Gabriele Galloni, 1995-2020

Dire della morte di Gabriele Galloni con le sue stesse parole è una tentazione troppo attraente: con tanta felice esattezza aveva scritto dell’aldilà e dei suoi abitanti. Ci ha fornito lui già tutto il necessario: versi citabili come altrettanti epitafi, la fraseologia (“creatura breve”, “in che luce cadranno”…). Già, In che luce cadranno è probabilmente il suo libro più celebre, se non il migliore. La sua opera, però, va molto al di là di quella raccolta – lui stesso malsopportava di essere diventato per certuni “quello dei morti”. E per temperare l’inquietante centralità premonitrice assunta ora in retrospetto da quella tematica elegiaca, si può ricordarne l’ubiquità in un clima generazionale e locale (romano) che contagia anche la nuova canzone d’autore. Ma non basterebbe. Dell’immaginaria civiltà dei morti Galloni è stato etnografo così convincente da sembrare un osservatore partecipante. Questo dato, innegabile, va però inquadrato nella sua opera, e separato dalla cronaca: sia per un atto di rispetto dovuto, sia per evitare indebite scorciatoie critiche.

Nella sua carriera tragicamente breve ma prolifica, dai ritmi a tratti forsennati (troppi libri troppo in fretta, sembravano…) questo autore si è dedicato a levigare e orchestrare le sue ossessioni, erigendole a sistema. Il gallonismo verteva attorno a una cifra tematica e stilistica così distintiva da rischiare il precoce automanierismo. In lui la fantasia vulcanica nell’invenzione dei dettagli e la versatilità formale (dai versi ai racconti al teatro; né gli erano estranee la musica e il cinema) contrastano con la presenza monolitica, totemica, di poche ossessioni di fondo. La morte, i morti, e il loro dialogo coi vivi. La perversione del sesso e della violenza, fino all’horror, al gore. L’estate come stagione eterna, amniotica, assoluta e primordiale, stasi del tempo. E i luoghi: più che Roma la sua immensa periferia, quei litorali laziali sempre sul punto di trasfigurarsi in un Messico da realismo magico.

Era capace di cullare con la grazia più delicata, e di shockare con la violenza più surreale. Oltretutto, amava accostare le due tonalità nel modo più brusco, con un montaggio molto cinematografico. In un libro dal tono complessivamente elegiaco e sognante come L’estate del mondo, si volta pagina e ci s’imbatte in versi come questi: “Erano i santi giorni di tua madre | trovata morta nell’atrio; la gola | squarciata lato a lato.” E nella sua raccolta di racconti Sonno giapponese le scene di sevizie stanno a fianco delle lievi invenzioni lunari. C’era probabilmente voglia di épater, di fare il fenomeno, ma al servizio di un preciso programma di approccio all’estremo, direi, non solo o non tanto d’intemperanza giovanile.

Dentro e fuori la pagina, Galloni portava dunque in parata i suoi dèmoni, li agghindava e li esibiva con sfacciataggine apparentemente ingenua, li cavalcava e li faceva esibire in numeri acrobatici. Questo gli riusciva facile grazie alla sua estrema perizia artigianale, quegli endecasillabi che fluivano dalla sua penna con una facilità rara, e dietro a cui in qualche misura si nascondeva. Un talento puro, fra i più brillanti di una generazione – i nati negli anni ‘90 – a mio avviso abbastanza ricca di autori capaci; emerso già maturo, trasmetteva comunque un desiderio di fare e studiare, di migliorarsi e affermarsi, in maniera vorace e confusionaria. Come se cercasse uno specchio, un riscontro.

