È difficile scrivere oggi di Bruciare tutto, l’ultimo romanzo di Walter Siti.

È difficile scriverne perché tutti ne conoscono ormai la trama: la storia di don Leo, prete razionalista e dedito al prossimo, ma pedofilo, che rifiutando le avances di un bambino ne provoca indirettamente il suicidio.

È difficile scriverne anche perché la discussione, almeno in un primo momento, è stata cooptata dalla questione morale, avanzata da Michela Marzano prima e da Alessandro Zaccuri poi.

È difficile scriverne perché Emanuele Trevi, Gianluigi Simonetti e Marco Antonio Bazzocchi ne hanno fornito una lettura precisa, finalmente attenta ai caratteri strutturali e stilistici del romanzo; cogliendo soprattutto la frizione che l’argomento scabroso crea con questi caratteri.

È difficile scriverne, infine, perché tante persone per via di questo rumore mediatico si sono già disaffezionate all’idea di leggere il libro o, avendolo letto, hanno già scelto la loro posizione nel dibattito.

Eppure sono convinto che ancora qualcosa resti da dire. A partire da elementi testuali che vengono sempre più dati per scontati nella produzione di Siti, ma che rifulgono se messi a confronto con le narrazioni sempre meno ambiziose dei narratori italiani (soprattutto i più giovani).

Fin troppo poco sottolineata è ad esempio la capacità di Siti di delineare precisi affreschi umani e sociali. Arrivato al terzo romanzo “milanese” (Resistere non serve a niente raccontava il trasferimento dalla capitale, mentre Exit Strategy era una sorta di diario della nuova vita a Milano), Siti è riuscito a calibrare finalmente il proprio sguardo, arrivando a ritrovare quella precisione e quella pregnanza d’osservazione che avevano caratterizzato i suoi romanzi “romani” (su tutti Troppi paradisi). La parrocchia di don Leo funge da catalizzatore di personaggi e storie; e il fatto che si trovi in un quartiere ricco, ma al tempo stesso abbia una vocazione all’accoglienza e all’integrazione la trasforma in un luogo di raccolta di figure provenienti da ogni classe sociale e ideologica. C’è il broker Duilio Restivo («jeans sapientemente scoloriti, camicia bianca, giubbotto multizip di nappa nera»), che diventa l’amico più stretto e anche il confidente di don Leo, e il Beppe, anziano operaio che ammorba don Leo con «l’eterna cantilena sulla pensione rimandata da quella puttana della Fornero»; c’è la scrittrice ricca e filantropa, la Mate Rubinacci, traumatizzata dalla morte del figlio e incapace di non pensare alla propria apparenza, e ci sono i poveri cristi che gravitano intorno alla canonica per passare il tempo e avere qualcuno con cui sfogare il loro astio contro il mondo («Ancora sul governo che spende i soldi per fare arrivare quei baluba là, che mangiano il riso con le mani e portano le malattie»). È un universo sfaccettato che si muove tra le funzioni domenicali, il doposcuola per i ragazzini (è eccezionale l’attacco del terzo capitolo, Papaoutai, con Jehrald, filippino diciottenne, che trasforma A Silvia in una sorta di indovinello veronese), il corso prematrimoniale e i momenti delle confessioni.

Si compone così una sorta di diario di una comunità frammentata: è una carrellata di istantanee che colgono un momento, una conversazione o un episodio a loro modo emblematici della condizione spirituale di tutti questi personaggi; e le puntuali considerazioni con cui il narratore accompagna il racconto («I bambini cercano scorciatoie per non avventurarsi in cose che non sanno; esattamente come gli adulti, ma loro sono più poetici perché sono animisti») si legano spontaneamente a brevi inserti di scenario, pause del racconto poste ad apertura di capitoli o paragrafi. Qui l’acume sociologico e politico di Siti si esprime a pieno, come quando annota la polemica da parte delle “grandi firme” per la presenza dei profughi alla stazione Centrale («un siriano male in arnese che si ravana nei pantaloni e si toglie le scarpe avrebbe screditato per sempre i futuri gelati Algida o quaderni Moleskine») o quando si sofferma sul teatrino della politica in televisione, della rissa simulata per fare audience («come strumento di mortificazione è meglio del cilicio»).

