Che «nessun uomo è un’isola», scultura su pietra di John Donne, lo sanno i devoti della letteratura, gli abitatori dei social e perfino gli obsoleti “disconnessi”, perseguitati dalle bollette della luce e dalle lettere raccomandate. Più originale è pensare che un’isola, neanche quella, è un’isola davvero; ma piuttosto la miniatura di un continente, un esperimento “in vitro” – limitato e forse controllabile nella dimensione, nelle variabili e negli effetti – della vita che c’è al mondo. Su questa intuizione si basa Procida racconta, il festival letterario che porta ogni anno, nel mese di giugno, sei scrittori di punta del panorama narrativo italiano dentro lo scenario incantevole dell’isola del gigante Mimas e li sfida a tradurre in letteratura le “storie” di altrettanti personaggi del luogo. I partecipanti a questa quarta edizione – Rossella Postorino, Gad Lerner, Valentina Farinaccio, Matteo Nucci, Silvia Avallone e Franco Arminio – saranno presentati questa sera in anteprima presso la Galleria Alberto Sordi a Roma. Nel corso dell’incontro sarà reso noto anche il calendario degli eventi dell’edizione 2018, che si svolgerà dal 6 al 10 giugno secondo un canovaccio ormai collaudato.

Tre giorni di esplorazione, di immersione nel ventre amniotico della terra in mezzo al mare per scovare “personaggi in cerca di autore”; per sbirciare, cioè, dentro vite all’apparenza semplici e metterne in luce un risvolto invariabilmente straordinario. Lo scenario non è casuale… Procida, la “terza Grazia” dell’arcipelago napoletano, ha una genuinità struggente e uno straordinario potere di mimesi. Gemella “povera” di Capri e Ischia, non conosce l’assalto fanatico di moltitudini di turisti, l’entusiasmo dionisiaco di orde di facili innamorati; piuttosto è da sempre l’oggetto del corteggiamento discreto ma insistente di amanti più scaltriti, che cercano oltre la patina smaltata della vacanza il brivido di un’esperienza autentica. Procida mantiene la promessa. In barba al tempo e alla geografia conserva un’integrità, un fascino puro e universale che ne ha fatto l’Eden selvaggio in cui si compie il transito verso un’adulta consapevolezza del giovane Arturo di Elsa Morante, la controfigura cinematografica della Capri anni Cinquanta in cui è ambientato Il postino dell’indimenticabile Massimo Troisi e addirittura, a una distanza di antipodi, l’alter ego di Isla Negra, la remota isola cilena dove si svolge in origine la vicenda del portalettere che impara a “fare versi” dal grande Neruda.  A questo serbatoio di suggestioni – sospeso tra la realtà immediata, bruciante perché essenziale, e una dimensione ancestrale, arcadica perfino – attinge il festival, organizzato dalla casa editrice Nutrimenti in collaborazione col comune di Procida e il Gruppo Feltrinelli. Sotto la direzione artistica di Chiara Gamberale, ideatrice del progetto, l’affascinante “cimento letterario” fa appello alla natura più intima dell’isola, alla sua speciale posizione di distacco e insieme di avanguardia, alla sua atmosfera di prigionia ed evasione. E al tempo stesso, con uno slancio quasi neorealista, ritorna alle radici della narrazione: al racconto (più o meno veritiero e sempre verosimile) della vita per tramandarla, per sceglierla e illuminarla. Le storie di Procida sono in realtà tanti piccoli miti fondativi di una religione dell’esperienza, del senso comune, della saggezza popolare, del contatto incessante con la natura e l’umanità più viscerale, in un percorso ora crudele ora salvifico.

La centenaria che nel 1946 ha votato repubblica, il medico del carcere, la “pescatrice” Maria, dipinti da Errico Buonanno, Nicola Lagioia e Michela Monferrini, il pugno di “caratteri” catturati dalla penna di Melania Mazzucco, Walter Siti, Leonardo Colombati e di tutti gli scrittori corsari durante le loro incursioni letterarie nell’isola somigliano a tante tessere di un mosaico, che insegna pazienza, mansuetudine, coraggio scabro, resilienza, ribellione sotterranea e inesorabile. Di volta in volta Procida si fa Itaca e Zacinto, oppure Montecristo, un concentrato di energia vitale che si proietta in uno slancio di fuga verso il mondo o, al contrario, si condensa in un’irresistibile calamita, un gigantesco polo di attrazione nostalgica. Va da sé che il mare dispieghi il suo incantesimo: sfondo, dietro alle evoluzioni dei protagonisti, nume o confessore, conforto o tormento e al solito meravigliosa, strisciante metafora. «Il mare non ha patria», diceva Giovanni Verga, e all’opposto incarna, con naturalezza, una meravigliosa idea di uguaglianza e cosmopolitismo. Proprio in virtù della sua consapevole ambientazione marinara, e con la stessa naturalezza, Procida racconta diventa allora un momento di incontro e di osmosi, un tuffo a riacciuffare una verità semplice e bifronte. Che il mare – e le sue pertinenze, le sue propaggini terrestri e i suoi tesori sommersi – appartengono a tutti; e tutti, del resto, siamo sponde del mare.

