Il primo articolo della nuova rubrica Nella pancia del vino, dedicata al riflessioni enologiche e a degustazioni “scritte” delle bottiglie e dei loro significati culturali.


Il vino non è tutto uguale. Detta così può sembrare una banalità. Capiremo poi perché è bene chiarire questo macroconcetto. Iniziamo con il delineare alcune differenze grazie ad un’immagine che spesso si prende ad esempio:

Partiamo da qui dicendo che possiamo individuare almeno quattro macrocategorie di vini: i vini convenzionali, i vini biologici, i vini biodinamici e i vini naturali.

Lo scopo di questo articolo, lo voglio scrivere a chiare lettere, non è sentenziare che il vino convenzionale sia il peggiore dei mali e il vino naturale ciò che salverà il mondo. Per una serie di motivi io amo i vini di quest’ultima categoria ma ovviamente comprendo la libertà di scelta nel volere altro. E, soprattutto, nel macromondo del vino convenzionale si possono trovare prodotti così pessimi come anche così centrati che è difficile fare di tutta l’erba un fascio. Ma non è questo il punto.

I vini naturali sono sempre più sulla bocca di molti. Questa nicchia di mercato è in forte crescita. E si moltiplicano i miti attorno a questi vini. Uno fra tutti: i vini naturali sono pieni di difetti e puzzano!

Scrivere «Alcuni vini puzzano. Gli altri non li bevo» è ovviamente una boutade. Un’esagerazione. Un’iperbole. Però c’è del vero. Soprattutto se si comincia a guardare al di là degli assolutismi e delle abitudini. Con la mente proiettata verso le domande e non anestetizzata dalle consuetudini più diffuse. Innanzitutto cosa possiamo definire “puzza” e soprattutto se una cosa “puzza” allora non è buona?

Pensiamo ad alcuni formaggi o al tartufo ad esempio. Odori forti, certo. Ma pare la convenzione altrove sia ricercare alcuni profumi certamente non ingentiliti. Alcuni sono disposti a spendere cifre importanti per alcuni formaggi di fossa e strabuzzano occhi e papille di fronte alla potenza olfattiva di fuoco di certe muffe nobili. Possiamo quindi ipotizzare che esista una educazione del naso e di quello che sarebbe giusto sentire o pensare in rapporto ad un alimento.

Enorme equivoco: si pensa, scioccamente, al vino nominato e desiderato come a una entità omogenea, intercambiabile, fissa: come se si trattasse di una data marca di aranciata, di birra, di whiskey, o addirittura di un’automobile o di un frigorifero. Mentre il vino (il vino di una data qualità, zona di produzione circoscritta, annata, partita, botte e, in certi casi, bottiglia) può paragonarsi soltanto a un essere umano e vivente, immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso. Esigere un vino “stabile” è la più grande sciocchezza che un bevitore di vino possa commettere.1

Partiamo da qui. Mario Soldati scriveva queste parole nel 1969 in un libro intitolato Vino al vino: alla ricerca dei vini genuini. La teoria è riassunta in modo magistrale. E la pratica?

La pratica parla di un’involuzione. Per lo meno nella massa, nei grandi numeri. Pretendere un gusto già a suo agio nel proprio recinto. Assottigliare le differenze nei sapori, abituarsi all’invariabilità, ricercare la sicurezza a discapito dello stupore. Abbiamo vite complicate, frettolose, colme all’eccesso. Il tempo per la tavola, per cucinare, per radunarsi attorno a un piatto è minore. E poi è un divagare tra mille sport, mille hobbies, mille social, mille diete, stretti tra limitazioni, allergie, intolleranze, take away, fast food, junk food. Una frase retorica che spesso si sente è «siamo quello che mangiamo». Siamo, più che altro, supermercati che camminano (poco). È meno centrale di un tempo l’argomento alimentazione o, meglio, sono i suoi corollari più diversificati a creare confusione. La nuova centralità è l’estetica, sia del proprio corpo come pure l’estetica di tutto quanto entri in contatto con noi. Pensiamo alla frutta e alla necessità per la GDO di scartare l’informe, l’ammaccato, l’imperfetto. Accettare l’inesatto è un boccone difficile da digerire. Meglio definire la bontà dalla superficie più che dalla sostanza. Non importa cosa venga utilizzato per migliorare l’estetica di un frutto.

Il vino non è da meno. Anzi. Tutti sanno che i vini più venduti sono quelli da pochissimi euro, nella grande distribuzione.

