[Iniziamo oggi la pubblicazione di un lungo articolo di Marco Malvestio dedicato a Yuklio Mishima, che proseguirà in altre due puntate. L’illustrazione di copertina è di Domenico Gregorio]


 

Tra i diciassette e i diciotto anni ho letto voracemente tutte le opere di Mishima su cui sono riuscito a mettere le mani, che poi sarebbe a dire i due Meridiani Mondadori e qualche altro libro vagante (un paio di romanzi brevi, i drammi Nō), e i vari pamphlet para-politici Sole e acciaio, Consigli spirituali per giovani samurai, e così via. A quell’età, come in parte ancora adesso, i miei consumi culturali erano regolati dalle due divinità del caso e della pretenziosità adolescenziale: per caso, sfogliando qualche quarta di copertina e qualche pagina di Wikipedia, ho scoperto chi fosse Yukio Mishima, e, affascinato, mi sono pretenziosamente fatto regalare i Meridiani. Manifestandosi la mia ansia di completezza prima di tutto come pignoleria, li ho letti dall’inizio alla fine, dall’introduzione alle note.

Ho amato i libri di Mishima come non mi era capitato con nessun autore prima, e come raramente mi è capitato dopo – facendoli oggetto di quella lettura vorace che non viene dal bisogno di scrivere o parlare di quello che si legge o di distillarlo in saggi e lezioni, bensì dall’ansia folle di perdersi nella seduzione di una frase, come diceva William H. Gass. Se certamente il fascino della cultura giapponese ha fatto la sua, e il personaggio di Mishima anche, offrendomi la possibilità vanitosa di illustrarne agli altri ambiguità e controversie, credo che la mia passione per il suo lavoro venga dal fatto di avere rappresentato per me non solo uno dei primi incontri con la letteratura nella sua forma più alta – la letteratura come specchio del mondo e delle sue contraddizioni, come resa perfetta di ogni movimento dell’animo umano – ma anche con dei personaggi con cui riuscissi a identificarmi davvero. I giovani turbati dei primi romanzi di Mishima, i personaggi crudeli e cinici, mi offrivano tutti in un modo o nell’altro uno specchio di quello che ero o di quello che sentivo avrei potuto essere: Mishima, la persona di Mishima, mi si presentava come tale.

Pignoleria, dunque: ma anche, essendo io superficiale, bulimia. Ho divorato i libri di Mishima uno dopo l’altro con una tale fretta che nella mia memoria si sono confusi, e ho conservato il ricordo di averli letti, ma non di quello che c’è dentro. Di Colori proibiti, per esempio, che per anni ho detto essere il mio libro preferito, non saprei ricordare il contenuto, se non a linee vaghissime (qualche scena di battuage, la morte della moglie del protagonista verso il finale – o era la nascita del loro figlio?). Mi succede spesso, in realtà, anche con libri che ho sottolineato, appuntato, con drammi che ho recitato, con poesie che ho mandato a memoria – con poesie che ho scritto: quindi forse è un problema di memoria, prima che di superficialità. Lo spettro di Mishima, tuttavia, a differenza delle trame dei suoi romanzi, non mi ha mai abbandonato: e l’impressione che di lui esce dai suoi libri, l’impressione che offrono i suoi personaggi, ovvero di qualcuno il cui sguardo è sempre divaricato in uno strano strabismo, un occhio posato sulla recita che sta facendo e che il pubblico crede essere la sua vera vita, e l’altro invece a cercare freneticamente dentro di sé e nel mondo una verità da opporre a quella recita, è rimasta sempre con me come un’ombra.

Un paio di anni fa mi sono avvicinato al buddismo: dopo saltuarie ma avide letture condotte negli anni universitari, ho finalmente cominciato a frequentare il centro di tradizione tibetana Tara Cittamani, a Padova. Anche se sarebbe una bugia dire che sono un praticante assiduo, non posso negare che la meditazione mi abbia aiutato a guardare molte cose da un punto di vista nuovo, e che mi abbia portato a familiarizzare con dei concetti a cui prima non davo molta importanza. Tra questi c’è la reincarnazione: e proprio pensando alla reincarnazione ho deciso di intraprendere la rilettura di quei libri di Mishima che ricordavo meglio, ma il cui significato sentivo essermi sfuggito quando li ho letti la prima volta, e cioè la tetralogia de Il mare della fertilità, la cui appartenenza al canone dei grandi capolavori dello scorso secolo è, secondo il mio amico William T. Vollmann, sempre più ovvia[1].