Procida racconta 2018


Il sorriso di Napoleone Terzo, di Walter Siti

 

Scritto nel 2015, durante la prima edizione del festival, questo racconto di Walter Siti è dedicato ad Alberto, il guardiano del cimitero di Procida, e al giovane factotum dal nome che pare una burla, Napoleone Terzo. Costituisce, in fondo, una celebrazione gentile, acuta, vagamente struggente, di quel luogo sempre eccentrico che è il camposanto; e qui in special modo: gradazione più solenne, e stravagante, della solitudine “densa” dell’isola.

Strade incassate tra muretti, scooter più veloci e rumorosi dei tuk-tuk indiani, si rischia di esser messi sotto a ogni curva (“Non c’è pericolo”, mi rassicura un procidano, “a meno che il guidatore non sia ubriaco o strafatto”). Questa è un’isola che non si lascia e non ti lascia guardare, una di quelle isole vulcaniche nere e scontrose – non vede il motivo di aprirsi ai turisti policromi e pieni di idee sbagliate sui desideri. Quello che al massimo può offrire ai forestieri è l’euforia vegetale: olivi oleandri e magnolie, querce e buganvillee, gelsomini palme e rose canine; e sambuchi, canne, agavi, eucalipti; melograni, ginestre, robinie, pastinache e convolvoli, plumbago azzurrissime e cascate di glicini; foglie cerate o sfrangiate, globi, ciuffi, arance nespole e ciliegie tutte mature nello stesso momento – un Eden ma privato, sbarrato da cancelli e assi incrociate. “È roba nostra, voi andate in spiaggia che tanto nemmeno di quella capite niente”. Il cimitero potrebbe essere un sogno aperto, uno spettacolo, come a Sète dove Valéry vedeva passeggiare colombe: ma qui c’è un muro in fondo, si dice per proteggerlo dal vento, in realtà per gelosia: per non lasciare il mare ai morti e i morti al mare. Un avviso annuncia l’insolita chiusura dalle 11.30 alle 15, pausa pranzo lunga e anticipata; ma sono appena le dieci e un quarto, c’è tempo per due chiacchiere.

Lui si chiama Alberto, ha quarantanove anni, è singolo: il suo lavoro, me lo dice subito, sussiste nella manutenzione, riguardo a spazzatura, pulizie radicali, le erbe crescono continuamente. Se c’è da fare restauri più grossi, marmisti muratori eccetera, allora bisogna avvertire le famiglie e ci pensano le ditte; i carri funebri si fermano davanti al cancello, i ragazzi portano il feretro fino alla fossa, “stamattina è già stata preparata perché oggi aspettiamo un cliente”. Dice ‘clienti’ con un po’ di mesta ironia ma senza mancare di rispetto, questo per lui sono gli ospiti che arrivano per non andarsene più. Dopo sei anni traslocano; la regola sarebbe dieci anni, precisa un bel ragazzo olivastro in canottiera che sta seguendo i nostri discorsi (“Piacere Giovanni”, si presenta) ma qui il terreno favorisce la mineralizzazione. Dopo, cassettina di zinco individuale o ossario comune. Il cimitero è antico, c’è sepolto un console generale britannico, vengono anche da Marsiglia per ricostruire alberi genealogici. Entra un altro ragazzo part-time, non sembra vero ma si chiama davvero Napoleone Terzo, Terzo di cognome, mi mostra il documento, ma tutti lo chiamano Leo. È figlio, o per meglio dire nipote d’arte: il nonno (Napoleone anche lui) faceva il mestiere che ora fa Alberto, li portava da bambini in cimitero pure di notte e non avevano paura dei lumini nel buio, né lui né sua sorella Tina. Qui c’è da fare, sì, il lavoro è duro soprattutto quando piove e necessita un’esumazione urgente perché il nuovo inquilino è già pronto; centoventi decessi l’anno, più o meno, l’altr’anno c’è stato il record di centoventisette. I mesi in cui si muore di più sono febbraio e agosto, anche quindici in un mese; ci sono giorni, e qui il sorriso di Napoleone Terzo si fa complice, infantile, che deve fare prima il servizio di pompe funebri poi togliersi in fretta la divisa dell’impresa e correre a vestire i panni dell’operaio inumatore.

“Fate tutto voi, ma insomma Alberto non fa niente?”.

