Come capita con i grandi maestri della narrativa “di genere”, da Georges Simenon a Don Winslow, ogni nuovo libro di Chris Offutt riporta il lettore al centro di un ambiente ormai noto, tra dinamiche relazionali e pause riflessive che rendono la sua pagina riconoscibile. E si dovrà dire ambiente, prima ancora che trama o atmosfera narrativa, perché l’intera opera letteraria di Offutt è costruita attorno a un luogo ben definito – il Kentucky – e alla sua popolazione, disperata e stoica. Fedele alla tradizione minimalista del racconto americano, Offutt svolge i suoi racconti lungo il filo delle impressioni e dei dubbi dei propri personaggi, portati da circostanze banali e imprevedibili a interrogarsi sul proprio destino, a pensare in maniera improvvisamente nuova una vita quotidiana che fino a quel momento era sembrata scorrere senza intoppi lungo binari stesi da un milieu che non lascia scelte né alternative.

Il fratello buono, da pochi giorni arrivato in libreria (minimum fax 2020, traduzione di Roberto Serrai), non fa eccezione. Lo scenario è quello premontano del Kentucky orientale, tra torrenti che scorrono nei fondo valle, boschi che si inerpicano lungo le creste, piccoli agglomerati di case nascoste tra gli alberi, pick up che transitano a velocità controllata, uomini e donne con la pelle e l’animo indurito dal sole, dalla neve e da una vita affrontata a mani nude. Un mondo che sembra estraneo ai grandi miti della civiltà americana – la famiglia come comunità primaria, l’ambizione, la promessa di un successo alla portata di tutti –, fermo a una società primitiva, in cui valgono ancora le leggi del clan e del sangue. E infatti la storia di Virgil Caudill è quella di un ragazzo buono e taciturno, disposto a limitare il proprio orizzonte di vita a un lavoro sicuro (diventare caposquadra, avere il nome cucito sulla tenuta da netturbino comunale), una relazione stabile con Abigail, forse dei bambini, per dare anche lui delle soddisfazioni all’anziana madre; un uomo che le circostanze costringono però a confrontarsi con qualcosa che non gli appartiene e che vorrebbe allontanare da sé. Boyd, il suo fratello maggiore, è morto, tutti sanno chi l’ha ucciso e tutti sono convinti che Virgil dovrebbe vendicarsi uccidendo l’assassino. Tutti se lo aspettano e tutti sanno che, così facendo, si innescherà una faida tra famiglie, una catena di morti destinata a non fermarsi più. Ed è quello che Boyd avrebbe fatto, se al suo posto fosse morto Virgil. Ma Virgil, come spesso accade nelle storie di Offutt, è un uomo che solo in parte coincide con la cultura che l’ha cresciuto: è astemio, non ama usare le armi, alla compagnia delle persone preferisce la calma placida dei boschi, osservare il modo in cui la luce si riflette sulle creste delle colline, disegnando ombre sulle poche case che punteggiano il paesaggio. Proprio questa passione per le montagne e per la disponibilità che la natura concede a che si metta in suo ascolto suggeriscono a Virgil la soluzione al dubbio che lo tormenta e che non può confessare a nessuno.

Cominciò a rilassarsi nell’unico punto in cui si sentiva al sicuro. Aveva passato metà della propria infanzia nei boschi, e gran parte di quel tempo con Boyd. Tra querce e aceri, pini e noci, si sentiva a casa propria come non gli era mai successo in compagnia di altra gente. Gettò un sasso nel torrente. Da ragazzo si era immaginato che tutti gli oggetti fossero senzienti, e aveva invidiato alle rocce quell’esistenza perfetta.

Si è detto che ogni romanzo di Chris Offutt ripropone situazioni e scenari simili che, pur modulando in modi sempre diversi le dinamiche interne al sistema dei personaggi e introducendo tematiche di volta in volta specifiche, confermano al lettore l’impressione che quello del Kentucky sia un microcosmo immobile, estraneo allo scorrere del tempo e agli sviluppi sociali; tuttavia nel Fratello buono si dovrà segnalare la presenza di un’insolita, ma stringente connessione con la realtà storica, che lo rende un romanzo al tempo stesso datato e attuale, unico nella produzione dell’autore che finora il pubblico italiano ha potuto leggere (le raccolte di racconti Nelle terre di nessunoe A casa e ritorno, il romanzo County dark e il romanzo autobiografico Mio padre il pornografo, tutti editi da minimum fax, che sta progressivamente rendendo disponibili i tanti titoli dello scrittore americano). Offutt affronta infatti di petto una questione spinosa e irrisolta della politica americana, quella delle organizzazioni armate che, principalmente nelle zone più emarginate e periferiche degli Stati Uniti, dove il disagio sociale si mescola all’orgoglio della propria autonomia, hanno dato trovato sfogo in esperimenti di comunità costruiti intorno all’idea di una battaglia contro uno Stato assente e avido di tasse. Una battaglia combattuta molto spesso in nome della religione e della difesa dei diritti dei bianchi, “discriminati” da chi ha concesso la parità civile e giuridica ai neri e a tutte le altre minoranze.