I.

Il mare della fertilità è una serie di quattro romanzi scritti tra il 1965 e il 1970, di cui Mishima consegna l’ultima pagina il giorno del suo suicidio. In questi quattro romanzi, Honda, prima comprimario e poi, negli ultimi due, vero protagonista, insegue la reincarnazione del suo amico Kiyoaki, il delicato e sensibile aristocratico al centro di Neve di primavera, che si reincarna nell’estremista nazionalista Isao in A briglia sciolta (o Cavalli selvaggi nell’edizione Feltrinelli), nella principessa thailandese Ying Chan in Il tempio dell’alba e in Toru, l’orfano cinico e crudele di La decomposizione dell’angelo. Nelle millesettecento pagine de Il mare della fertilità si ritrovano il Bildungsroman (di Kiyoaki e di Isao, ma anche di Honda), la saga familiare e il romanzo filosofico in un arco temporale che va dal 1912 al 1974.

Neve di primavera si apre nel 1912, pochi anni dopo la trionfale vittoria giapponese contro i russi e l’invasione della Manciuria: in un momento, quindi, di grande prestigio del Giappone imperiale, dove si scontrano la volontà di preservare le tradizioni e la smania di occidentalizzazione dell’aristocrazia giapponese – tra cui spicca la famiglia di Kiyoaki, i Matsugae. Di segno opposto all’intraprendenza calcolatrice del padre, Kiyoaki è invece romantico e sognatore, e desidera vivere solo per assecondare le proprie passioni: «Aveva stabilito che la vita non avrebbe mai infangato le sue belle e candide mani, che queste non si sarebbero mai ricoperte di calli. Come una bandiera, avrebbe vissuto solo per il vento. Credeva in una sola verità: quella di vivere soltanto per “emozioni” inarrestabili, insensate, che si animassero al pensiero della morte, che si infiammassero di fronte al decadimento, senza meta né conseguenze»[2]. Al centro di Neve di primavera è infatti la storia d’amore di Kiyoaki e Satoko, sua amica d’infanzia, unica figlia della famiglia degli Ayakura, impoverita ma gerarchicamente superiore ai Matsugae. La reciproca educazione sentimentale di questi due adolescenti è descritta con una delicatezza e una minuzia di particolari che rispecchia l’artificiosità dei riti aristocratici del Giappone imperiale (nonostante i vestiti all’occidentale, i giri in automobile e i film tratti dai romanzi di Dickens che si proiettano alle feste): e Kiyoaki, che alterna vanità e passione disperata, ricorda da vicino Julien Sorel. Infatti Kiyoaki, per orgoglio, rifiuta la mano di Satoko quando il padre cerca di combinare un matrimonio tra loro, ma, quando viene poi promessa sposa al principe imperiale Toin, ingaggia con lei una relazione clandestina che porta a una gravidanza. Satoko, nascosta da sguardi indiscreti in un monastero buddista, decide infine di prendere i voti e di diventare monaca a sua volta, mentre Kiyoaki cerca disperatamente di avere un ultimo colloquio con lei, fuggendo da Tokyo per raggiungere il monastero isolato. È pieno inverno, e le richieste di Kiyoaki di vedere Satoko incontrano tutte il rifiuto di lei: e Kiyoaki, come per dimostrare di essere degno della prova che gli viene richiesta, aspetta imperterrito nella neve, prendendo una polmonite.

Honda, in questo romanzo, è ancora un personaggio di sfondo, l’amico più serio e studioso di Kiyoaki che rappresenta già quello che incarnerà per tutta la tetralogia, ovvero l’osservatore esterno della Storia, che non si lascia contaminare dalle passioni e si limita ad assistere agli eventi. Anche se in Neve di primavera supporta Kiyoaki e lo aiuta economicamente quando questi deve lasciare Tokyo all’insaputa dei suoi, Honda rimane sempre estremamente lucido. Sul suo letto di morte, Kiyoaki promette a Honda: «Ho appena fatto un sogno. Ci rivedremo. Ci rivedremo di certo. Sotto la cascata!» [3].

