Il 7 gennaio 2022, a tre anni dall’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sérotonine, è uscito nelle librerie Anéantir (Annientare), pubblicato in Francia da Flammarion e in Italia dalla Nave di Teseo. Ora, prima di cominciare la recensione vera e propria, mi sia permesso un piccolo disclaimer: io ho sempre amato moltissimo Houellebecq. Ci sono persone che non lo sopportano, trovandolo più o meno l’incarnazione di tutto quello che un romanziere e un intellettuale non dovrebbe essere: negli anni l’autore francese è stato accusato di essere misogino, sessista, razzista, nichilista, immoralista, francamente di destra. Tutte cose, per certi versi, anche vere, ma vere in un modo figurale. Ho sempre pensato che nei romanzi di Houellebecq gli elementi disturbanti del discorso, le invettive, gli insulti, gli attacchi ai principali pilastri di quella che consideriamo oggi la doxa mediamente democratica, mediamente civile e impegnata dell’Occidente moderno, fossero e siano – ancora e sempre – voluti. Fanno parte, come per altri versi (si parva licet) in Céline e in Bernhard, di una precisa strategia: quella di un contro-discorso tutto costruito sull’iperbole, sull’esagerazione, sul paradosso che programmaticamente aggrediscano il discorso comune, di buon senso, mediamente colto, mediamente civile, che il loro lettore ha in mente.

Houellebecq è attivo nel dominio della narrativa da ormai quasi trent’anni – il suo primo romanzo, Extension du domaine de la lutte, è uscito nel 1994 – e forse, anche alla luce del recentissimo Anéantir, è tempo di fare un bilancio. Il titolo farebbe supporre, ancora una volta, quel nichilismo senza speranza, quella voluta monotonia cinica, quella mancanza totale di prospettive che molti associano alla visione del mondo di questo autore; e tuttavia, va detto e infatti è stato detto, il mondo di Houellebecq non è mai stato solo un mondo cinico: sistematicamente, nei suoi romanzi, ai personaggi – che sono sempre di mezza età, maschi bianchi occidentali incarnazione dell’everyman messo alla prova (e in definitiva sconfitto) dai grandi cambiamenti sociali e culturali degli ultimi cinquant’anni – viene data una possibilità di essere, in qualche modo, felici. E solitamente questa possibilità è offerta dall’amore salvifico per una donna (già questo basterebbe, almeno in parte, a contestare la presunta misoginia del nostro); e tuttavia qualcosa non funziona, la carta viene sprecata: per diffidenza, per uno scherzo della sorte, o anche soltanto per vigliaccheria. E ogni volta il protagonista, da Bruno delle Particules élémentaires a Michel di Plateforme, da Daniel di La possibilité d’une île fino a Florent-Claude di Sérotonine, va incontro a un progressivo volontario ritiro, e muore solo senza più alcuna speranza.

Aprendo Anéantir, a prima vista, si sente aria di famiglia. Anche qui c’è un protagonista in linea con tutti gli altri: stavolta un funzionario dello Stato, capo di gabinetto al Ministero dell’Economia, Paul (che risponde al buffo cognome di Raison, e i cognomi parlanti in questo libro sono importanti) vive a Parigi una vita economicamente agiata ma sentimentalmente men che mediocre, preso tra impegni di lavoro, il mutuo da pagare e una vita matrimoniale – la moglie si chiama Prudence, altro nome parlante – in crisi da almeno dieci anni. La prima frase del romanzo non lascia spazio a dubbi, sembra proprio di trovarsi nel pieno del solito (e ormai per certi versi confortante, nella sua disperante uniformità) panorama antropologico houellebecquiano:

Certains lundis de la toute fin novembre, ou du début de décembre, surtout lorsqu’on est célibataire, on a la sensation d’être dans le couloir de la mort.

E tuttavia presto il romanzo prende una piega diversa; prima di tutto – sembra un’osservazione marginale, ma forse meno di quel che si possa credere – per la sua mole: più di settecento pagine, una dimensione inconsueta per i libri del nostro autore. E viene subito da chiedersi: che cosa ci racconterà, a cosa servirà tutto questo spazio? È una scommessa nuova, per la quale ci vuole molto più tempo che in precedenza? Si comincia subito con il dettaglio della vita di Paul, sia dal punto di vista lavorativo che familiare. Alla sconfortante pittura della solitudine all’interno delle mura domestiche – dove ormai tutto, finanche gli scaffali del frigo (per non parlare delle stanze da letto), è separato tra lui e la moglie – si affianca il lavoro: intimo amico, oltre che primo collaboratore del ministro dell’Economia, Bruno Juge (terzo nome parlante), il nostro protagonista si trova a gestire tanto l’ordinaria amministrazione (una campagna presidenziale del 2027 ormai alle porte, di cui Bruno sarà l’uomo forte vista la debolezza del candidato prescelto dal presidente uscente) che quella straordinaria: un misterioso gruppo terroristico, dotato di mezzi economici e informatici straordinariamente ampi e potenti, sta seminando il panico con attentati diretti a navi commerciali e industrie, diffondendo poi su internet dei misteriosi video di rivendicazione, che hanno a che fare con pentagrammi, cerchi e messaggi scritti in una lingua misteriosa. Lo dico subito: nessuno saprà mai niente di questo gruppo, fino alla fine, e anzi questa linea narrativa sarà – piuttosto frettolosamente – del tutto lasciata cadere verso i due terzi del romanzo.

