Se consideriamo l’etimologia dei termini “matto” – derivato dal maccus latino, lo stupido – e di “idiota” – dal greco, “individuo privato/singolo/solo” – Liborio Bonfiglio, protagonista del romanzo d’esordio di Remo Rapino, è sicuramente appartenente alla seconda categoria. Uomo di paese, un padre mai incontrato e una madre morta quando era ancora ragazzino, con un’istruzione elementare a stento in grado di strapparlo all’analfabetismo, oppresso dalla miseria e dalla povertà, Liborio è uno dei tanti “ultimi” transitati nella Storia, la cui vicenda ci ammonisce su come la follia possa essere il risultato dell’indifferenza della società e dell’emarginazione progressiva nei confronti dei suoi elementi più deboli e soli.
In Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio lo stesso Liborio racconta al lettore tutta la sua vita. Nato nel 1926 e morto nel 2010, Liborio attraversa il Novecento con lo sguardo – la «sguardatura» – disincantato e sbieco di chi, interpretando il mondo in maniera semplicistica per mancanza di mezzi, genera però un punto di vista alternativo e straniante sui fatti e sulle persone. La storia di Liborio è la storia di un uomo comune, inserito nei meccanismi per lui incomprensibili dello Stato e dell’economia, forzato dalla povertà a emigrare dal paese del sud alle grandi città del nord – prima Milano e poi Bologna –, alla costante ricerca di un modo per sopravvivere, costretto a un’esistenza precaria.

Affrontando i temi della povertà e del lavoro, il suo racconto mette al centro le dinamiche politiche e sociali del Novecento viste dalla prospettiva del “cafone”, ignorante, misero ma buono, pervaso da un ancestrale senso della giustizia e desideroso non tanto di un riscatto vendicativo quanto dell’accesso ad una quieta felicità che vede nelle promesse di benessere che fioriscono ovunque ma non nella propria esistenza. In quest’ottica dal basso, lo sguardo di Liborio non getta solo ombre di rabbia verso il disumano sfruttamento del capitalismo da fabbrica che lo costringe a una vita di sopravvivenza e che aggrava i suoi disturbi psichici, ma grazie alla sua posizione liminale, risulta un involontario strumento di decostruzione delle retoriche e delle ipocrisie che dominano i rapporti. Tra queste, la mitologia della rivoluzione è la più deludente.
Fin dai suoi primi anni di lavoro nel periodo postbellico, Liborio si affilia infatti al partito comunista, poi alla FIOM, consapevole della propria ignoranza e desideroso di abbracciare modelli di interpretazione del mondo che gli spieghino perché la sua esistenza debba essere una costellazione di vagabondaggi, biliosi capibastone e licenziamenti per esubero. Ma fidandosi sempre dell’opinione altrui, spesso discordante dalla sua – più semplice e pragmatica – Liborio finisce per essere un ingenuo martire della propria condizione:

«Quelli del sindacato ti stavano a sentire, che erano pure educati, poi dicevano che ci stavano le cose personali e i problemi di tutti insieme, e che io ci avevo come una forma grave di lienazione che però questa lienazione dipendeva dalla ingiustizia del capitalismo selvaggio che quello era una brutta roba per gli operai e dopo mi spiegavano che solo se si aggiustavano i problemi di tutti insieme allora mi poteva passare la lienazione».

La prospettiva dello sfruttato porterà poi Liborio ad avvicinarsi ai suoi simili, sempre con un approccio lontano dall’ipocrisia dello sguardo borghese. Ecco che allora più che ai maestrini rivoltosi dell’Università bolognese del ’68, la vita di Liborio incrocerà i percorsi degli operai della Ducati, dei malati al manicomio, della povertà delle case di ringhiera nelle periferie di Milano e delle prostitute con cui condivide l’intima tristezza di sapersi condannato ai margini della società

«e poi mi stavano pure simpatiche perché erano allegre e non facevano vedere fuori che invece sotto sotto erano intristite, proprio come facevo io, carnevale fuori e quaresima dentro, un camposanto con i fiori ma sempre camposanto era.»