Gusti omologati, sempre identici a sé stessi. E, diciamolo, sono vini cesellati da grandi scultori di liquidi. Sono fatti per piacere e piacciono. Semplicità, facilità di bevuta, nessun guizzo, sapori non troppo intensi, colore scelto ad hoc, nessuno spigolo, mancanza di complessità. Va bene così, per la massa. Ma pensare che il vino sia quello sarebbe come pensare che la musica tutta possa essere riassunta in un best di Toto Cutugno o che la letteratura raggiunga il suo apice con le poesie di Sandro Bondi.

Lo so, me ne rendo conto: il mio è il sogno di una controrivoluzione. Ma è un sogno di cui, assolutamente, non possiamo fare a meno. Forse nella stessa misura in cui riusciremo a trasformare questo sogno del vino genuino ed artigianale in una realtà, riusciremo anche ad arginare, e poi ad annullare, lo spaventoso progresso degli inquinamenti dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, dei fiumi, delle spiagge e delle campagne, tutto il veleno che minaccia di morte.1

Anche queste sono parole di Mario Soldati. E sono passati più di 50 anni. L’uomo è arrivato sulla Luna e sta progettando di vivere su Marte. Non è più quantificabile la plastica nei mari. L’aria in alcune zone è diventata affrontabile solo con le mascherine. Insomma, questo «spaventoso progresso» non ha ancora ceduto il passo ad uno sviluppo più lungimirante, in questa terra. E come mirabilmente sintetizzava un poeta a me caro, Andrea Zanzotto, è da tenere sempre a mente che:

In questo progresso scorsoio
non so se vengo ingoiato
o se ingoio.

Fortunatamente non tutto è perduto e nuove spinte avanzano. In molti ambiti alimentari, seppur ancora in piccole nicchie. E il vino ne è un esempio. Hanno iniziato i francesi nella regione del BeauJolais – verso la fine degli anni Settanta, con Marcel Lapierre – a produrre vini più naturali.

Ecco, l’incriminata definizione: vino naturale.

Quella di vino naturale non è una definizione legiferata né di unica interpretazione. Ci sono molte associazioni francesi, italiane (e non solo) che hanno protocolli differenti per includere o meno vignaioli presunti naturali tra i propri ranghi. Per contestualizzare di cosa stiamo parlando, al di là di tecnicismi e dettagli, potremmo così sintetizzare cosa si consideri per vino naturale: un vino nato da vigne non trattate con pesticidi, diserbanti, sistemici in genere. L’unica concessione è l’utilizzo in vigna di quantità (minime) di zolfo e rame. Poi, potenzialmente, basse rese per ettaro, selezione attenta dell’uva, raccolta manuale delle uve a maturazione. Una volta che uva il più sana possibile giunge in cantina, il dovere del vignaiolo naturale è traghettarla, nella maniera meno invasiva possibile, a essere la migliore espressione (o interpretazione) di quanto quell’annata ha saputo regalare, climaticamente parlando. Dunque l’utilizzo dei soli lieviti indigeni (già contenuti nell’uva e nella cantina), escludendo totalmente i lieviti selezionati. Fermentazioni spontanee senza il controllo della temperatura. Esclusione di chiarifiche o stabilizzazioni. Filtrazioni nulle o, al massimo, ammesse solo se grossolane. Minima (in alcuni casi nessuna) aggiunta di anidride solforosa, in fase di imbottigliamento.

Sono passati quasi trent’anni dall’introduzione di questa definizione. Ma pare sempre più arduo accettare questa dicitura. Riduciamo il tutto, per essere comprensibili: provare a fare vino naturale è tentare di usare meno chimica possibile (ovvio che rame e zolfo sono chimica) e meno artifizi possibili (filtrazioni, chiarifiche, stabilizzazioni, ecc.). Fare vino convenzionale è tentare di arrivare ad un prodotto finito usando più accortezze chimiche e/o tecniche sia in vigna sia in cantina. È tutto legale, concesso. Ed è più che giusto per alcuni perseguire questo obiettivo. Come è pure giusto per altri usare meno artifizi possibili (pur conoscendoli). La dicitura vino convenzionale raggruppa vini da GDO a due euro e vini da centinaia di euro. Appare dunque ovvio che anche vino convenzionale è una definizione manchevole. E non basta considerare un vino convenzionale o naturale per reputarlo buono o cattivo. Qui si ragiona solo sulla contestualizzazione di una definizione che ha a che fare con le modalità per ottenere un vino e non si discute della qualità della bevuta.