Ma allora, di cosa parla Anéantir? La linea del terrorismo internazionale sembrava portarci verso un filone che non è certo nuovo in Houellebecq: quello che si potrebbe chiamare della fanta-politica o del futuribile-scenario-apocalittico. Solo per fare pochi esempi noti a tutti: Soumission parla di una Francia del prossimo futuro dove un partito islamico moderato sale al potere e impone le prescrizioni coraniche all’intera società, che risponde con un conformismo inquietante e quasi con una sorta di sollievo; Possibilité ci racconta per buona parte un mondo post-apocalittico devastato climaticamente, dove i pochi neo-umani sopravvissuti vivono vite del tutto isolate e si muovono come fantasmi; Particules si chiude sulla visione di una società futura formata da superuomini à la Huxley, liberi dal dolore e dal bisogno, frutto di un progetto di ingegneria genetica; Plateforme culmina in attentato terroristico che falcia via tutte le speranze di felicità del protagonista, uccidendogli la compagna. Il distopico, il futuribile più o meno prossimo, il velatamente ucronico sono registri che Houellebecq ha praticato da sempre. Iniziando Anéantir il lettore si può legittimamente aspettare che si andrà in questo senso anche stavolta, e invece su questo viene deluso: nessuno darà mai una spiegazione per gli attentati, e al di là di qualche generico riferimento al nichilismo di gruppuscoli che vogliono l’annientamento del commercio mondiale, e forse anche della specie umana, non c’è molto altro. Se non – duole dirlo – un po’ di armamentario kitsch che francamente poteva esserci risparmiato: il linguaggio sconosciuto inattaccabile dai più sofisticati sistemi di decrittazione, qualche pentacolo e simbolo satanico, le rivendicazioni misteriose a base di video di esplosioni e di torture.

Ma allora, se non di questo, di cosa parla Anéantir? Per le centinaia di pagine centrali, fino quasi alla fine, è la storia di una famiglia: la famiglia del protagonista, appunto, la famiglia di origine, che vive in una bella tenuta del Beaujolais (en passant, che sia in quel luogo, la casa di famiglia, permette a Houellebecq di regalarci qualche bellissima descrizione del paesaggio mobile e screziato della Francia rurale – cosa che gli riesce benissimo sin dai tempi di La carte et le territoire). Paul si trova infatti a gestire, insieme alla sorella e al fratello minori, l’improvvisa invalidità del padre a causa di un ictus che lo lascia incapace di muoversi e di parlare: il trauma della morte scampata, il ricovero in una struttura per malati a lunga degenza, molte riflessioni sul corpo e sulla malattia, sul trattamento degli anziani in Occidente. Ma tutto questo è soprattutto un pretesto per narrarci tre vite singole, assolutamente simili a moltissime altre del mondo contemporaneo: la sorella Cécile, casalinga pot-au-feu, cattolica di buonissimo cuore, con simpatie frontiste come sono quelle del marito, ex-militante di ultra-destra, notaio in cassa integrazione (sembra impossibile ma è così) e bravissima persona come lei; il fratello più piccolo Aurélien, restauratore di tappezzerie medievali, uomo fragile nelle grinfie di una moglie-mostro (forse l’unica caricatura vecchia maniera, tra i personaggi – ma una caricatura piuttosto mal riuscita) che lo porterà al suicidio. Col racconto della vita di questa famiglia, dei suoi equilibri, del suo ritrovarsi intorno al focolare domestico in una casa della vieille France dove ancora si imbandiscono i buoni piatti della tradizione gourmande, vien fatto di pensare che il romanzo vorrebbe parlarci di nostalgia: di relazioni umane interrotte che però si possono riprendere, di tradizioni che possono non scomparire del tutto, di unità familiari che forse potrebbero anche ricomporsi. Il che non è sgradevole, affatto: Houellebecq è bravo a parlarci di questo, lo fa con discrezione e perizia. Ma anche qui la sensazione è che qualcosa giri a vuoto. Ci si continua a chiedere: perché sta rappresentando tutto questo? Quando passerà dal piano particolare a qualche altro piano più generale, quando comincerà a darci prospettive – idiosincratiche, straniate, urticanti quanto si vuole – sul mondo, come ha sempre fatto? Ma questo non succederà, uno se lo aspetta e semplicemente non succede: la vita particolare di questa famiglia ci viene mostrata, nei suoi problemi e nelle sue decisioni (anche estreme), senza che mai si abbia la sensazione che il racconto possa da qualche parte interessare veramente anche la nostra, di vita. Certo, è piacevole; è piacevole ma non dirompente, e dopo un po’ diventa noioso (non avrei mai creduto di scrivere questo aggettivo per qualcosa uscito dalla penna di Houellebecq che è, e che resta, il mio narratore vivente preferito). Ma allora?