«Due giorni dopo essere rientrato a Tokyo, Matsuagae Kiyoaki moriva. Aveva vent’anni»[4]: con queste parole si chiude Neve di primavera. Nel 1932, all’inizio di A briglia sciolta, Honda è diventato giudice – una posizione prestigiosa per la sua età – ma conduce una vita priva di emozioni, immerso in una routine ripetitiva e in un matrimonio confortevole ma privo d’amore. Quando, per ragioni professionali, si ritrova ad assistere a un torneo di kendo, Honda rimane ammirato dalla forza di uno dei combattenti, Isao Iinuma, figlio del geloso tutore di Kiyoaki. Iinuma, un giovane di campagna che aveva avuto la possibilità di elevare la propria condizione sociale grazie alla benevolenza dei Matsugae, ricambiandoli tuttavia con gelosia e disprezzo, e cacciato infine dal palazzo per una tresca con una cameriera (relazione favorita, peraltro, proprio da Kiyoaki), rappresentava, in Neve di primavera, la sola voce di protesta contro i costumi occidentali dell’aristocrazia giapponese, appellandosi invece alle tradizioni e al culto solare della casa imperiale, e si è trasformato in A briglia sciolta in un ideologo della destra nazionalista – benché, almeno in parte, in malafede. Honda riconosce in suo figlio Isao l’incarnazione di Kiyoaki, spiandogli durante un’abluzione rituale presso una cascata tre nei identici a quelli dell’amico e ricordando le parole da lui pronunciate in punto di morte.

La passione che permea l’esistenza della reincarnazione di Kiyoaki non è più quella amorosa, ma politica: Isao, ispirato dalle idee del padre e dal libro Storia della Lega del Vento Divino, che racconta le azioni di un gruppo di samurai che nel 1876 tentò un colpo di stato suicida per opporsi all’occidentalizzazione del Giappone, ha infatti fondato un nucleo terroristico. L’obbiettivo di Isao non è, naturalmente, la presa del potere, bensì lanciare un segnale al Paese: e infatti il piano è che, dopo avere ucciso i principali banchieri e industriali del Giappone, i congiurati compiano il suicidio rituale. Dopo avere cercato la connivenza di un ufficiale dell’aviazione e la protezione di un principe imperiale (lo stesso principe Toin che avrebbe dovuto sposare Satoko), una delazione del padre porta all’arresto di Isao e dei suoi.

Quello che rende A briglia sciolta il romanzo, se non più bello, certamente più intenso della tetralogia è il personaggio di Isao, in cui non è difficile pensare che Mishima si identificasse profondamente: Isao è un puro, e la sua purezza lo isola tanto dai suoi compagni quanto, soprattutto, dagli adulti. D’altra parte, la sua non è una purezza ottusa, sigillata in una fede cieca alla causa, ma attraversata da ampi e costanti dubbi, e insidiata continuamente dall’ambiente in cui vive. In un modo o nell’altro, tutti tradiscono Isao: il padre lo denuncia, il tenente, fiutando il pericolo, si fa trasferire in Manciuria, il principe rifiuta la propria partecipazione, e Makiko, la donna che Isao ama, mente in tribunale per difenderlo a dispetto della sua volontà di ricevere una pena esemplare. Honda difende Isao e riesce a farlo assolvere, ma, una volta in libertà, Isao non rinuncia al suo proposito e uccide nella sua suntuosa residenza il banchiere Kurahara, per poi commettere seppuku:

Isao trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi: prese a tastarsi l’addome con la mano sinistra e vi premette contro la punta dell’arma, che teneva ben salda nell’altra mano; poi, dopo aver guidato la lama con le dita della sinistra verso il punto giusto, la affondò nella carne con quanta forza aveva. Nel preciso istante in cui il pugnale gli squarciò il ventre, dietro le sue palpebre il disco solare si levò immenso e radioso all’orizzonte[5].

Isao, come Kiyoaki, muore a vent’anni.