In questa babelica galleria di emarginati e oppressi Liborio transita intessendo sempre rapporti di appassionata solidarietà, che alleggeriscono il peso della sua immensa solitudine, ma che dimostrano al protagonista la durezza del vivere e la sua fugacità. Tutti i personaggi che Liborio incontra condividono infatti con lui un destino di rovina: il giovane soldato amante delle ragazze annichilito dalla sifilide, la bella donna lanciatasi dal balcone in manicomio, il compagno operaio con il braccio maciullato dentro un macchinario, diventano per Liborio i paradigmi di una realtà che disvela progressivamente le sue leggi ineluttabili in cui è scritto che le speranze di rivoluzione e giustizia sono illusioni, che il mondo non muta, come non muta il paese a cui Liborio ritorna. E che gli ultimi restano tali, detto per bocca di quel tizio del paese che ad ogni occasione «mi diceva Libbò hai perso un’altra volta, anche se era vero che avevo perso un’altra volta, questa volta per sempre».
Nella sua esistenza marginale Liborio si stupisce affranto della crudeltà e dei misteriosi «segni neri» che precipitano le esistenze in gorghi senza uscita, considerando l’oppressione, la miseria, la sfortuna e la morte come un accidente inesorabile portato da un fato negativo («Come se uno va a cercare grazia e trova giustizia al contrario che è come dire che un cane moccica sempre lo sgarrato e quello ero io, lo sgarrato non il cane, che se ero cane era già qualcosa di meglio, ma un bel cane però, non il randagio che sono già»).
In quello che ha i tratti di un romanzo picaresco, Liborio è alla costante ricerca di risposte ad una serie di interrogativi di diverso ordine disparati e assillanti (Perché accadono le disgrazie? Sarà vero che ha gli occhi uguali a suo padre? Quale sarà il numero più grande del mondo? Dove andrà a finire l’innumerevole quantità di ingranaggi che produce alla Ducati?) la cui sistematica frustrazione non condurrà ad alcuna via di uscita, anzi, peggiorerà la sua condizione psichica – di cui nessuno mai si prende realmente cura – fino a tramutarlo, sopraggiunta la vecchiaia, in una maschera tragicomica, un matto felliniano adriatico, che è il risultato di un sistema ingordo, coercitivo, tirannico e insopportabile, a cui però d’altro canto Liborio oppone una vitalità resistente che risiede nell’intimità discreta dei propri desideri, nel ricordo della bellezza delle cose e del suo godimento passato e nella curiosità ostinata di ciò che lo aspetta, anche dopo la vita, sperando di aver lasciato una traccia di sé sul mondo, come il mondo ne ha lasciate in lui.

In Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, la voce apparentemente semplice del protagonista cela però una serie di modelli letterari che affiorano agli occhi del lettore esperto, costruendo intriso di riferimenti. Così nella narrazione si susseguono di volta in volta il Dostoevskij de L’idiota – grande archetipo di Liborio –, le descrizioni bianciardiane della metropoli milanese e l’ingenuità paesana descritta da Ignazio Silone mescolata alla violenta sopravvivenza dello Steinbeck di Uomini e topi. Tutto il romanzo è poi costruito attorno alla parlata schietta di Liborio, attraverso una scrittura monologante in cui non vengono mai meno una brillantezza espressiva e una tensione narrativa, grazie ad lingua screziata e gergale, un idioletto personale costruito sulla parlata abruzzese delle proprie origini e infarcito di termini multiregionali, con una resa grafica sgrammaticata e calcata sul parlato che storpia le parti del discorso e gli elementi con cui entra a contatto, appropriandosene e producendo in questo modo una realtà personale e i propri paradigmi per sopravvivere alle brusche svolte della Storia conservando, al di là di una rassegnata tenacia, la curiosità per le forme che la vita racchiude oltre gli affanni.

 


Remo Rapino, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, Minimum fax 2019
265 pp. 17.00€