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Dinamiche della sparizione: “Città distrutte” di Davide Orecchio

Filippo PennacchiodiFilippo Pennacchio
30 Maggio 2018
in Letterature
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Dinamiche della sparizione: “Città distrutte” di Davide Orecchio

Domani, giovedì 31 maggio, alle 19.30, presso Volume-Dischi e Libri (Via Paladini 8, Milano), Davide Orecchio sarà in compagnia del nostro Giacomo Raccis e di Filippo Pennacchio per parlare della nuova edizione di Città distrutte (Il Saggiatore 2018).


 

Biografia e romanzo, si sa, sono due generi ben distinti, almeno a livello teorico. Un conto è ricostruire e documentare la vita di persone realmente esistite, un conto è invece inventare e dare forma a personaggi fittizi, che lo si faccia di sana pianta o trasfigurando dati reali. Eppure sappiamo anche, e anzi è persino banale ribadirlo, come nella pratica i confini tra i due generi, e più in generale tra discorso fattuale e finzionale, siano molto labili. Anche gli storici possono attingere a risorse tipicamente appannaggio degli autori di fiction, e viceversa questi ultimi possono manipolare in vario modo la materia storica, al limite prendendo in prestito dagli storici strumenti, forme discorsive e a volte anche il metodo di lavoro.

Il catalogo di questi scambi, e a volte vere e proprie imposture, è ampio e vario, specie su questo secondo versante. Per restare in anni recenti, e solo per fare qualche nome e titolo, si va da HHhH di Laurent Binet, in cui si sceneggia l’attentato a Heydrich del 27 maggio 1942, alle biografie immaginarie raccolte da Roberto Bolaño nella Letteratura nazista in America, passando per il Limonov di Emmanuel Carrère, per il ciclo dei Seven Dreams di William T. Vollmann o – fra gli ultimi in ordine di tempo, e per  limitarci all’Italia – alla Ragazza con la Leica di Helena Janeczek, che ricostruisce narrativizzandola la vita di Gerda Taro.

Anche Città distrutte, il primo libro di Davide Orecchio, è inquadrabile in questa sorta di spazio intermedio, pur presentando notevoli tratti di originalità rispetto ai testi citati e comunque spiccando – al di là del discorso sui rapporti tra storiografia e generi finzionali – come una delle opere più importanti degli ultimi anni.

Pubblicato nel 2011 da Gaffi e oggi ristampato dal Saggiatore con una postfazione di Goffredo Fofi, il suo sottotitolo – Sei biografie infedeli – ne anticipa il contenuto: si tratta di sei testi (ma sulla copertina della prima edizione si poteva leggere “racconti”) che narrano la vicenda di altrettanti personaggi storici, noti e meno noti ma tutti in qualche modo rivisitati, a partire dal nome che viene loro attribuito. Dietro Valentin Rakar, regista russo in esilio a Roma tra 1980 e 1984, c’è Andrej Tarkovskij, il Kauder dell’ultimo racconto è in realtà Wilhelm von Humboldt, Eschilo Licursi è il sindacalista molisano Nicola Crapsi, e poi Pietro Migliorisi è Alfredo Orecchio e Betta Rauch è Oretta Bongarzoni, mentre dietro Éster Terracina si nascondono le molte vittime delle dittature argentine del secondo Novecento. Tutti personaggi per raccontare le cui vite Orecchio agisce apparentemente da storico (qual è di formazione): ci sono le note, che rimandano puntualmente alle fonti consultate; ci sono i documenti – pubblici e privati –, che vengono esibiti e commentati; ci sono le citazioni da testi esistenti.

Tuttavia, ci sono anche gli elementi fittizi, e le libertà che chi racconta si prende. Per esempio, alcuni fra i testi e gli autori citati non sono mai esistiti, come il Patrice Vuillarde autore della Dynamique des Abandons; talvolta i materiali di partenza sono rielaborati. Più in generale, molti elementi sono inconsueti in un contesto biografico: intere parti delle vite raccontate vengono passate sotto silenzio, oppure riassunte al massimo – gli anni srotolati «come se svuotassi un secchio» –; quasi sempre, poi, viene dato spazio ai pensieri dei personaggi, alla loro vita interiore, a volte anche onirica. Siamo con Kauder mentre si strugge lontano dai suoi famigliari, siamo resi partecipi delle scelte che condanneranno Éster Terracina alla morte, o delle immagini che svenendo Rakar intravede. In altre parole, Orecchio ci fa accedere a quella dimensione che per contratto è preclusa agli storici, ovvero alla vita privata dei personaggi biografati, «coi suoi sogni e gli incubi». E lo fa con uno stile teso, denso di metafore, basato su costruzioni sintattiche e procedure discorsive spesso molto elaborate, in cui gli slanci lirici convivono e a volte si mescolano con affondi saggistici e parentesi metanarrative, dove chi racconta s’inserisce per riflettere su quanto sta scrivendo.

