Per parlare di Granada dovrei cominciare descrivendo come il fiume Darro si immette nel Genil, dopo aver disceso i pendii della Sierra Nevada; o evocare l’anno 1492, quando cade l’ultimo regno moro nell’Europa occidentale e i sovrani cattolici impongono la croce su al-Andalus, decidendo di aspettare il Giudizio Universale in una cripta nel centro urbano; o citare i versi di García Lorca, inscindibili da questa terra e dalle sue tradizioni. Ma non lo farò, e racconterò come per me questa città coincida con la responsabilità della bellezza. Perché per ogni persona che viene a trovarmi mi addosso il peso del suo gradimento. Allora è tutto un ingegnarmi a pensare i percorsi migliori, a seconda delle ore del giorno e del giorno della settimana, in modo che la loro combinazione ricopra per intero i punti di interesse della città, distribuendone i segmenti nel tempo a disposizione.

A Granada mi trasformo in cicerone di una città estranea, in satellite di un pianeta che non è il mio: per quanto mi tuffi nei suoi vicoletti e nei suoi locali, nei suoi teatri e nei suoi ritmi, resterò il forestiero, colui che porta nella città un punto di vista altro. Per esempio non ho ancora assimilato l’abitudine di trascorrere un’ora del pomeriggio, del crepuscolo o le prime ore buie d’inverno, intingendo churros in una cioccolata calda. Non è solo che non mi piacciano, ma mi stupisce che alle otto di sera i bar siano affollati di avventori che ingollano queste leccornie, tutt’altro che leggere. Così come non ho preso l’abitudine di troncare le parole, per amalgamarle in un impasto-frase che solo l’orecchio allenato può decodificare (salvo con i granadini di età avanzata che attaccano bottone alla fermata dell’autobus e che guardo incredulo come uno svedese).

Mi perdonerà il lettore se ancora non ho detto nulla sulla città, come se fosse una pura invenzione. Allora alcune indicazioni pratiche: se passate da queste parti, fate in modo di passarci almeno il sabato, perché molte ville moresche sono aperte gratuitamente. Di queste vi resteranno impresse la vasca al centro del patio, i colonnati non imponenti, le decorazioni in legno o in gesso che ripetono motivi geometrici. Ma fate in modo di passarci anche a metà settimana, per esempio di mercoledì, per vedere i locali non ancora presi d’assalto, il tran tran rilassato. Naturalmente non potete perdere la notte: non tanto quella chiassosa del weekend, quanto quella più in ombra dei giorni feriali, dove anche le terrazze più attraenti si spogliano di quella folla umana che le caratterizza e vi invitano a godere un bicchiere di vino con limone o una vista che i cellulari non potranno fotografare.

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Ogni momento è buono per venire a Granada. Ve ne renderete conto voi stessi. Anche solo per il piacere di passeggiare nelle prime ore del mattino imboccando le salitine tortuose del quartiere bianco sulla collina, quando è ancora deserto. Non sto parlando dei lillà abbondanti che aprono improvvise cascate nei vicoli, ma il semplice gusto di perdersi in mezzo a bovindi di legno e finestrelle decorate, tra stipiti orientali e ciottoli scivolosi, che ripetono in bianconero il motivo del melograno (in spagnolo “granada”), mentre si segue un muro che apre improvvise vedute sui dintorni.