Il tempio dell’alba si svolge tra il Giappone, la Thailandia e l’India tra il 1940 e il 1952. Come le dimensioni e l’ambizione totalizzante testimoniano, per Il mare della fertilità Mishima adotta come modello il grande romanzo familiare della letteratura europea:

A partire dal 1960, ho cominciato a pensare che prima o poi avrei dovuto scrivere un romanzo davvero lungo. Ma per quanto ci rimuginassi, non riuscivo a pensare a un romanzo epico che avesse una ragione di esistere completamente diversa da quella dei grandi romanzi occidentali del diciannovesimo secolo. Prima di tutto, ero stanco di tutti quei romanzi cronachistici che si limitano a seguire ciecamente il tempo cronologico. Volevo invece qualcosa in cui il tempo procedesse a balzi, dove un tempo differente desse luogo a una narrazione differente, e dove tutto finisse per creare un grande cerchio. Volevo scrivere quell’opera in grado di spiegare il mondo sulla quale avevo riflettuto continuamente da quando ero diventato uno scrittore[6].

D’altra parte, come ha notato Marguerite Yourcenar, mentre nel romanzo familiare la fissità spaziale (quindi l’insistenza non solo sul luogo geografico preciso, ma sulla dimora stessa della famiglia protagonista) serve a controbilanciare la dispersione cronologica, l’espediente della reincarnazione permette a Mishima di spostare la scena del romanzo tanto in senso geografico quanto a livello di rappresentazione delle classi sociali[7]: la terza reincarnazione di Kiyoaki, infatti, è una principessa thailandese, anticipata tanto dalla visita a casa Matsugae di due principi siamesi in Neve di primavera quanto dal sogno che Isao fa in prigione di trasformarsi in una donna.

Honda incontra Ying Chan nel 1940, durante un viaggio di lavoro, quando la principessa ha solo sette anni. Ying Chan, la figlia di uno dei due principi ospitati dai Matsugae in Neve di primavera, dimostra di conoscere Honda e di ricordarsi di lui, afferma di chiamarsi in realtà Isao e gli chiede di essere riportata in Giappone. Honda si sposta quindi in India, dove rimane affascinato dai violenti e misteriosi rituali della religione indiana, a cui tuttavia non partecipa, e rientra infine in Giappone allo scoppio della guerra con gli Stati Uniti, assistendo con indifferenza allo svolgersi del conflitto e ai bombardamenti di Tokyo. La seconda parte del romanzo è ambientata invece nel 1952, quasi interamente nella splendida villa di campagna di Honda. In Il tempio dell’alba la pazienza e l’osservazione imparziale che hanno caratterizzato finora Honda si tramutano in un voyerismo squallido: quando rincontra Ying Chan, trasferitasi in Giappone, Honda è ossessionato dalla sua bellezza e dal pensiero che sia la reincarnazione di Kiyoaki, e, per individuare sul suo corpo i tre nei che la confermerebbero come tale, desidera a tutti i costi vederla nuda. Dopo avere costruito una piscina nella sua nuova casa di campagna quasi col solo scopo di poterla osservare in costume, Honda arriva ad architettare con la dissoluta Keiko, di cui Ying Chan si rivelerà essere amante, un piano per guardarla fare l’amore con il nipote di lei, che quasi la stuprerà. Il romanzo si chiude con l’incendio della nuova casa di Honda, che causa la morte di due dei suoi ospiti, e il rientro di Ying Chan a Bangkok: tempo dopo, Honda verrà a sapere che la principessa è stata uccisa, ventenne, da un morso di serpente.