Personalmente ritengo che una definizione esista ed abbia valore nel momento in cui la si contestualizza e la si accetti tra (molte) persone che la ritengano credibile. Una definizione è una convenzione, un’approssimazione per piallare la lingua e cercare di trasmettere conoscenza. E certamente una definizione può essere migliorabile in termini di profondità e dettagli. E questo per quasi ogni definizione minimamente complessa. La certezza è però che la definizione di vino naturale esiste, da almeno 20-30 anni. Questo è un fatto oggettivo, non una opinione. E nonostante tutto risulta utile ad alcuni per capire un contesto di vinificazione e serve ad altri per guerreggiare sul suo essere ingannevole come pure serve ad altri ancora per difendere il proprio orticello. Detto questo, proporre una definizione alternativa, più complessa, dettagliata, attinente può sicuramente essere un obiettivo plausibile, ma il punto, e spero questa volta di essere chiaro, non è se esiste o no il vino naturale ma il fatto che esiste una definizione di “vino naturale”, ampiamente contestualizzata e compresa, storicamente parlando. Sarà stato furbo chi l’ha nominato così la prima volta?

Può essere. Come sarà stato furbo chi ha inventato la definizione smart working (intelligente? Si, solo in parte) oppure social network (rete sociale? Si, ma di quale socialità?), e via dicendo. Sono definizioni. Strumenti per capirsi ma non sufficienti a comprendere l’intera natura della discussione. Se uno si ferma alla sola definizione rimarrà zoppo. Non solo, la realtà alimentare (e non solo quella) è colma di esempi di prodotti in commercio che utilizzano l’aggettivo naturale. E come pare, per alcuni, fuorviante usare “naturale” associandolo a “vino”, non appare così scandaloso associarlo a cibo per cani, tramezzini sotto vuoto e detersivi.

Ovviamente questa bagarre del termine naturale non ha trovato fine né la troverà fino a che un disciplinare verrà legiferato. Nel frattempo interrogazioni alla Camera, proposte (bocciate) alla Comunità Europea, sanzioni pesanti a enoteche e produttori che hanno osato definire/scrivere naturale di un vino. Che non sia una definizione definitiva è comprensibile. E molti produttori, al di là di ogni definizione, chiederebbero soltanto che venissero scritti in etichetta gli ingredienti, come già avviene per la quasi totalità degli altri alimenti in circolazione. E invece basta scrivere «contiene solfiti» se sopra una certa soglia. Ma capiamoci: il problema, spesso, non sono i solfiti.

Gli additivi che si possono aggiungere ai vini sono molteplici e le allergie ai solfiti sono rare. Basti pensare che patatine e frutta secca ne sono pieni. Invece «moltissimi sono allergici al granchio eppure il chitosano, uno zucchero di uso frequente ricavato dal guscio dei crostacei, si impiega per affinare e chiarificare i vini. Esiste anche l’allergia alle uova e un tipico enzima utilizzato come antibatterico, il lisozima, deriva proprio da queste».2

Essendo italiani, abituati al batticuore da tifoso, entra in scena un retaggio storico e si tendono a creare due fazioni opposte. Da una parte sono schierati gli amanti dei vini convenzionali che criticano in modo agguerrito la presunta naturalità di certi vini sostenendo che se l’uomo non agisse il vino diventerebbe aceto.

Alice Feiring suggerisce semplici parole di fronte a queste obiezioni: «Vino naturale non significa privo di qualunque intervento. Certo che è necessario intervenire per evitare che il mosto si trasformi in aceto! Il punto è intervenire il meno possibile, per ottenere il vino più buono possibile senza l’uso di macchine e additivi»2

Ed è pur vero che anche la fazione dei naturalisti duri e puri non aiuta il dialogo con chi non la pensa come loro. Perché, a dire il vero, la crescente pletora di vignaioli naturali non è esente da colpe. La premessa essenziale è che vinificare con il minimo intervento possibile è indubbiamente più rischioso. Il minimo errore di valutazione può compromettere un’intera annata con la conseguenza di ottenere un vino con difetti evidenti senza aver modo (se si rimane coerenti) di correggerlo.

La situazione odierna vede dunque impegnati da un lato molti vignaioli che stanno migliorando di anno in anno, affinando l’esperienza, la loro interpretazione delle uve, gli esperimenti di vinificazione in diversi contenitori, l’equilibrio fragile sulla quantità di anidride solforosa da usare. Dall’altro lato ci sono alcuni vignaioli che pare vogliano preservare alcuni “difetti” o asperità nei vini, ascrivendole a caratteristiche indelebili e privilegiando alcune estremità. Questo grazie anche ad una risposta buona di certa nicchia di appassionati. Insomma, in ogni campo non tutto è oro quel che luccica. E il rischio potrebbe essere elevare una certa incuria a segno distintivo della naturalità di un vino. Riassume bene questo concetto Sandro Sangiorgi, uno dei massimi esperti di vini naturali (e non solo) in Italia, in un articolo apparso su Porthos nel dicembre 2019:

Essere innamorati dei vini naturali ha comportato sempre qualche sacrificio e a tratti è stato faticoso. Lo sforzo è stato ricompensato, sia dal lato propriamente emotivo della relazione col liquido odoroso, sia, e forse ancora di più, dalla possibilità di recuperare finalmente l’approccio unitario che va sempre riservato a una forma d’arte. Le cose, negli ultimi anni, non si sono fatte più semplici. Anzi, com’era inevitabile – e ampiamente previsto e descritto da Porthos sulla rivista e sul sito – la nascita di tante realtà del tutto nuove e la conversione ai regimi biologico e/o biodinamico di molte aziende convenzionali ha generato un’intensa crisi di crescita. […] Fino a qualche anno fa, era raro reperire il gusto di “souris” in prodotti imbottigliati e in vendita: a voler pensare alle lacune più ricorrenti della produzione naturale vengono in mente forti riduzioni, prevalenza obnubilante di sentori organici e acidità volatili molto pungenti. Negli ultimi due anni il numero di bottiglie “topate” è aumentato fino a raggiungere livelli preoccupanti. Protagonisti di questi incidenti sono stati all’inizio produttori e produttrici della nuova leva: incoraggiati dalla spontaneità a prescindere da tutto, hanno rinunciato all’anidride solforosa senza però la minima competenza e consapevolezza di cosa accade tra la vigna e la cantina e durante la fermentazione. Il mercato degli innamorati dei vini naturali si è riempito di bottiglie di sconosciuti interpreti francesi e spagnoli che hanno fatto della sciatteria una specie di marchio distintivo.3

Vorrei però ora tornare al punto centrale di questo articolo: il gusto, al di là di ogni omologazione. Ma non prima di aver ricordato queste parole di Michael Pollan: «Oltre ad essere più ricche di minerali, le coltivazioni biologiche contengono più fitochimici, sostanze secondarie (come i carotenoidi e i polifenoli) che le piante producono per difendersi dai parassiti e dalle malattie; molti di questi hanno effetti benefici sull’uomo, in particolare come antiossidanti e antinfiammatori. Non essendo irrorate con pesticidi sintetici, le piante devono imparare a difendersi da sé, con il risultato che in genere contengono dal 10 per cento al 50 per cento in più di fitonutrienti delle piante coltivate in maniera intensiva»4

Torniamo pertanto al nostro centro. Questi fantomatici vini puzzoni (o semplicemente dal gusto diverso?)

Noi scegliamo veramente cosa bere e cosa mangiare? Anche se esistesse una coscienza critica al di là di paraocchi e influenze, quanto riusciremo a capire cosa è buono e cosa no? E, a seguire, cosa più ci piace e cosa meno? Quanto questo è in stretto collegamento con la variabilità di cosa assumiamo?

Facciamo l’esempio del vino: se beviamo/proviamo sempre i soliti vini, magari sempre su fasce di prezzo medio/basse, magari acquistate in luoghi poco idonei come GDO e similari possiamo avere la stessa capacità di discernimento di chi, con curiosità e mente aperta, assaggia cercando un approdo, una scoperta diversa rispetto a quanto già è abituato?

È dentro questo contesto che si pone l’approccio dell’andare incontro al vino. Non tanto ricercare quello che già si conosce, magari affidandosi ai soliti nomi noti o apprezzare quello che ti dicono bisogna trovare/provare in un vino. Ascoltare quello che il vino ha da dirti senza preconcetti o teorie definitive. È un approccio alla vita, all’alimentazione e alla conoscenza. Il rischio può essere non pensare per forza che una data cosa “puzza” e ricondurre il tutto ad un segno negativo, ma d’altronde le categorie sono state create per la semplificazione e non per scavare nella complessità. Baruch Spinoza, qualche secolo fa, scriveva così:

Dopo che gli uomini si sono persuasi che tutte le cose che avvengono avvengono in loro vantaggio, hanno dovuto giudicare in ogni cosa più importante quel che per loro era sommamente utile e stimare come più eccellenti tutte quelle cose dalle quali venivano affetti nel modo migliore. Per cui hanno dovuto formare queste nozioni con le quali spiegare le essenze delle cose, e cioè Bene, Male, Ordine, Confusione…5

Si torna all’eterna pensiero dicotomico a cui pare siamo destinati: ottimizzare tutto, semplificare, sintetizzare, trovare termini opposti in cui incasellare/incastrare le sensazioni ed essere così “aiutati” nelle scelte.