I riscontri, peraltro, arrivavano. Galloni era meritatamente entrato nell’antologia dei poeti under 35 curata da Massimo Dagnino e Alberto Pellegatta per l’editore Taut. Proprio alla presentazione dell’antologia Taut a Milano, il 15 febbraio 2020, ho visto Gabriele per la seconda e ultima volta, in un felice assembramento che appena poche settimane dopo sarebbe parso impossibile, manifestazione anch’esso di un’altra civiltà. La prima occasione era stata, qualche mese prima, la presentazione da me condotta, alla libreria Luce Verde di Bologna, di Sonno giapponese, un libro che ha avuto meno fortuna degli altri: più ‘sporco’ e imprevedibile rispetto alle raccolte poetiche, a cui per me non era affatto inferiore. Per quella presentazione e per la recensione che scrissi, Gabriele mi portava una gratitudine assurdamente esagerata, quasi imbarazzante. Il suo valore era palese e si era già imposto all’attenzione della critica anche a prescindere da quel mio intervento. Ma evidentemente lui era così, sincero ed esagerato anche negli affetti (perciò non mi stupisco di leggere che, con altri, aveva avuto anche litigate tremende per motivi paradossali). Personaggio esagerato, picaresco, generoso e affamato: un detective selvaggio bolañano nel mondo reale. La convinzione con cui ha incarnato (in vita e purtroppo anche in morte) una serie di stereotipi otto-novecenteschi (genio e sregolatezza; poète maudit dalla faccia d’angelo; live fast die young…) lo fa in fondo così goffamente estraneo a un’epoca in cui ogni gesto e presa di posizione deve farsi scudo delle virgolette ‘ironiche’.

Un autore, insomma, a cui la posa (pure sbruffonesca) e la maschera sembravano connaturate; ma non una posa gelida e fissa, cinicamente calcolata e scelta una volta per tutte; un tale caldo agitarsi, dietro la maschera, da insonne febbrile, che questa poi aderiva alla pelle e diventava un ritratto iperrealista. Dimitri Milleri, in un’acuta analisi critica della scrittura di Galloni, ne ha rimarcato proprio “l’etica artigianale” e la natura calligrafica, estetizzante, che tende a svuotare anche i simboli più potenti rendendoli puri pretesti di un gioco combinatorio i cui legami con l’autobiografia sono molto dubbi. A buon diritto Milleri si diceva “molto curioso di sapere cosa succederebbe se un giorno Galloni uscisse dalla bottega (o dalla chiesa, o dal porno, o dall’estate) e si mostrasse davvero nudo in una prova di libertà”. Ma se il suo modo d’esser nudo fosse proprio annullarsi nell’arte? Se quell’abile gioco stilistico che riduceva a boutade scanzonata o a canto suadente le efferatezze più perturbanti fosse un modo per dire l’indicibile senza restare impantanato nel fango e nel sangue? Sconsolante, e infuriante, sapere che la risposta non ci sarà data.

C’è un altro esempio dell’ambiguo rapporto intrattenuto da questo autore con le sue maschere. Galloni aveva dato scandalo nel mondo letterario e editoriale con l’eteronimo Olimpia Buonpastore e le grandguignolesche poesie di Corpo di mamma. Uno scandalo quasi incomprensibile, invero: sia perché l’operazione era vecchia come il mondo e, si sarebbe detto, ampiamente sdoganata nella storia letteraria (una beffa alla Olindo Guerrini, senza scomodare Pessoa), sia perché in linea con diverse tendenze recenti che giocano a livello non superficiale con gli alter ego, le entità autoriali fittizie, i ‘tamagotchi poetici’. Ma l’aspetto significativo, e forse anche quello disturbante, a mio avviso è un altro. Anche nel trollaggio non era riuscito a non trasfondere il sangue delle sue viscere, e la sua maestria formale (due cose che forse per lui coincidevano). La mostruosa Olimpia, si capiva bene, era d’altronde una caricatura amplificata di qualcosa che nel Galloni ortonimo era, se non così esclusivo, comunque centrale.

Proprio la sua abitudine alla provocazione ci ha fatto tutti pensare che persino la morte potesse essere l’ennesima goliardata di cattivo gusto, l’ennesimo esperimento sociale. In molti abbiamo pensato che sarebbe stata una cosa pienamente nel suo stile. Invece la poesia italiana ha perso un pezzo importante del proprio futuro. Da lettore, mi sento defraudato dei piaceri testuali di chissà quante pagine future; da critico e collega, di un dialogo amichevole e fecondo che era partito sotto buoni auspici. Il modo migliore per ricordare Galloni è, naturalmente, leggerlo, comprare i suoi libri. Ed è da sperarsi che la morte non gli mangi la vita; che l’ombra di questa fine acerba e assurda non si allunghi sulla sua opera, forzandone letture semplicistiche o facendone un macabro santino. Ha fatto libri ottimi, più maturi della sua età. Ma le cose migliori doveva ancora scriverle.