Non affrontare un tema è il modo peggiore di affrontarlo. Fuani Marino ha avuto il coraggio di dedicare un libro al proprio suicidio fallito, Svegliami a mezzanotte (Einaudi, 2019), un mémoir che non rientra nel genere del romanzo ma lo attraversa per diventare analisi e appello politico.

Il libro pone una questione preliminare: è indecente parlare di un tema così delicato? E al rovescio: esiste qualcosa di cui non si possa parlare? Di fronte a quello che è forse l’ultimo tabù, risulta con potenza come prendere la parola sia un gesto politico, volto a riconfigurare l’immaginario collettivo, a sciogliere i lacci della reticenza e restituire a un oggetto dignità discorsiva. Il silenzio alimenta la paura e la retorica, trasforma una realtà in un fantasma che però ha il potere di apparire. Che questo libro sia stato pubblicato è un fatto positivo, indice anche della spinta profondamente democratica della scrittura.

Leggendo Svegliami a mezzanotte si impara che la decisione di farla finita può scaturire da durissime o prolungate sofferenze psichiche, che è ingenuo colpevolizzare i suicidi (solitamente addebitandogli mancanza di volontà) mentre sarebbe meglio provare a comprendere l’abisso depressivo che li ha risucchiati, che non esiste una spiegazione razionale, che chi sopravvive si trova a fare i conti con la coscienza di un gesto di cui, come nel caso dell’autrice, porterà la vergogna, lo sgomento e il timore. Si ragiona anche su come la malattia sia un’esperienza che si tende a rimuovere, come se il silenzio fosse la soluzione, e che mentre per esempio il cancro suscita una forma di rispetto per una possibile resistenza eroica, il suicida fuoriesce di scena ignominiosamente, con addosso lo stigma (come i morti di aids), come se anch’egli non fosse vittima di una malattia difficilmente domabile. Ci si accorge delle discriminazioni riguardanti i malati psichici (si portano ad esempio le polizze assicurative che non prevedono le spese per terapie psichiatriche e le diffuse riserve verso la prescrizione di farmaci e il ricovero) e ci si interroga anche sulla possibilità di riconoscere il diritto al suicidio, in Italia affrontato dai radicali e dall’associazione Luca Coscioni.

Questo spettro saggistico attraversa il racconto autobiografico, composto da blocchi oscillanti tra la singola riga e campate di due o tre pagine. L’andamento franto facilita il passaggio da momenti puramente narrativi a momenti più analitici. L’esperienza passata viene captata anche attraverso le parole di studiosi (perlopiù di campo medico), artisti e intellettuali di vario tipo e rango, solitamente elevato, fornendone in appendice una accurata e ampia bibliografia. Ne risulta un mosaico brillante, in cui si avverte il gorgogliare di idee e letture misto alla discesa autoscopica.

L’asciuttezza della prosa (Primo Levi tra i modelli?) manifesta un rigore cristallino. L’acume analitico, uniforme lungo tutto il libro, inclusi i passaggi più narrativi, sa anche risvoltarsi in punte di lirismo. Da attenta scrittrice, Fuani Marino dedica molta attenzione a come il linguaggio ci predisponga verso il tema: mentre la figura retorica più ricorrente è la reticenza («la cosa peggiore è non poterne parlare»), vengono registrate anche le espressioni banalizzanti di uso quotidiano (buttarsi dalla finestra, tagliarsi le vene, impiccarsi), la discriminazione linguistica («dei malati psichici che si tolgono la vita raramente si dice la classica frase: “ha combattuto a lungo contro la malattia”») o l’interiorizzazione di un residuo lessicale («Si dice ancora commettere suicidio, come se fosse un crimine»). Questo repertorio tradisce l’idea comune che dietro un tale gesto ci siano in ogni caso volontà e colpa e che attorno a un superstite debba aleggiare la riprovazione collettiva. (Tra parentesi, mi viene in mente l’ammissione di colpevolezza nel verso dantesco di Pier della Vigna: “ingiusto fece me contra me giusto”, ma anche la straordinaria dignità di questo personaggio, di cui Dante celebra la memoria).

Uscire da questo angolo di emarginazione è uno dei propositi dell’autrice, che affida alla scrittura il suo appello perché la malattia psichica non si traduca in isolamento. Ma il suo ragionamento ha radici più profonde e ricadute più ampie: mette a nudo l’idea diffusa che le nostre azioni o si adeguano a un modello di vita ideale percepito come normale o lo tradiscono incorrendo nella devianza. La critica di questa biforcazione accoglie anche spunti femministi (le due eroine romanzesche che si suicidano, Emma Bovary e Anna Karenina, vengono meno ai loro doveri familiari, sottraendosi al paradigma che la società aveva loro assegnato) e di sguincio persino anticapitalisti (i disturbi di depressione grave o ansia cronica colpiscono maggiormente i disoccupati). Questa dialettica tra autodeterminazione, salute e modelli economico-affettivi andrebbe approfondita e discussa, si intravede però un pensiero fervido che non si limita alla testimonianza personale ma cerca di coglierla dentro un più vasto schema di pensiero.

Chiudendo, non credo possa essere ignorata la domanda giusta e terribile rivolta ai lettori: «Ma cosa ne sapete voi? Cosa potete saperne?». Essa dà la misura dell’angoscia profonda, quasi carceraria. No, non possiamo saperne molto, però questo libro ci aiuta a riconsiderare quello che sembrava scontato, a rimuovere dalla nostra mente e dal nostro linguaggio quei tic a cui ci abbandoniamo per pigrizia, a sgretolare quel muro di idee ricevute che risulta spesso e solido solo fintantoché si finge di non vederlo.


978880624261HIGFuani Marino, Svegliami a mezzanotte, Einaudi, Torino 2019, 168 pp. 17€