Lavorare in una campagna elettorale può essere uno schiaffo per un certo uomo dagli orizzonti liberal, studi buoni e avversione per le frontiere nazionali e linguistiche che non sia ben attrezzato al confronto con l’uomo della strada (e soprattutto con il proprio orizzonte di censo). È lo schiaffo che vive Greg Marnier, Marny, protagonista di Esperimento americano, quando si imbarca nella prima campagna elettorale di Obama. Il quartier generale della campagna a Claremont è stereotipicamente «un posto pieno di laureati di Yale con addosso vestiti da pseudo-operai troppo cari: scarponi in cuoio, spessi pantaloni cachi e camicie scozzesi». Ma, benché si parli di Obama, questo scollamento sembra già la sofferenza democratica (e velleitaria) verso l’incompreso tessuto sociale del pre-Trump e verso la propria inettitudine.

Ma le case erano modeste e fatiscenti, e prima di riuscire a bussare alla porta dovevamo affrontare brutti cani rabbiosi. Chi viveva in quelle case era il genere di persona che non avrebbe votato per un nero, e neanche per un mulatto. Sui media avevo sentito un gran parlare della scaltra operazione di Obama per accaparrarsi la base dell’elettorato, ma in genere, riuscivamo solo a fare incazzare la gente. Un’automobile piena di laureati di Yale che se ne vanno in giro a chiedere: Che cosa la preoccupa di queste elezioni? Possiamo aiutarla a capire qualcosa?

Esperimento americano è in effetti uscito in Usa nel 2015, l’anno prima dell’elezione di Trump. Da qualche mese in Italia per 66thand2nd, il romanzo è di Benjamin Markovits, vissuto tra Texas ed Europa, autore di altri sei romanzi, di cui soltanto un altro è apparso in Italia, Un gioco da grandi (2012).

Marny, eppure, era un ragazzino di provincia, un ragazzino di provincia di Baton Rouge che giocava a Dungeons & Dragons e tagliava l’erba d’estate per sei dollari l’ora, un ragazzino che ha studiato storia a Yale e ha preso un dottorato a Oxford «facendosi strada nel mondo. Ma dopo il dottorato», dopo-il-dottorato si guadagna da vivere come assistente a Londra e poi come supplente per sostituire una maternità in una cittadina gallese di nuovo in provincia, insomma, si diceva, dopo il dottorato «niente sembrò più funzionare». Marny si sente di incarnare la sorte di tutti i suoi vecchi coetanei e forse di una classe intera.

Diverse decisioni mi avevano portato qui, e non soltanto decisioni ma anche molta fatica e persino un po’ di fortuna. I miei compagni di college, con qualche eccezione, sembravano essere sulla stessa barca. Lavoravano più di quanto volessero, guadagnavano meno, e vivevano dove non volevano vivere.

Il vero innesco del romanzo è una cena tra questi ragazzini di provincia, una cena tra vecchi amici del college chiamati a fare inevitabili paragoni tra le proprie fortune. Nel revival universitario (e nella sbronza) si consuma il ritrovo tra Marny e il ragazzo che invece se l’è cavata, Robert James, superstite dell’American Dream e con la stessa aria dei suoi nuovi testimonial.

“Mi hanno detto che hai fatto i soldi” dissi a Robert.

Dal modo in cui era vestito non si sarebbe detto: maglietta North Face, mocassini, un paio di blue jeans con cintura a vita alta. Ma con lui il look non contava molto. Al college lo chiamavano il dio greco, aveva il viso di una di quelle statue antiche. C’era un che di impersonale in lui. Non si riusciva mai a capire che cosa stesse pensando, e con questo non intendo dire che fosse particolarmente intelligente.

“Me la sono cavata”.