Qui arriviamo all’ultimo punto, ovvero che nel romanzo manca quasi del tutto quel che fondava gli altri – con risultati non sempre e solo felicissimi, ma li fondava: l’alternanza tra narrazione e saggistica. I romanzi di Houellebecq sono sempre stati, anche e forse soprattutto, romanzi-saggio: in cui le parti saggistiche erano tutto fuor che condivisibili al grado zero, accettabili senza decrittazione, riposanti; ma appunto offrivano una visione del mondo che permetteva di traghettare il romanzo dal particolare delle esistenze private al generale della vita di noi tutti. E che poi queste parti saggistiche fossero sovente, come dicevo, profondamente idiosincratiche, paradossali, antifrastiche, piene di invettive, non le rendeva meno perspicue, e anzi forse di più. Ho sempre pensato che fosse necessario leggere Houellebecq a contropelo: così certi attacchi alle donne diventavano espressione di una nostalgia di intimità straziante, certe tirate di odio assoluto si trasformavano in lamenti d’amore, certe sequele implacabili di scherno mostravano tutto il loro carico di disperazione e paura. Anche con questo, Houellebecq, ci ha aiutato, facendo un po’ da capro espiatorio e da Cassandra, estremizzando al massimo grado e dando forma letteraria a qualcosa che in fondo, da qualche parte, sentiamo un po’ tutti. E allora, adesso, cosa è successo?

Come dicevo, per la quasi totalità del romanzo mancano le parti saggistiche, manca l’andirivieni – arbitrario, scompensato, spiazzante – tra individuo e società, che era una delle forze nel nostro. L’effetto è che la trama non riesce a decollare; la science-fiction affonda e mostra la corda di un pretesto, e le pur gradevoli rappresentazioni dei buoni sentimenti in famiglia, dei piccoli conflitti, delle (poco credibili) tragedie, così come delle meschinità di un ménage che sembra ormai spacciato, non riescono a riscattare tutto il resto. Il romanzo si lascia leggere, ma non lascia grande impressione di sé. L’Houellebecq che ne è esce è uno scrittore diverso: si sente sempre la sua prosa, il suo stile (che a torto è tacciato di piattezza, quando è in realtà la messa in forma di una consapevole strategia di Dämpfung che prepara a intermezzi ed esplosioni), ma è come se tutto fosse distante, come se lo stesso scrittore si fosse ritirato lontano, in una cittadella da cui spera di diventare forse un classico (per molti versi lo è già). Ma classico lo si è e lo si diventa, non si può provare ad esserlo, e questo è un difetto del libro.

E un pregio, allora? Me lo sono tenuto alla fine. Perché, come con gli amori – grandi o piccoli che siano –, bisogna sempre avere clemenza; una clemenza che non è zuccherosa necessità di trovare il bene anche dove di bene ce n’è poco, ma riconoscimento del poco di bene che c’è, quando c’è. E allora, siccome amo profondamente Houellebecq, nonostante oggi mi abbia deluso, voglio concludere dicendo che cosa invece mi è piaciuto e mi ha commosso.

Le ultime cento pagine, quelle in cui il protagonista, colpito da una malattia mortale e veloce, si avvia alla morte, sono bellissime. Sono bellissime perché senza pathos, o meglio con quel particolare pathos che è di Houellebecq e solo suo, si parla senza pudore e senza retorica del riavvicinamento tra Paul e la compagna di una vita, Prudence. Con tutta la prudenza del caso, e nel momento in cui la morte è vicina, i due capiscono che amarsi, alla fine, è più una questione di foglie guardate insieme in una foresta a novembre, è più una questione di cene di pasta e purè al tavolo della cucina di casa, che tutta l’esaltazione del mondo. Prudence e Paul scoprono di essere felici, profondamente felici, proprio mentre lui sta morendo; e questo senza alcuna contraddizione, ma anzi con una sorta di sollievo. E nel momento in cui la morte è vicina è proprio lei, in qualche modo, a mettere in prospettiva tutto il resto (anche le precedenti seicento pagine, faticose), facendo emergere in modo chiaro e perfetto quel che è sempre corso sottopelle in tutti romanzi di Houellebecq e che qui si rende lampante, ovvero che Houellebecq è un sentimentale e un romantico nel senso proprio e migliore del termine. La vita insieme di Prudence e di Paul è stata per la maggior parte trascurabile, terminale, sbagliata in molti dei suoi lati e tuttavia, nel momento in qualcosa per sempre sta per andarsene, proprio questa vita assume tutta la straziante semplicità ed esemplarità delle evidenze, tutta la nostalgica bellezza di un nucleo profondo che non si lascia anéantir, anche ben oltre il momento in cui tutto verrà, per forza, annientato.

Basta questo a riscattare un romanzo non ben riuscito? Sicuramente no, ma basta a farci pensare che Houellebecq è ancora là, e ancora lui, da qualche parte. Basta a farci aspettare che il prossimo romanzo sia migliore.


Michel Houellebecq, Annientare, trad. M. Zemira Ciccimarra, La Nave di Teseo, Milano 2022, 620pp. 23,00€