranieri. Se la tendenza dominante pare quella di cercare linee di continuità e di resistenza tra le tradizioni del secolo scorso e quelle attuali, con il rischio che le seconde restino schiacciate dalle prime, non mancano voci che difendono l’identità della letteratura del nuovo millennio. L’intervento di Giovannetti, ad esempio, rivendica con decisione la «specificità storica del Duemila» (p. 164). Se da una parte Marrucci nel suo saggio insiste a ragione sulle aree di sconfinamento della poesia recente – «la prosa, le arti visive e plastiche, le arti performative e dello spettacolo» (p. 80) –, dall’altra Giovannetti ricorda come «l’altro della poesia non è solo l’altro delle scritture di ricerca, o l’altro di una prosasticità ironica o corrucciata […]; ma è l’altro del consumo, delle forme musicali che usano la parola per blandire o eccitare l’orecchio e il corpo dell’ascoltatore, e insieme la diversità delle nuove forme orali messe in opera dallo slam e dallo spoken word» (p. 163). Per questa via pare inaggirabile l’argomento secondo il quale i contorni di molti fenomeni letterari, poetici ma non solo, dell’ultimo ventennio non emergono con chiarezza se avvicinati con una lente meramente novecentesca: «Senza il contesto cognitivo di Internet, un certo tipo di poesia non è comprensibile. […] Se qualcosa di utile (anche sul piano politico) vogliamo provare a fare, è da questa condizione che dobbiamo partire: da un radicamento, dico, pienamente duemillesco; e non dai fantasmi nostalgici del Novecento» (pp. 167-169). Aggiungo che da tale radicamento dipende la coscienza dei «problemi di organizzazione della cultura» di cui parla Fortini e che dovrebbe costituire la condizione necessaria per provare a fronteggiarli.

È dunque anche in virtù del suo carattere polifonico e non-confermativo che il volume mantiene un proprio interesse vivo, che lo rende merce altra rispetto a molta produzione accademica, alla quale spesso il pubblico non specializzato guarda con insofferenza. Si può discutere a lungo dei pregi, delle tare, delle possibili integrazioni della panoramica offerta da L’estremo contemporaneo, che ha tuttavia il merito di porre una serie di domande per riavvicinare i lembi di un dibattito spesso troppo parcellizzato o mediaticamente accelerato fino alla dissoluzione. E sotto l’auspicio di un ritorno a un’interrogazione seria e non mistificata si può leggere l’intera operazione, che risulterebbe fallita solo se lasciata cadere senza seguito: «Se i difformi criteri di giudizio che da quegli strumenti [della teoria e della critica n. d. r.] si possono desumere producono mappe incerte, plurali, variegate e disomogenee […], queste risultano pur sempre preferibili all’assunzione dello status quo, del midcult in espansione o dell’assenza di distinzioni come i soli orizzonti possibili» (p. 19). Radunare una comunità intorno a un numero finito di domande, anche per generarne delle nuove o fornire risposte diverse da quelle pervenute, è per sé un merito. «Bisogna fare aria intorno ai libri e ai lettori» (Fortini, Dieci inverni, cit., p. 97) tuonava Fortini dalle pagine di Dieci inverni: se accettiamo l’immagine che vuole i vituperati “addetti ai lavori” prigionieri di una smisurata echo-chamber, lo sforzo collettivo raccolto in L’estremo contemporaneo è quello di tastare le pareti della cella in cerca di una breccia che faccia filtrare un po’ d’aria.  


La presente recensione è uscita sul numero 41 della rivista «Oblio. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», scaricabile gratuitamente al seguente link.

L’immagine dell’header è un particolare di un’opera dell’artista spagnola Alicia Martin, alla quale appartengono tutti i diritti.


AA.VV., L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020, a cura di E. Zinato, Roma, Treccani Libri, 2020, 224 pp., € 17.