Il romanzo si regge su una struttura a montaggio cinematografico, evidente nella successione di brevi lasse narrative, ma talvolta addirittura esplicitato verbalmente («Federica è sulla soglia – prima ancora di entrare, apre la cartella verde e ne estrae una busta senza indirizzo né affrancatura: gliela consegna e lo fissa negli occhi. Dissolvenza»). Ne deriva un movimento rapido, un accumulo di brevi scene tutte a loro modo emblematiche dell’identità dei personaggi. Il particolare contiene in nuce tutti i caratteri dell’universale; e così da un gesto ripetuto, dal linguaggio adottato, dal modo di condurre una conversazione è possibile riconoscere ogni personaggio. Ogni personaggio poi è a sua volta l’incarnazione dell’unica logica del desiderio che governa la società raccontata da Siti. Non c’è bisogno che lo sottolinei il narratore: è un dato che appare nella sua evidenza dai dettagli. L’indugio sugli oggetti, la capacità di farne emerge violentemente il capitale simbolico – per dirla con Bourdieu – è una delle doti migliori della scrittura di Siti: «erano tutti inappuntabili nei loro maglioni missonati e giacche Boggi, lui cerca di nascondere uno strappo alla piega del gomito». Sono gli oggetti – meglio ancora se “marchiati” – a stabilire le gerarchie umane, le traiettorie sociali, le ambizioni economiche.

D’altra parte quella che racconta Siti è una società omologata dal linguaggio pubblicitario, dagli slogan televisivi, dagli anglismi inopportuni. Un’impressione di irredimibile superficialità accomuna questi personaggi e le loro vite, e l’italiano che parlano ne è la prima spia: frasi fatte, giochi di parole usurati, slogan sentiti alla televisione e ripetuti a macchinetta. La parola è al tempo stesso il sintomo e il propulsore della bêtise di questa umanità condannata dalla Storia. Per questo don Leo fa di tutto per distinguersi. Quella che conduce dal pulpito o dal raccoglimento del confessionale è una sfida rivolta innanzitutto al linguaggio: nelle sue omelie ardite («il Corano rinfaccia al nostro Vangelo di non saper essere più efficace nella concretezza quotidiana») o nei suoi consigli privati («Se tu potessi riabbracciare Sebastiano, vivo e sorridente per ventiquattro ore, dopo accetteresti di morire subito?») risuona un ardimento che è linguistico, prima ancora che ideologico. Don Leo parla un linguaggio capace di coniugare indulgenza e radicalità; egli infatti sa comprendere le debolezze dei suoi parrocchiani perché ne riconosce l’origine nelle gabbie mentali create dalla società; e proprio per questo si mostra severo e inflessibile nell’invitarli ad accettarle senza ipocrisie o ad abbandonarle radicalmente. La sua fede è mossa dalla speranza che il suo prossimo possa trovare una coincidenza con se stesso, liberandosi dagli auto-ricatti morali come dalle ideologie coatte.

E questo atteggiamento don Leo lo condivide con il suo narratore, la controfigura di quel Walter Siti che siamo abituati a sentire raccontare in prima persona e che qui si riserva un cantuccio laterale. Nel primo romanzo in cui non parla di sé, Siti dimostra come il più narcisistico e ombelicale degli scrittori italiani sia in realtà anche il più attento e acuto nel tratteggiare il nostro comune presente, aiutandoci a interpretarlo. E per farlo Siti adotta uno sguardo che è tutt’altro che cinico; c’è infatti un’ombra di indulgenza nel modo pacato, o forse rassegnato, con cui racconta la vita all’ombra del Bosco Verticale e della torre Unicredit. A spingerlo a tanta comprensione è il riconoscimento, la consapevolezza di non poter essere diverso dal mondo che racconta. Accettare la corruzione morale e la perversione del presente come un dato di fatto, e non come un’eccezione che continuamente emerge producendo scandalo, è forse l’unico modo per comprendere e affrontare i problemi del nostro tempo. Ed è questa convinzione a spingere il narratore a mimetizzarsi tra i suoi personaggi, a confondersi grazie a un uso sapiente dell’indiretto libero, costruendo un flusso di pensiero che, non permettendo una netta distinzione tra chi parla nel testo e chi da fuori lo commenta, finisce per turbare chi legge.