A proposito di città mi è tornato in mente un discorso che Bolaño pronunciò a Caracas poco prima di morire, dove imperniò i primi paragrafi su come da bambino invertiva le capitali del Venezuela e della Colombia, affermando che – per coincidenza della prima lettera – sarebbe più logico che Caracas fosse quella colombiana e Bogotà quella venezuelana, mentre di fatto è il contrario e lo scrittore è cresciuto frustrato da una geografia ballerina. Così certi trucchetti per fissare Granada sulla carta sono votati al fallimento: è vero che si trova a sud, ma d’inverno è come se si spostasse a nord per il clima rigido dovuto all’altitudine; si trova a ovest ma certi quartieri vi portano a Levante, per la massiccia presenza araba ancora in vista. Non ha nulla da spartire con il nostro Rinascimento, ma il palazzo di Carlo V è un brillante esempio di architettura cinquecentesca. Nessuno immaginerebbe di trovarvi alcuni scorci francesi, ma la Gran Vía è stata costruita al principio del Novecento sul modello di alcuni palazzi haussmanniani. Eppure alle spalle della Gran Vía si staglia l’abside della cattedrale, affiancata dalla cappella reale e dalla madrasa. Ciononostante sarebbe errato farsi l’idea di una città priva di identità: la sua impronta la distingue dalle vicine Cordoba e Siviglia: la prima racchiude le favolose vestigia dell’unico califfato impiantato in Occidente, dove Averroè commentava Aristotele allietato, così racconta Borges, dall’ombra degli aranci e dal mormorio del fiume; la seconda è la patria del Don Giovanni e della Carmen, la capitale della regione e l’epicentro di una andalusità focosa.

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Finora non ho detto nulla dell’Alhambra, ma per rendere l’idea dovrei fare come quel personaggio di Carver che disegna una cattedrale perché il suo ospite cieco possa, calcando la matita insieme a lui, farsi un’idea di quello che è una cattedrale. Purtroppo non sono bravo a disegnare. Nemmeno i numeri possono aiutarmi: perché sapere quanti giardinieri si prendono cura dei suoi giardini è del tutto irrilevante mentre la state guardando da un belvedere prospiciente. O il numero di stanze, di fontane e di stucchi. Né sapere i percorsi che le gallerie sotterranee compongono per offrire una via di fuga agli antichi residenti in caso di assedio. Né immaginare l’ingresso di Carlo V nel suo palazzo rinascimentale che vi fece costruire al centro, quadrato fuori e con un colonnato ellittico dentro. Né il colore rosso di cui si accende la sera dopo che il sole è calato, o lo stacco fra l’illuminazione notturna e il contorno nel buio. Tutto questo può suggerire al lettore la meraviglia di un simile monumento, ma il bello dell’Alhambra non è la sua eccezionalità, quanto che la sua stazza si mescola a quello che Celati ha descritto come «tutta la nuvola del niente di speciale che ogni giorno ci avvolge».

Il piacere di indugiare mi porta a stiracchiare queste note, come una passeggiata che si vorrebbe allungare. Dunque, se non l’avete vista, Puerta Elvira è un’altra tappa obbligata: di simili potrete vederne anche in Mali o in India, ma è l’unica a nascondere una libreria di nome Sostiene Pereira. Meraviglia dietro la meraviglia, è la prova tangibile che la letteratura può agire sulla realtà. Cionondimeno anche il contrario accade: sul versante opposto è una strada, il Paseo de los Tristes, a dare il titolo a un libro di Javier Egea, stampato nel 1982,  in cui si leggono, in esergo alla poesia eponima, alcuni versi di Pasolini.

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Man mano che scrivo, la mia percezione stessa della città sta cambiando: più avanzo e più mi sembra che la città sia diventata il satellite che ruota attorno al pianeta della mia scrittura. In questo rovesciamento di ruoli non sono più io a cercare le parole che diano un’immagine della città, ma è la città che si adatta alla mia prosa e prende il colore delle mie parole. Questo va detto, affinché il lettore non si senta tradito dalla mia mappa. Non nego che gli sarà utile per organizzare una visita, ma non mi venga a cercare se troverà molto più di quello che ho descritto. In fondo, per me la città si scioglie e si riassume in un suono: il gorgoglio del filo d’acqua che zampilla da una piccola fonte.


 

NOTE. Dietro la frase «li guardo incredulo come uno svedese» c’è l’espressione hacer el sueco,  “non capire, fare il tonto”. La conferenza di Bolaño è raccolta in Entre paréntesis (Anagrama 2006; e, presumo, in Tra parentesi, trad. it. Maria Nicola, Adelphi 2009). Borges parla di Averroè in un racconto in L’aleph. La citazione di Celati è prelevata dal primo taccuino delle Avventure in Africa (Feltrinelli 1998). Javier Egea è stato un importante poeta spagnolo (Granada, 1952-1999).


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