 Il bilancio del tempo passato si misura nella memoria della propria capacità di recuperare le sbornie e a Marny, dopo la cena tra ex-universitari e il re-incontro con Robert, nasce la sensazione, «qualcosa di simile a un mal di schiena», di lasciare l’Europa e tornarsene a casa. Marny è una rigurgitata promessa dell’accademia, di famiglia agiata e di cultura progressista (per quello che in America vuol dire) che si muove assecondando una coscienza mai del tutto lucida su di sé e sul definitivo ingresso nella vita adulta: «non sarei tornato in Europa, questo almeno mi era chiaro». Marny anche quando decide di rinunciare all’Europa, al suo impiego e allo stato sociale, lo fa in sordina, o con una certa remissività a quanto sembra inevitabile, così come quando Hillary Clinton, di cui fa il volontario per la campagna elettorale, lo incontra e gli chiede «che cosa fai in questi giorni?» e lui risponde troppo preparato «aspetto l’occasione buona». Mentre aspetta la sua buona occasione, Hillary però perde e così lui si imbarca, appunto, nella campagna per Obama. Lì incrocia di nuovo Robert che lo coinvolge in un progetto di gentrificazione: offrendogli una casa a Detroit.

“Nessuno vuole trasferirsi lì da solo, ma si può usare internet, si può usare Facebook – sto parlando di una specie di modello Groupon di gentrificazione. La questione però” disse “è chi ci andrebbe a vivere e che cosa farebbe una volta lì? Sono quartieri in cattivo stato. Stiamo parlando in sostanza di una zona di guerra, in piena America, non sto scherzando. La gente brucia le case, e non solo per l’assicurazione. Il mio amico Bill Russo mi ha portato a farci un giro. È come girare per Londra dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. La città ha abbandonato certi isolati; i pompieri non ci vanno più. Ma ci sono ancora case grandi e bellissime disabitate. Se ne può fare quello che si vuole, aprire qualsiasi tipo di associazione”.

Detroit. Nello stemma della città è scritto: Speramus meliora, resurget cineribus. Sopra, nel disegno al centro della bandiera, si vedono due donne. A sinistra una donna addolorata, col capo coperto e alle sue spalle edifici che bruciano. A destra un’altra donna che allunga un braccio per consolarla, dietro di lei la città è ricostruita. Lo stemma fa riferimento all’incendio del giugno 1805, quando Detroit bruciò tutta per la prima volta e per la prima volta fu ricostruita. Bruciò una seconda con gli scontri razziali del 1967, che annunciavano una crisi urbana e sociale, cronica dagli anni Settanta. Da allora Detroit ha visto un costante svuotamento del centro città, il tracollo economico e annunciati rinascimenti, costellati da progetti di gentrification. Fino al 2013, quando è stata la prima città a dichiarare fallimento negli Stati Uniti. Come l’enorme Michigan Central Station, cattedrale dell’abbandono, molti edifici del centro sono vuoti e in rovina: c’è un libro che li racconta, Detour in Detroit di Francesca Berardi.

Detroit da quell’incendio fondativo è caduta e risorta più volte, ma “risorgerà dalle ceneri” sembra piuttosto un monito e Markovits, come un reporter, ne esplora la crisi e, dentro, tenta di affrontare la crisi di una classe anagrafica, sociale e culturale: l’esperimento americano è quello di Marny che insegue un proprio rinascimento – più assecondando la sorte che ricercandolo – unendosi all’iniziativa di questi novelli coloni che riparano villette liberty bruciate e occupano quartieri abbandonati. Una spedizione tra le ceneri del sogno americano, che a Detroit era tutto industria automobilistica; un nuovo mito della frontiera.

Esperimento americano prova allora a divenire romanzo corale, intrecciando alla vita del protagonista quella di altri cercatori d’oro, amici di amici, manipolo al seguito di quel Robert che somiglia al miliardario Dan Gilbert che oggi rimette a nuovo i quartieri del centro di Detroit per affittarli a start-up. Nel romanzo i protagonisti si auto-organizzano, cooperano, addirittura costruiscono quella che è una sorta di fattoria urbana. È un’utopia dai tratti talvolta consociativi, se non socialisti, che cresce a lato però di una rete di affari tra Robert e, addirittura, il leviatano Goldman Sacks. È una versione eco-liberal del Sogno, benedetta dalla voce di Obama stesso.