A questo punto però è d’obbligo affrontare anche la questione dell’argomento.

 

È cosa nota che Walter Siti si diverta a épater le bourgeois: da Scuola di nudo fino a Resistere non serve a niente, la sua narrativa ha messo in mostra il grottesco, lo scabroso, la violenza, l’immoralità, nella maggior parte dei casi legittimandoli attraverso una prima persona omonima dell’autore che raccontava i propri misfatti e, inserendoli in un sistema di pensieri e convinzioni coerenti, finiva per giustificarli. Siti ha sempre, pur in misure diverse, fatto ricorso al «ricatto dell’argomento», ovvero a quella perturbante attrazione che un determinato tema esercita sull’acquirente del libro (ancor prima che sul lettore), orientandone in qualche modo la ricezione del testo. Tuttavia se nei romanzi autofinzionali – compreso Resistere non serve a niente in cui l’io assumeva una decisiva funzione testimoniale, facendosi custode dei segreti inconfessabili del protagonista – l’argomento poteva essere di minore impatto (l’omosessualità a pagamento, i culturisti, la collusione con il malaffare finanziario, la pedofilia come estrema perversione e non come desiderio costante), perché l’eco sarebbe poi stata amplificata dalla scandalosa attribuzione all’autore-narratore-personaggio, in Bruciare tutto la scelta di un narratore settecentesco – una terza persona che attraverso le note a pie’ di pagina e brevi intrusioni nel testo dialoga con il proprio personaggio e spiega alcune delle sue scelte compositive – obbliga l’autore a giocare la carta del tabù.

«Il desiderio erotico di cui qui si parla è, più ancora dell’incesto, l’assoluto tabù della nostra epoca». Al coinvolgimento estremo dell’immedesimazione autofinzionale si sostituisce qui un gioco di scarti, in cui il narratore ora condivide, ora invece mette a distanza le debolezze del proprio personaggio («Non posso dirti di volerti bene, ora, anzi provo verso di te un’inticchia di risentimento»). A impedire una integrale assunzione della “colpa” di don Leo è probabilmente la sincerità che Walter Siti ha sempre voluto dimostrare al suo lettore: se nei precedenti romanzi si è attribuito sentimenti, pensieri e azioni che forse non ha veramente compiuto, l’ha fatto perché in qualche modo sentiva che gli potessero appartenere; nel caso della pedofilia, invece, egli riconosce che attribuirsi le pulsioni, i contorcimenti interiori e anche i deliri di don Leo («Inculare un angioletto è il solo gesto rivoluzionario che si possa concepire oggi») sarebbe semplicemente poco verosimile. Per quanto entrambi condividano una concezione della realtà ambigua e radicale, fatta di anticonformismo e risentimento, diverso è il modo in cui in loro si manifesta il desiderio di Assoluto. E questo naturalmente non perché l’autore condanni moralisticamente il desiderio del suo personaggio. Anzi, il ricorso all’argomento tabù per Siti rientra all’interno di un progetto narrativo e poetico che, a un certo punto, ha richiesto di trascendere il ricorso al personaggio “Walter Siti come tutti” per orientarsi su altre, più sfumate controfigure narrative.