Ma andiamo oltre. Poniamoci un dubbio. Sarebbe da capire il collegamento tra la fantomatica “puzza” e quanto questo fattore possa danneggiare un dato alimento come è vero l’inverso. Capire se un alimento dai profumi più addomesticati non sia solo una maschera che nasconda un prodotto totalmente anestetizzato e carente dal punto di vista nutrizionale. A questo proposito Michael Pollan suggerisce:

La nostra salute dipende molto dalla capacità di leggere questi segnali biologici: questo sembra maturo; quest’altro sa di marcio; quella mucca ha un aspetto sano. Il compito è molto più facile quando si ha una lunga esperienza di un determinato tipo di alimento e molto più complicato quando un prodotto è stato espressamente progettato per ingannare i nostri sensi, ad esempio con aromi artificiali o dolcificanti sintetici. I cibi che mentono ai nostri sensi costituiscono una delle sfide più serie della moderna alimentazione4

Non voglio assolutamente incentivare teorie cospirazionistiche attorno alle logiche dei gusti degli alimenti. Mi sento però di sposare il concetto per cui dovremmo essere noi a muoverci verso la variabilità dei gusti nel tempo e non accontentarci della riduzione dello spettro delle sensazioni organolettiche. Magari tenendo a mente che se un profumo risulta più pungente, difficile da comprendere, potrebbe essere solo perché a esso non siamo abituati. Ed è proprio pensando a ciò che mi piace ricordare le parole di Giovanni Bietti a proposito di “Andare incontro al vino”:

cosa di cui essere consapevoli è che con buone probabilità questo vino sarà anche diverso, più particolare (nel migliore dei casi molto più caratterizzato e personale), rispetto ai vini che oggi ci siamo abituati a considerare buoni. Questo è probabilmente il punto più delicato in assoluto: anche i migliori vini naturali risultano all’assaggio un po’ eccentrici rispetto al gusto standardizzato. Tendono ad esempio a profumare meno di frutta e di fiori (si tratta di aromi che naturalmente appartengono a poche uve e pochi territori), e molto più decisamente di terra, di erbe, di carne. La cosa più difficile per chi ha una buona conoscenza del vino normale, tecnologico, e si accosta al vino naturale è vincere il pregiudizio verso la non-correttezza enologica. E chiarisco (di nuovo!) che il discorso è molto delicato, anche perché io stesso trovo che alcuni vini naturali siano un po’ scomposti, o che potrebbero essere vinificati meglio; del resto molte aziende sono davvero giovani. Il punto è che l’appassionato è oggi abituato a considerare difetti ineliminabili, e quindi a condannare senza appello, caratteristiche come la non limpidezza, la riduzione o la presenza di una leggera acidità volatile. Il vero vino naturale è lavorato con un quantitativo minimo o nullo di solforosa, che lo espone inevitabilmente a una maggiore ossigenazione. Molti dei migliori tra questi vini giocano quindi con la volatile o con la riduzione (dato che restano a lungo sulle fecce), e l’equilibro, la freschezza e la bevibilità che li contraddistinguono sono proprio il frutto di questo gioco rischioso. Inoltre molti di questi vini non vengono mai filtrati né chiarificati. È evidente che se le uve non sono davvero sane e naturali, o se il vinificatore forza troppo la mano, il rischio è di avere realmente un vino non riuscito. È importante che il consumatore mostri la disponibilità di andare incontro al vino, cercando di comprenderne anche gli aspetti più caratteriali: ripeto, il concetto di vino senza difetti, fruttato, morbido, piacevole, nella maggior parte dei casi è un concetto commerciale che si è riusciti con calcolata astuzia a imporre al consumatore; e spesso queste caratteristiche sono impossibili da raggiungere se non attraverso interventi pesanti a livello chimico e tecnologico, prima in vigna e poi in cantina.”6

Un punto a me caro, per concludere, è contestualizzare la variabilità dell’alimento in base alle stagioni, in base ai giorni, in base alle annate, in base alla variabilità della natura che non è costruita in laboratorio. Ci sono dei compromessi che possono accompagnare l’uva. Questo accompagnare può andare per forza in una direzione oppure assecondare lo spirito del momento, la variabilità del ciclo naturale come anche accettare le difficoltà di un’annata.

Qual è altrimenti il rischio?