Il proliferare degli hate groups nell’America dei nostri giorni, con le tragiche conseguenze che le cronache registrano quotidianamente, è infatti l’esito di un processo lungo decenni, che trova negli anni Novanta il proprio turning point attraverso due episodi decisivi. Uno ha luogo a Waco, Texas, nel 1993, e vede le forze federali (FBI più ATF, cioè Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives) letteralmente porre sotto assedio il ranch in cui vive una setta di davidiani guidata dal predicatore – e sedicente messia – David Koresh. Il motivo dello scontro è il rifiuto dei membri della comunità a far eseguire una perquisizione: gli agenti vogliono infatti verificare la presenza di un deposito di armi all’interno del ranch, oltre a interrogare i membri della setta circa l’abuso di droghe e alcool e alcuni episodi di pedofilia. Ne nasce uno scontro a fuoco in cui muoiono quattro federali. La reazione è spropositata: cinquanta giorni di assedio, che si concludono con un incendio in cui muoiono 76 persone, tra le quali molti bambini e lo stesso Koresh.

L’anno prima, a Ruby Ridge, Idaho, si era consumata un’altra strage. Randy Weaver, un reduce affiliato al movimento fondamentalista Christian Identity, vive da un anno e mezzo con la propria famiglia in una capanna nei boschi, armato fino ai denti e pronto a rispondere agli attacchi della polizia, che lo sta ricercando per possesso, fabbricazione e vendita illegale di armi da fuoco. Come ha ricostruito Fabrizio Tonello, la vicenda ha caratteri surreali: «gli agenti federali, sapendo che Weaver è in contatto con Christian Identity, lo vedono come un pericoloso criminale, un Rambo capace di sopravvivere nei boschi e di eliminare un intero battaglione mandato alla sua ricerca, mentre Weaver a sua volta si autoconvince che ci sia un complotto del governo contro di lui». Quando anche in questo caso gli agenti decidono di assediare la capanna, la situazione volge a un esito imprevisto: gli uomini dell’Hostage Rescue Team, un’unità speciale dell’FBI, ricevono l’ordine di sparare a qualsiasi maschio adulto presente nella capanna (in realtà ci sono solo Weaver, la moglie con i tre figli e un amico), anche senza una minaccia diretta per un agente. Nella sparatoria però l’unica a morire è una donna, Vicki Weaver.

In entrambi i casi la colpevolezza degli accusati, la loro condizione di fuori legge, è evidente; ma la condotta estrema degli agenti federali, insieme alla sproporzione delle forze in campo, finisce per orientare l’attenzione mediatica e l’indignazione pubblica sulle infrazioni e gli abusi delle forze governative, alimentando ulteriormente l’ostilità di un blocco sociale silenzioso e marginale (o emarginato), ma pronto a esplodere in qualsiasi momento; adesso in nome anche di nuovi martiri. Nel romanzo di Offutt entrambi questi episodi vengono esplicitamente citati, sono le pietre di paragone per l’attività di un gruppo di suprematisti guidati da un reduce-predicatore che, Antico Testamento alla mano, è in grado di motivare uomini e donne a rivendicare il proprio diritto alle armi contro uno Stato occhiuto, al soldo dei banchieri ebrei, interessato solo a tenere sotto controllo i “veri patrioti” e a favorire nativi e neri.

Frank. Solo Frank. È cresciuto qui, poi si è arruolato. Dopo la guerra, è rimasto lontano per altri vent’anni. Lavorava per il governo, sai, uno di quegli enti che adesso odia. Quando sono tornata a casa, lui era qui. Era divertente, forte, e poteva parlare per ore. Eravamo una grande famiglia. Frank pensava che il paese fosse nei guai e che la gente avesse bisogno di proteggersi.

Il fratello buono, d’altra parte,esce in America nel 1997, pochi anni dopo quei due episodi che si sono rivelati la scaturigine di un conflitto civile fatto di nuovi attentati e nuove restrizioni delle libertà individuali (è questa la tesi di Gore Vidal, che in La fine della libertà, evidenzia il collegamento tra Waco e la strage di Oklahoma City del 1995). Offutt si cimenta quindi con un problema sociale entro cui confluiscono questioni storiche della società americana – l’abbandono delle periferie e delle zone più isolate, la questione razziale, il reducismo, il fanatismo religioso – e che mostra oggi tutte le sue implicazioni politiche. Ma lo affronta senza tesi preconcette, né volontà di denuncia, cercando invece di mantenersi in qualche modo fedele a quella specie di agnosticismo morale che caratterizza tutti i suoi racconti e romanzi. Ai suoi personaggi, come a Virgil Caudill, può capitare di trovarsi implicati in situazioni che non sanno e non possono valutare attraverso i filtri che la politica, l’ideologia o la storia hanno elaborato e poi trasmesso alla cultura comune; perché per loro non c’è cultura comune, c’è solo una morale atavica, radicata nell’esperienza personale e famigliare. E questa morale insegna a giudicare i singoli gesti prima ancora delle sovrastrutture che dovrebbero motivarli e legittimarli. Solo così è possibile riconoscere lo smarrimento e la solitudine che spingono un uomo a sposare una causa che non gli appartiene. Con buona pace del lettore, costretto a indignarsi per l’ignoranza e l’ingenuità da cui si genera una simile allucinazione collettiva, prima ancora che per il razzismo primordiale che l’alimenta.

Anche nel Fratello buono Offutt arriva a toccare il nucleo più puro e scoperto della vita, un nodo profondo e oscuro che non siamo abituati a riconoscere e che può spaventare. E lo fa muovendosi su un terreno scivoloso, spingendo il suo lettore a porsi interrogativi che non avrebbe mai creduto possibili. Le risposte che si darà, poi, saranno quelle di sempre: ma il solo fatto che sia arrivato a interpellare categorie di giudizio ritenute indiscutibili, è un passo non comune per un semplice romanzo.


Chris Offutt, Il fratello buono, trad. R. Serrai, minimum fax, Roma 2020, 360 pp. 19,00€