Bruciare tutto segna per questo un passaggio decisivo nella produzione romanzesca di Siti, che potrebbe preannunciarne la conclusione così come un rilancio verso orizzonti attualmente non immaginabili. Da più di vent’anni Siti inventa storie per smascherare gli automatismi del pensiero occidentale, per evidenziare le logiche profonde che muovono gli individui verso una pretesa “normalità”, per rimuovere le censure che castrano un desiderio latente o che lo deviano verso pratiche legittimate. Resistere non serve a niente ed Exit Strategy annunciavano l’esaurimento di un paradigma, quello della moltiplicazione iperbolica dei rapporti omosessuali come metafora della ripetizione ossessiva e sterile del consumo, secondo l’idea di «gayzzazione dell’Occidente» esplicitamente formulata in Troppi paradisi. Qui la frustrazione di una passione impossibile anticipa un desiderio apocalittico e purificatore più volte accennato nel corso del romanzo: l’amore di un adulto per un bambino porta con sé il riflesso di una violenza primordiale, di un desiderio di annullamento del progetto umano.

«La creazione stessa è il peccato originale», arriva a dire don Leo. E la sua parabola ne è in qualche modo la dimostrazione: fino alla metà del libro, quando ancora non si fa cenno alla sua pedofilia, egli è l’incarnazione del Bene (o forse incarna l’ossessione del Bene). La sua fede incrollabile in Dio – che gli permette in alcuni casi di sentirne addirittura la voce – e la sua adesione letterale alla morale cattolica sono il carburante di una spinta verso il prossimo che, se non fosse intorbidata dalle incertezze coscienziali a cui abbiamo accesso in quanto lettori, rifulgerebbe nella sua purezza. Don Leo è un’anima candida macchiata da un peccato originale che non si può cancellare se non con una costante disposizione al servizio (e riconosciamo in lui la propensione all’umiliazione e all’autocommiserazione tipica del personaggio “Walter Siti”). Tuttavia, pur essendo riuscito a domare il suo desiderio corrotto, pur avendo fatto trionfare Dio su Satana in quella bagarre interiore che ogni notte si svolge nella sua mente, don Leo finisce per contribuire implicitamente alla morte di un bambino. Il suo rifiuto di fronte alle inconsapevoli avances di Andrea è la goccia che fa traboccare un vaso colmo di disagi, abbandoni e delusioni. Don Leo deve prendere atto del proprio fallimento, perché nessun ottimismo della volontà può smentire una legge di Natura: l’uomo è incapace di distinguere il bene dal male. Chi credeva di poter far coincidere il bene per sé (la repressione del desiderio pedofilo) con il bene per l’altro (la conservazione della purezza di Andrea), si trova di fronte a un male (la realizzazione del desiderio) che avrebbe potuto salvare l’altro da un male peggiore (la morte).

Non mi sembra lontana dal vero l’interpretazione data da Bazzocchi a questo approdo della riflessione di Walter Siti sull’uomo e la società di oggi: c’è infatti un’implicita adesione a una visione leopardiana del mondo, per cui l’universo non si concluderebbe con il genere umano. Il quale ha dimostrato a questo punto di non essere più adatto alla vita o, per dirla con Pasolini, di essere «destinato a essere morto». E non per caso in Bruciare tutto la morte acquista una rilevanza che non aveva mai avuto nelle precedenti opere di Siti: muoiono in tanti, alcuni anche misteriosamente, ma tutti perché hanno dato seguito a una presa di consapevolezza del loro fallimento umano. Quando cadono le maschere e si accetta di vedere finalmente i riflessi della propria condotta, nessuna indulgenza è più possibile: bisogna andare incontro alla propria condanna. E questa condanna, sembra dire Siti, arriva per tutti: «l’umanità è un esperimento sbagliato e l’incarnazione di Cristo un tentativo generoso ma incauto».

Ecco, allora, il vero scandalo di questo romanzo che usa la pedofilia come pretesto per attirarci in una riflessione diabolica, sulla relatività del bene e del male e sull’incapacità dell’uomo di controllare le conseguenze delle proprie azioni. Resistere non serve a niente, aveva avvertito Siti. Il quale oggi ci invita ad accogliere una prospettiva nichilista finalmente giunta a una formulazione priva di ambiguità. È su questo piano, non quello dell’indignazione scandalistica, che bisognerebbe interrogare l’autore e il suo romanzo.


Bruciare tuttoWalter Siti, Bruciare tutto, Rizzoli, Milano 2017, 372pp. 20€