“Siete venuti qui perché sentivate una voce in testa che ripeteva: Perché vivere così? Si può vivere meglio. Questa è la voce che per circa quattrocento anni ha attirato persone in America. E adesso chiama noi…” e così via.

La scena peraltro si ambienta in un vecchio stabilimento della General Motors, riconvertito in spazi per uffici. Qui il polittico di gente che aspetta il discorso del presidente è vario: uomini eleganti, ragazzi in jeans e ragazze in tacchi e jeans, uomini d’affari – «qualche tizio da hedge fund», il giro di Marny, una ragazza tedesca, Astrid, che proietta il video Una conversazione sullo stupro, Sean Penn e «una spolverata di facce nere».

Perché l’esperimento è di fatto e ancora una spedizione colonialista.

Marny arriva infatti a Detroit con un fucile a pompa Remington, per precauzione. Quando il commesso dell’armeria gli chiede per quale uso gli serva, risponde non a caso: “Caccia alle anatre”. Quel fucile, spauracchio in una tra le città più violente degli States, diventa ben presto l’emblema di un nuovo mal celato colonialismo, nascosto sotto il sedile dell’auto. Detroit dal ’70 è a schiacciante maggioranza nera ma Greg Marnier e gli altri nuovi arrivati sono tutti bianchi. Ciò che si apre è un inevitabile conflitto sociale e razziale, che da principio è misura reciproca dello straniero, poi diventa ‘tolleranza’ fragile e apparente.

“È un’artista (Astrid, la videoartist tedesca di sopra) molto scadente”.
“Ci credo”.
“Fa video. Ha fatto un video sui rapporti tra razze a Detroit.
“Credo anche a questo”.

 Marny però si fidanza con Gloria, una maestra nera e diventa amico di Nolan, un ragazzo nero vicino di casa che vive con la madre: è un’amicizia che cresce lentamente e sempre conflittuale, tra il nero incazzato e il bianco stinto di un certo politically correct, in cui Marny non si riconosce consapevolmente ma che finisce per essere un suo marchio di classe.

Una scazzottata finita male, di cui Marny sarà timido partecipe, scoperchierà finalmente il conflitto razziale (e sempre sociale) e l’incapacità di Marny di prendere una parte, di decidere da quale lato di Detroit stare.

Tony mi ha parlato di questo Nolan. Dice che ha una personalità molto forte.”
“Perché non lo dici? È un nero incazzato”.
“Oh, smettila, Marny. Hai la ragazza nera e adesso prendi le parti di tutti i fratelli?”
Non so perché ma l’affermazione mi fece arrossire. “Vaffanculo, Robert, dissi”.

Il romanzo è un tentativo meditato di raccontare il coacervo di conflitti che si dipanano al procedere dell’esperimento americano: il mito della frontiera e della promised land, un riappropriato Sogno Americano che – come per la fiorente Detroit degli anni ’50 – però è tutto bianco; i tentativi di Marny di costruire una routine che sia all’altezza di quel sogno, di coltivare relazioni e un amore in una città che in fin dei conti si rivela estranea. Potrebbe essere la versione romanzata di un saggio sulla gentrification eppure l’esperimento letterario non riesce, quel romanzo corale diventa troppo spesso un confuso incrociarsi di personaggi innumerevoli che talvolta dimentichiamo; la trama si sbiadisce nel tentativo complesso di animare strade e quartieri di una Detroit straniera e non addomesticabile.


markovitsBenjamin Markovits, Esperimento americano, 66thand2nd, Roma 2017, 376pp. 18€