Alberto reagisce alla provocazione con serietà, “c’è tutto il lavoro burocratico, le ricerche storiche i controlli, e poi io sono il responsabile, qui se qualcosa non funziona è colpa mia”. Da ragazzo si è iscritto all’Istituto nautico, allora a Procida due erano le scelte, o il nautico o il magistrale, che in genere era per le ragazze. Suo fratello è diventato capitano di lungo corso, lui si è diplomato macchinista però il mare non lo ha mai attratto, non ha mai messo piede su una nave anche se ovviamente un gozzo lo sa guidare, ma l’acqua non gli piace. “Anch’io”, si inserisce Giovanni, “non ho potuto fare gli studi che volevo, io volevo fare l’alberghiero e diventare chef”. Quando Alberto non ha i turni in guardiania sta a casa, la sua passione è la musica: gli piacciono le cantanti degli anni Sessanta, le signore del canto come Mina, ma soprattutto Dalida. Di Dalida conosce tutto, dalla nascita a Città del Cairo da genitori calabresi all’infanzia infelice, diventata presto orfana di madre, e i ricordi tornano nelle sue canzoni, in Mama per esempio o in La petite maison bleue; dal suo primo quarantacinque Madona fino al suicidio coi barbiturici, “ma potrei parlarne per una settimana”. Si riguarda i video con Marisa Sannia; non gli chiedo se ama la Callas, non ho il coraggio.

Gli occhi quasi gli si inumidiscono quando mi dice che il cimitero lo sente anche un po’ suo, perché i suoi genitori sono qua. Usciamo e mi mostra l’angolo dei dispersi in mare, cenotafi con scritte commoventi (“nessun abisso ha potuto sottrarti alla profondità del nostro cuore”) e una citazione evangelica: “Venuta la sera Gesù disse passiamo all’altra riva”, Marco 4, 35. Il viso mediterraneo bello e tondo di un ventenne morto nel ’41 sul cacciatorpediniere Carducci, al largo di capo Matapan. Vorrei girare un po’ da solo, con la confidenza messa insieme in mezz’ora gli chiedo se qui qualche volta è felice; sì, mi risponde, d’inverno alle sette e mezzo l’alba è sorta da poco e il cielo è bellissimo, rosa e celeste; qui è tranquillo, riparato, d’estate ci fischiano i merli e solfeggiano le allodole. Mi sembra sincero ma reticente, ho fulminea e incongrua la sensazione che i suoi fantasmi siano fuori, non qui. Lasciandoci non trattiene una citazione imprecisa da Foscolo per farmi vedere che ha studiato: “Zacinto che te specchi nell’acque del greco mar”, poi per attrazione inconscia del luogo, “un dì s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente me vedrai seduto / sulla tua tomba, o fratel mio”.

Mi aggiro a visitare il contesto, con quel leggero timore di profanazione che sempre ci accompagna nei cimiteri. Sole, moltissimo sole, dev’essere per questo che la maggior parte dei fiori è di plastica, quelli freschi non durerebbero una mezza giornata; qualche raro geranio, qualche begonia stenta, alla faccia del lussureggiare che esulta nel resto dell’isola. Leggo le date, guardo le foto – un uomo è stato decapitato da una bomba nel ’43, la moglie gli è sopravvissuta per cinquantasette anni; un pupetto è morto nel ’71 con solo sette giorni di vita (“quel ramo di mandorlo trapiantato in cielo”). Epici spiccano i pali delle vanghe sulla terra smossa di fresco per il cliente di oggi pomeriggio. Da fuori, dalla spiaggia sottostante, arrivano le grida dei ragazzi che giocano a palla; mi defilo con un po’ di vergogna, esco dal cancelletto secondario. Discesa ripida che drena sudore – tutto il paese è ripido e intorcinato come una chiocciola. (Un’isola da cui i maschi sono assenti per più di metà anno è un’isola diffidente). Sul muro di cinta esterno qualcuno ha ricopiato un verso di Pino Daniele, “io voglio solo te in questo mondo” – una sparata per meravigliare una ragazza, probabilmente, ma ora rintocca come un grido disperato di solitudine e caducità, polvere e ombra siamo. Risalendo sento dall’interno una voce stentorea che grida, mi sembra, un nome arcaico di donna, “Gertrude”, o forse “Trude” alla tedesca; si ostina, non smette, se questa Trude non è a portata di voce è inutile rompere le scatole a chiunque; il richiamo è così monotono e ritmico che sembra il grido di un animale. Ma avvicinandomi al cancello principale il grido si fa più preciso, è Alberto che grida “Si chiude!” dopo aver suonato il cicalino meccanico, vuole essere sicuro che nessun vivo sia rimasto dentro. Mi risaluta un’altra volta, cordiale, Napoleone Terzo mi sorride dalla finestra del piano di sopra: “Se vuole venirci a trovare ci fa piacere, sempre a disposizione”.

“Per ora no, è tutto, grazie”.