In effetti – ed è uno degli elementi più caratteristici del lavoro di Orecchio, qui come nelle sue opere successive – spesso il racconto delle vite dei personaggi di Città distrutte s’interseca con le riflessioni del narratore – che sembra convergere e in parte forse coincide con Orecchio stesso – circa la sua effettiva capacità di dare una coerenza alle esistenze altrui, e più in generale di restituire il senso di vite spesso distantissime anche quando vicine (quelle per esempio di un uomo – Migliorisi – «che è diventato per me il più sconosciuto e insieme il più vicino», o di una donna – Betta Rauch – che al netto di tutte le indagini bio-bibliografiche e addirittura filologiche può essere solo guardata «dal finestrino del mio treno»). In gioco, evidentemente, c’è la problematizzazione della figura dello storico, della pretesa e della legittimità di poter raccontare come le cose sono andate per davvero, e insieme c’è l’imbarazzo dello scrittore di fronte alle vite degli altri, la constatazione che lo scavo nelle fonti, il lavoro di documentazione – per quanto approfondito sia – non può portare a galla alcuna verità. Tant’è che «Adesso basta» si sente gridare contro l’autore-narratore a un certo punto (ma in fondo è un discorso che porta avanti tra sé e sé), «Lei è solo uno scrittore, che per giunta scrive trent’anni dopo i fatti. Noi non ci siamo mai conosciuti, apparteniamo a epoche diverse. Mi lasci in pace. La smetta di torturare la realtà».

È un aspetto, questo, centrale al lavoro di Orecchio, e che lo distanzia da altre operazioni all’insegna della commistione tra storia e finzione, tra biografia e vite potenziali. Il modo in cui sono costruite le storie di ciascun personaggio e il ruolo che Orecchio si ritaglia al loro interno lascia intuire che quella portata avanti in Città distrutte è solo in parte un’operazione parodica. La manipolazione delle esistenze altrui – che per il lettore si traduce nel gusto di conoscere ciò che i libri di storia non dicono – non è un esercizio fine a se stesso, né entra in gioco alcun sottotesto ironico. Orecchio agisce con la massima serietà, senza compiacimento alcuno. Del resto, a imporlo è la materia stessa con cui lavora. A essere messi in scena sono sei personaggi sconfitti dalla storia – non soltanto da quella ufficiale –, che cercano di rimanere in piedi mentre cadono a pezzi come città distrutte. Si potrebbe dire, anzi, che la vera protagonista del libro è proprio la storia, e più in generale lo scorrere del tempo, il modo in cui consuma i personaggi, li tramortisce, li illude offrendo loro una possibilità di riscatto solo per poi atterrarli in maniera se possibile più violenta. Le torture subite da Terracina, il riscatto mancato che Migliorisi cerca allontanandosi da Messina, la stasi in cui vegeta Rakar mentre attende di realizzare un film che non si farà mai, il fallimento politico di Licursi, che dalla provincia si sposta pieno di speranze a Roma «dove non fece nulla se non morire»: tutti personaggi che gradualmente si spengono, resi impotenti di fronte al loro destino; la stessa impotenza che coglierà gli esuli argentini che in Stati di grazia cercano rifugio in Italia, o il Lev Trockj che in Mio padre la rivoluzione scampa all’attentato di Mercader solo per finire i suoi giorni a Coyoacán, in Messico, a tormentarsi sulla piega degli eventi dopo i fatti del 1956 in Ungheria.

Un po’ come nella nuova copertina del libro, una fotografia della serie Impermanence dell’artista coreano Seung-Hwan Oh in cui un ritratto viene eroso dall’azione invisibile di microbatteri, Città distrutte racconta il graduale deteriorarsi di sei vite, il loro sparire nelle crepe della storia, e nel far questo non offre alcun antidoto consolatorio. Se Orecchio mette in scena, o rimette in scena, personaggi “veri” lo fa sì per riscattarli su un piano simbolico – per restituire loro quella dignità che la storia ha negato o che ha solo vagheggiato –, ma anche per mostrare come in fondo una biografia, ovvero il riassunto di una vita, possa ridursi a nient’altro che a un catalogo di tutti gli errori commessi, delle speranze tradite, di quei cambiamenti quotidiani tanto microscopici da sembrare impercettibili ma che invece sono decisivi, perché «Le svolte non avvengono solo nei fiumi sotterranei che travolgono la storia. Sono molto più frequenti le rivoluzioni della vita privata, migliaia di brecce nei percorsi individuali. Un ramo spezzato dal vento, l’urina di un gatto che essicca un robusto tronco d’edera, una persona sparisce dalla vita di un’altra persona».


coverDavide Orecchio, Città distrutte, il Saggiatore, Milano 2018, 266 pp. 20 €

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Tags: biografiaCittà distrutteDavide OrecchioIl Saggiatorenon-fictionraccontiStoria
Filippo Pennacchio

Filippo Pennacchio

Filippo Pennacchio è assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea all’Università IULM di Milano. Ha insegnato – e in parte ancora insegna – nelle scuole superiori. S’interessa in particolare di narrativa moderna e contemporanea e di teorie del racconto. Suoi articoli e recensioni sono apparsi su vari siti web, in riviste e volumi.

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