Merleau-Ponty, nel suo libro Il visibile e l’invisibile, scrive: «l’essere è talmente gonfiato di non-essere o di possibile che esso non è solamente ciò che è».7

Sembra una frase lontana da quanto stiamo dicendo ma per me racconta esattamente cosa si va perdendo, modificando invariabilmente la struttura di un vino. Si può perdere l’aderenza ad un territorio, a ciò che un dato suolo può fornire, alla variabilità climatica, all’esposizione dei terreni, alle caratteristiche organolettiche di un dato vitigno, alla profondità di vigneti con anni sulle spalle. Si può perdere, in sintesi, l’identità. E quando si inizia a bere (o a mangiare) un alimento che potrebbe nascere in ogni parte del mondo e avere il medesimo gusto non stiamo parlando di globalizzazione, innovazione tecnologica, sviluppo umano e via dicendo. Stiamo demolendo le infinite possibilità di espressione che ha la terra su cui viviamo e le infinite possibilità di rappresentazione di noi stessi in questo mondo.

Sono replicanti, sono tutti identici, guardali
Stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere
Come lucertole s’arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno
Spendono, spandono e sono quel che hanno”8

L’abitudine, insomma, ci seppellirà. L’aderenza al basso, all’omologazione, alla banalità: se le travi portanti della nostra epica quotidiana sono queste va da sé che le nostre stesse sensazioni non sono altro che pensieri castrati. E dire che un vino “puzza” potrebbe significare in qualche modo bullizzarlo.

Mi vengono così in mente le Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti:

303. Passavamo le nostre serate in locali arredati con mobili di modernariato, ascoltando il barista tenerci brevi conferenze sui vini millesimati, sulle birre trappiste, al momento di ordinare il nostro giro. Vicino a noi, cittadini vestiti alla penultima moda sedevano attorno ai tavoli, pronti a tornare nei propri quartieri residenziali, negli appartamenti da classe media in cui si erano preparati per uscire. Grandi quantità di cose non dette giravano impazzite tra i nostri sguardi, come allarmi supersonici.9

Non rimane che consigliare cinque vini che se ne fregano dei compromessi, vivono al di là della perfezione generalista e sono interpretazioni cangianti di un altro modo di intendere questo alimento. Perché il vino è un alimento. Ed è un bene non avere certezze, nemmeno tra i vini perché, come scriveva Emile Cioran

L’istante in cui crediamo di aver capito tutto ci conferisce un aspetto da assassini10

Dimenticavo: secondo me questi vini non puzzano. Anzi. Profumano di vita, hanno un’anima e risvegliano dal torpore alimentare.

1

La StoppaAgeno 2010: uno dei primi vini naturali che ho amato. Un colore che sa di tramonto e vita piena. Albicocche disidratate, pesche sciroppate, pino mugo, miele. Qui aggettivi come balsamico vanno in orbita. Un succo autentico. Un’acidità equilibrata, integrata e non invasiva. E pure una persistenza che sa di tatuaggio indelebile. Insomma, siamo nella Via Lattea del firmamento enologico. E se basta un vino per viaggiare rimanendo seduti a tavola o in poltrona, allora forse potremmo farcela a superare questo limbo che limita la nostra libertà personale e la visione di cio che ci circonda

Per la cronaca siamo a Rivergaro, in provincia di Piacenza. La Stoppa è una delle prime aziende che ha creduto nei vini naturali. L’azienda è guidata Elena Pantaleoni con il fidato Giulio Armani, sommo maestro delle macerazioni. Il nome Ageno è un omaggio al fondatore de La Stoppa, l’avvocato Giancarlo Ageno. I vitigni usati sono 90% Malvasia di Candia Aromatica e 10% di Ortrugo e Trebbiano. Inerbimento spontaneo, nessuna concimazione, né diserbo, né pesticidi. Suolo limoso argilloso per questi vigneti di circa venti anni. Macerazione sulle bucce per quattro settimane in vasche d’acciaio e/o cemento. Fermentazione spontanea con lieviti indigeni, in tini di legno da quaranta ettolitri e poi in bottiglia il tempo necessario. Nessuna filtrazione, nessuna chiarifica e nessuna aggiunta di anidride solforosa.