Nel quarto e ultimo romanzo, La decomposizione dell’angelo, ambientato nei sempre più americanizzati e consumistici anni Settanta, in cui la cultura giapponese è ridotta a cartolina turistica, Honda sceglie come proprio erede Toru, convinto che si tratti della terza reincarnazione di Kiyoaki, un orfano di rara intelligenza che lavora come vedetta e segnalatore portuale nella penisola di Izu, incontrato per caso durante una gita con Keiko. Una volta adottato, Toru si rivela essere un ragazzo cinico e manipolatore, e i suoi comportamenti verso Honda, i suoi tutori, le domestiche e la fidanzata sono dettati da un odio irrazionale e da un perverso senso di superiorità. Dopo che l’abitudine di Honda di spiare le coppie nei parchi pubblici diventa oggetto di un articolo scandalistico, Toru fa interdire il patrigno, ma Honda conserva la propria calma: se Toru è la reincarnazione di Kiyoaki, infatti, è destino che muoia a vent’anni, liberandolo così dalla sua presenza minacciosa. Keiko, insofferente al comportamento crudele di Toru e convinta che lui non sia affatto la reincarnazione di Kiyoaki, gli rivela la vera ragione per cui Honda lo ha adottato – non per le sue qualità, dunque, ma perché legato a una storia (o a una fantasia) che non gli appartiene e sulla quale non ha alcun controllo. Umiliato, Toru decide di fare avverare la profezia commettendo suicidio, ma fallisce – e, come ha scritto Yourcenar, «per un uomo che, mentre scriveva, stava meticolosamente preparando il proprio seppuku con due o tre mesi di anticipo, il suicidio fallito di Toru doveva essere senza dubbio la disgrazia peggiore da infliggere a un personaggio»[8].

Toru, reso cieco dal veleno col quale ha cercato di uccidersi, passa le sue giornate in uno stato di completa apatia, in compagnia della sua unica amica, una malata di mente morbosamente obesa che andava a trovarlo quando lavorava al porto e di cui Toru accettava l’amicizia per il solo piacere di esercitare il controllo su di un altro essere umano. Scoprendo di avere fallito nell’individuare la quarta reincarnazione dell’amico Kiyoaki, e rendendosi conto che la vera reincarnazione deve nascondersi da qualche parte del mondo che a lui, quasi morente, non è più dato di trovare, Honda cerca una conclusione alla propria parabola tentando di incontrare Satoko, ora badessa del monastero dove aveva preso i voti quasi sessant’anni prima. Ma Satoko, a colloquio con Honda, non dà segno di riconoscerlo, né di ricordarsi di Kiyoaki Matsugae:

“No, signor Honda, non ho dimenticato nessuno degli affetti che mi appartennero nel mondo da cui lei viene. Ma temo proprio di non avere mai sentito il nome di Matsugae Kiyoaki. Non potrebbe essere, signor Honda, che questa persona non sia mai esistita? Lei sembra così sicuro di averlo conosciuto, ma non ha mai pensato che potrebbe non essere mai apparso su questa terra? Mentre prima la ascoltavo, non ho potuto fare a meno di formulare questo pensiero”.
“Ma allora perché io e lei ci conosciamo? E poi, gli Ayakura e i Matsugae avranno conservato dei documenti di famiglia”.
“Sì, certo, tali documenti potrebbero risolvere i problemi nel mondo a cui lei appartiene. Ma lei davvero ha conosciuto una persona di nome Kiyoaki? E può affermare con certezza che noi due ci siamo già incontrati prima di oggi?”.
“Ma io ricordo perfettamente di essere venuto qui sessant’anni fa”.
“La memoria è uno specchio capriccioso. A volte ci mostra immagini così distanti e confuse da non riuscire neanche a distinguerle, altre volte così vicine che ci sembra di poterle toccare. La memoria è lo specchio delle illusioni”.
“Ma se fin dall’inizio Kiyoaki non fosse esistito… […] Se Kiyoaki non è mai esistito, allora non sono esistiti neppure Isao, Ying Chang, e, chissà neanche io stesso”.
Per la prima volta gli occhi della badessa lo fissarono con forza.
“Anche questo dipende da come si configura in ogni cuore”[9].


 

[1] William T. Vollmann, Kissing the Mask. Beauty, Understatement and Femininity in Japanese Noh Theater (New York: HarperCollins, 2010), p. 318.

[2] Mishima Yukio, Romanzi e racconti. Volume secondo 1962-1970, a cura di Maria Teresa Orsi (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2006), pp. 224-225.

[3] Ivi, p. 596.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 1123.

[6] Mishima in Damian Flanagan, Yukio Mishima (London: Reaktion Books, 2014), p. 185. Traduzione mia.

[7] Marguerite Yourcenar, Mishima: A Vision of the Void (Chicago: Chicago University Press, 2001) [prima edizione 1980], pp. 74-75.

[8] Ivi, pp. 89-90. Traduzione mia.

[9] Mishima, Romanzi e racconti, pp. 1746-1747.