Tra il 3 e il 4 dicembre 2022 si è tenuta Laventicinquesimaora, il premio letterario di Belleville Scuola di scrittura dedicato ai racconti brevi. 25 ore per scrivere un racconto non più lungo di 3600 battute.
La traccia di questa ottava edizione era:
Grand Hotel Italia. “Naturalmente i Grand Hotel sono sempre stati idee sociali, specchi impeccabili della società cui offrono i loro servizi.” (Joan Didion)
Lunedì 30 gennaio, in diretta streaming, sono stati proclamati i vincitori selezionati dalla giuria, composta da Francesca Cristoffanini (direttrice Belleville), Ginevra Lamberti, Giacomo Raccis e Michele Turazzi.
Pubblichiamo oggi il terzo racconto classificato.


Pensione completa

di Elena Cangiamila

Entro e mi piego sullo stomaco. E no, non è l’emozione. È che ieri sera ci sono andato giù pesante. Che poi, emozione de che? È sempre lo stesso lavoro che faccio ogni estate da quando ho ventidue anni, e benvenuti, e com’è andato il viaggio, e avete dormito bene, e che fa, la gradite una fetta di culo?

Di anni ne ho trenta. Tondi come la mia pancia di stamattina, dopo l’abbuffata di ieri sera.

Il banco della reception è attorniato da tre Fatine in magliette nere e pantaloni di tuta.

«Ciao, Edo!» mi saluta una.

«Che faccia che hai» fa l’altra.

La terza sorride, rimane in silenzio, continua a spolverare. È nuova, credo. Ma mi sa che già lo sa che questa sarà l’ultima lustrata del bancone fino a ottobre.

Fatina Due però non demorde. «E allora, che sei stanco già di mattina?»

No, Fati’, è solo che devo cagare, vorrei rispondere, ma sarebbe una menzogna. Tutto in questo hotel mi fa cagare. Anche loro tre, pure se sorridono. Anche e soprattutto quella grandissima stronza che si è appena affacciata dal back-office e che ora mi osserva, mi esamina, mi conta gli organi a uno a uno.

Forse vuole un rene. “Edo” dirà, con la sua voce mielosa del cazzo, “che me lo dai un rene?”. Anzi no, prima partirà col solito pippone: “Edo, sei in ritardo. Guarda che domani iniziamo. Guarda che al front ti voglio sveglio”.

Mica ho dormito stanotte, vorrei dire, ma la stronza non ha ancora parlato. Quando lo fa, premendosi gli occhiali sul naso, aggiustandosi la paglia bionda che ha in testa, ci guarda tutti, pure le Fate.

«Avete visto le mie mandorline?»

Fata Uno alza le spalle. «Che mandorline, Miche’?»

«Quelle che mi porto sempre in ufficio. Le mie mandorline».

Sto per chiederle se preferisce un rene, ma Fata Due ride. «E che ce ne facciamo noi delle tue mandorline?»

Errore, grande errore. La stronza sbatte le ciglia più volte. Ha gli occhi a palla, tipo come i miei ma ancora più sporgenti, e ora li strabuzza.

«Dove sono le mie mandorline?»

Porca troia. Un rene proprio no, quindi?

Fata Tre tiene la testa bassa, continua a spolverare. Ha capito tutto questa.

«Edo».

E dai, dillo che lo vuoi il rene.

«Edo, le mie mandorline».

Oh, co’ ste cazzo di mandorline de merda, mannaggia a me.

«Se non escono fuori le mandorline, lo dico al direttore».

Fata Due sospira. «Dai, Miche’, ma che dobbiamo farci con le mandorline. Stiamo tutti pieni di cose da fare».

«Ti dico che le ho lasciate qua ieri sera. Stamattina non c’erano più».

«Ma magari le hai portate a casa. E poi, chi le deve prendere di notte, Fulvio?»

Gli occhi a palla della stronza si accendono. Ecco che di nuovo mi guarda. Mi dà un ordine silenzioso. Fa così, da sempre, ordina con le sue biglie infernali, non parla. Il mio stomaco sì, invece. Adesso ho pure la nausea. Vorrei piegarmi in due, ma resisto. Vado e torno, dico alla stronza, sempre con gli occhi. Gli occhi a palla tra loro si capiscono.

Fulvio si sta facendo un caffè alla mensa del personale. Gli chiedo delle mandorline, gli dico che la stronza vuole chiamare pure il direttore. Lui allarga le braccia.

«E io che minchia ne so delle mandorline? Non ho nemmeno le lacrime per piangere».

«Gli occhi».

«Eh, a momenti manco quelli».

Sconfitto, torno in reception dalla stronza. Al pensiero della sua voce mielosa, al pensiero di doverla sentire ancora, e ancora, e benvenuti, e gradite una fetta di culo, il mio stomaco capitola.

Ho il tempo di accasciarmi sul bancone, di guardarla, biglie contro biglie, mentre un reflusso potente risale e poi atterra sul vetro che prima era lustro. Le Fatine indietreggiano.

«Non c’è bisogno che chiami papà» dico alla stronza.

Le mandorline sono uscite.