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Tenuta GrilloPecoranera 2003: cos’è la “mano” del produttore? Si dice che alcuni vignaioli sappiano rendere assolutamente riconoscibili i propri vini, gli diano una loro impronta, siano lo specchio del loro essere, sappiano imprimere al vino un tratto distintivo. Questo è uno dei casi più emblematici per me. Tenuta Grillo è la creatura di Guido Zampaglione e sua moglie Igiea Adami. Siamo nel basso Monferrato, su un altopiano attorno ai 350 metri. Il terreno è sabbioso limoso e dunque, seppur privo di pendenze, in grado di drenare molto bene l’acqua. La filosofia produttiva è ben definita: selezione maniacale delle uve, raccolte a più riprese, basse rese, lunghissime macerazioni, solo lieviti indigeni, fermentazione spontanea in vecchie botti grandi di legno. Ma non è tutto. Guido Zampaglione è natio dell’Irpinia e pure in Campania si era fatto la nomea di vignaiolo coraggioso vinificando un Fiano macerato a 800 metri di altezza. Ma poi la sua storia l’ha portato a ricercare altri vigneti e, dopo tanto girovagare, si è stabilito in Piemonte, patria di grandissimi vini. Lì, dopo le prime vendemmie a inizio anni duemila, era appunto visto come la Pecoranera (da cui il nome del vino) e i suoi vini troppo scontrosi per divenire delle gemme. Ecco, qui la coerenza e la lungimiranza di un uomo sono il riassunto che si può assaggiare con i suoi vini. Il Pecoranera esce dopo circa dieci anni dalla sua cantina e berlo è pura gioia esplosa, pura vita che contagia chi ne può godere. Nello specifico si tratta dell’unione spirituale del 75% di Freisa, con il suo tannino persistente, insieme a un 10% di Barbera, con la sua acidità ficcante, e con un 10% di Dolcetto più 5% di Merlot, ad ammorbidire il tutto. La grande bellezza in questo uvaggio è che le varie componenti si sentono tutte: acidità, freschezza, tannini, persistenza, morbidezza. Un vino che, bicchiere dopo bicchiere, ti mostra tutte le sfaccettature della sua anima. Un vino di cui riempirsi le guance godendo della sua succosità. Ribes, more, sogni viola, potenza di frutto ma pure ginepro, eucalipto, liquirizia, cacao, note lievi di ferro. Una gabbia fatata in un universo speziato. Questo in definitiva non è solo un vino, è l’essenza di una storia, di un percorso umano, è la sintesi di una filosofia di vita che ha portato una persona a confrontarsi con un territorio e dei vitigni nel rispetto della tradizione ma pure con piglio deciso e accorto. Torna il nome, Pecoranera, simbolo di coraggio, in questo caso. Lavorare/vivere con il proprio passo, al di fuori del vociare, al di fuori delle critiche, tracciando un percorso nuovo, come uno scalatore su di una cima inesplorata.

3

Progetto SeteAlimento 2019: un nome, un programma d’intenti. Questo vino si chiama Alimento ed è l’ennesimo nettare che creano i ragazzi di Progetto Sete. Questo progetto è nato dalle menti e dalle mani di alcuni ragazzi laziali che hanno deciso di riprendere in mano alcuni vecchi vigneti in provincia di Latina, dalle parti di Priverno. Grande stima innanzitutto per il recupero di alcuni vitigni che rischiano di cadere nel dimenticatoio come l’Ottonese, il Moscato di Terracina, la Malvasia Puntinata. E poi il recupero di vecchie vigne abbandonate rimesse in sesto senza l’utilizzo di prodotti chimici, mantenendo la biodiversità. Quindi alberi da frutto e erbe spontanee tra i vigneti, in perfetta simbiosi con l’ambiente circostante.

Detto questo, i vini: grande bevibilità, gradazioni mediamente basse, spensieratezza, acidità da vendere, nessun graffio in gola e tanta agilità ad accompagnare la bevuta.

Questo Alimento appare come un vino all’apparenza semplice e gastronomico, il cui nome pare assai azzeccato. Prima la frutta: pesche, susine, cedro, un mandarino amaro. E la bocca rimane assuefatta. Poi un divagare tra accenni di frutta secca (mandorle/nocciole) e note di miele. Un bellissimo equilibrio tra sapidità e acidità. Al di là di profondità e complessità, qui si sprofonda in una pacifica leggerezza.

Per la cronaca questo è 100% Ottonese. Direttamente da vigne di 40 anni nate su un suolo di argilla, limo e calcare. Le uve vengono diraspate e pigiate in modo soffice e rimangono cinque giorni a macerare con le bucce, fermentando spontaneamente con i propri lieviti. Infine l’uva passa in acciaio dieci mesi sulle fecce fini e, senza chiarifiche né filtrazioni, arriva sulle nostre tavole. 2487 bottiglie prodotte. E una grafica elettrica che contraddistingue l’etichetta di molte bottiglie.

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MonteforcheCabernet Franc Traerso 2018: nonostante il Cabernet Franc non sia vitigno prettamente Veneto, personalmente lo ritengo profondamente emblematico, con caratteristiche che in un certo senso rispecchiano fedelmente questa regione. Nonostante una buona nomea internazionale (davvero ottimi alcuni Franc francesi) io trovo che alcune delle espressioni più vere, ruspanti, senza compromessi si trovino proprio in Veneto.

Una delle migliori è il Cabernet Franc dell’azienda Monteforche curata da Alfonso Soranzo. Un vino franco, schietto, diretto, che non te le manda a dire. Pane al pane, vino al vino, si dice. Un vino che i compromessi se li mangia a colazione. È netto nelle sue caratteristiche. Apre aspro, erbaceo ma presto si accompagna a prugne, mirtilli e amarene. Intensità e oscurità. Soprattutto l’ultimo bicchiere ha parvenze impenetrabili e raccoglie il succo carico e vigoroso. Tracce di cioccolata amara, menta e liquirizia, non tanto esposti come alcuni rossi invecchiati ma solo accenni ombrosi, chiaramente presenti ma senza surclassare il resto. E sul finale incenso e cenere a suggellare il tutto. In definitiva un vino che già ora, giovanissimo, si manifesta senza cercare gentilezze, autentico e fiero, che pare dispotico ma con cui ben presto si socializza.

Per la cronaca siamo sui Colli Euganei dalle parti di Vo’ Euganeo. Terreni vulcanici ricchi di marne e argilla. Vigne di circa 15 anni sui 170 metri s.l.m. Fermentazione spontanea con lieviti indigeni. Quindici/venti giorni di macerazione. Vinificazione e affinamento in cemento, per dieci mesi. Rese sui 60/70 q/ha.

L’ulteriore particolarità sta nel fatto che nel 2018 Alfonso ha fatto due versioni differenti del Cabernet Franc. Questa è quella chiamata Traerso e deriva da uno specifico vigneto. Il motivo è l’attenzione alla diversità: da due vigneti differenti ha notato disuguaglianze rilevanti e non ha dunque unito il tutto in fase di affinamento, preservando e non omologando.

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Tanca Nica – Passulata all’alba 2017: a volte il vino travalica il semplice bere. E lo fa espandendosi in più direzioni. Nulla più e nulla meno di una esperienza che lascia ricordi indelebili, insegna qualcosa che prima non sapevi, pone il confine del gusto un passo oltre. Questo vino è di quella stirpe. Siamo nell’olimpo dei vini passiti. È poesia immediata, rapimento dei sensi. Pare quasi offensivo abbinarci un cibo. Basta a sé stesso e irradia luce. Tanca Nica è una piccolissima realtà dell’isola di Pantelleria che, tra gli altri vini, fa due passiti, anzi, due passulate: la Passulata all’alba e la Passulata al tramonto, in cui cambia solo il momento di raccolta degli acini. All’alba per la luce e la leggerezza e al tramonto per ricercare calore e potenza. Le due facce dell’isola. Per capire cos’è la passulata si può leggere sul sito di Porthos un interessante articolo. In sintesi la passulata è il passito prima del passito. Un tempo, in vendemmia, le donne precedevano gli uomini e selezionavano gli acini migliori per metterli ad appassire. Questa selezione avveniva già nei primi giorni di agosto, dalle zone più acerbe su terreni drenanti, ricchi di pomice, sfruttando le alte temperature. Quindi non si tratta di vendemmia tardiva, come nel caso di altri passiti. Poi, dopo l’appassimento desiderato, fermentazione con pochi litri di pied de cuve. Nessuna filtrazione, nessuna chiarifica. Nessuna solforosa aggiunta. E l’uva bolle più volte, rifermenta, alza la volatile che aiuta a mitigare la carica intrinseca di questo nettare e a bilanciare il tutto. Un vino che non ha un senso commerciale, che rischia di andare a male, che ha rese bassissime.

Ma cosa troviamo in questo vino, oltre la storia e la tradizione?

Sarebbe facile parlare di albicocche, spuma di pere, sciroppo di limoni, sangue di agrumi. E poi sentori iodati e ricordi di sabbia. Ma qui i gusti sono così vertiginosi che la mente viaggia e attorno ha la spiaggia, il sole, gli scogli, il sale, l’uva mangiata dalla pianta. Nessuna stucchevolezza. Un’acidità al servizio dell’armonia. Zibibbo in purezza. 500 bottiglie prodotte. Un sogno in bottiglia.


1 Mario Soldati, Vino al vino: alla ricerca dei vini genuini (Mondadori, 1969)
2 Alice Feiring, Vino naturale per tutti (Slow Food Editore, 2019)
3 Sandro Sangiorgi, Il topo e il var, «Porthos», 2019.
4 Michael Pollan, In difesa del cibo (Adelphi, 2009)
5 Baruch Spinoza, Ethica (1677)
6 Giovanni Bietti, Vini naturali d’Italia 2.0 (Edizioni Estemporanee, 2013)
7 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (Bompiani, 1969)
8 Frankie Hi-Nrg MC, La morte dei miracoli (BMG, 1997)
9 Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello (Lavieri Edizioni, 2009)
10 E.M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza (Adeplhi, 1993)