Quanta gente c’è al Cairo? Come facciamo a contare la popolazione di una metropoli così vasta e disordinata, se non riusciamo nemmeno a stabilire i suoi confini? Dove inizia la capitale egiziana, e dove finisce?

Per me comincia sempre all’aeroporto, un caotico scalo internazionale dall’estetica démodé, dove perdo sempre un sacco di tempo al controllo passaporti. Il mio cognome arabo sul passaporto italiano desta ogni volta parecchie perplessità all’ufficiale incaricato di verificare l’identità di chi entra in Egitto. Dall’alto della sua divisa si rivolge a me in arabo, io rispondo in inglese – ulteriore cortocircuito – e poi sparisce dietro la parete con il mio documento, mentre i viaggiatori in fila dietro di me, spazientiti, si fanno domande sul mio conto.

Il tragitto verso il centro della città è lungo, soprattutto di giorno, ma mi permette di seguire i cambiamenti del paesaggio metropolitano e di riprendere gradualmente confidenza con l’ambiente. Sento che l’aria è diversa, più calda e secca, e la luce appare carica di magia… Purtroppo è solo l’effetto dell’inquinamento, che riflette e diffonde i raggi del sole attraverso le polveri sottili, ma mi fa persino venire meglio in foto.

Con la fronte attaccata al finestrino della macchina vedo scorrere davanti ai miei occhi la bellezza decadente dei nobili palazzi di Heliopolis, la modernità imponente dei centri commerciali e la pittoresca confusione delle periferie popolari, fino a raggiungere le sponde del Nilo, per passare sul Ponte Qasr Al Nil e riconoscere i contorni familiari del Downtown, oltre Piazza Tahrir. Soltanto una rotonda gigante che collega il centro e la città vecchia con il grande fiume sul versante orientale, e con Giza e i quartieri moderni sul versante occidentale, ma che dal 2011 è diventata il simbolo della Rivoluzione e della Primavera araba.

 

Da bambina mi spaventava un po’ passarci in macchina, a volte chiudevo gli occhi per non vedere quel fiume di veicoli che sembrava venirci addosso da ogni parte, senza regole, in un frastuono assordante di clacson, marmitte sfondate, schiamazzi e autoradio a tutto volume. Trattenevo il fiato finché non salivamo sul ponte o imboccavamo una via più stretta verso Downtown. Non che la situazione del traffico cairota fosse migliore altrove – non è migliorata negli anni, anzi – ma almeno in uno spazio meno ampio mi sentivo più al sicuro.

Ripenso con tenerezza e nostalgia a quelle vacanze della mia infanzia, alle foto davanti alle Piramidi, all’esuberanza chiassosa della folla per strada, alla scoperta di nuovi profumi e alla mia titubanza davanti a un cibo insolito. Da adulta cambiano le traiettorie, i punti d’interesse, le relazioni umane, ma è addirittura meglio. Invece di andare a salutare la Sfinge, cerco compulsivamente graffiti e muri dipinti, concerti e mahraganat, posti per ascoltare buona musica e spazi per l’arte, abusivi o legali. Negli ultimi anni la scena controculturale del Cairo è viva e vibrante, popolata di persone interessanti e piene di talento, che purtroppo le forze di sicurezza governative cercano continuamente di soffocare. Continui stimoli visivi e sonori entrano nell’orizzonte metropolitano: dalla spoken poetry di Aly Talibab all’electrosufi di Saleh & Miniawy, dall’arte pubblica dei Mona Lisa Brigades alla scultura pop di Alaa Abdelhamid, dalla street art di Aya Tarek e Naguib all’arabic rock dei KaYan.

Il momento presente è estremamente complicato per l’Egitto, così come lo è per me. Nonostante tutta la mia rabbia verso quel regime odioso, paranoico e senza scrupoli, e tutta la mia preoccupazione per una generazione di giovani derubati dei loro sogni e mutilati nelle aspirazioni, Il Cairo mi chiama, mi attira a sé, rimescolando le emozioni e i ricordi dell’ultimo viaggio, recente ma già troppo lontano.

Arrivare al Cairo è sempre una botta: le contraddizioni si moltiplicano e si accentuano, mandandomi in confusione e lasciandomi sospesa fra i miei interrogativi.
Eppure mi sento bene. Faccio un sacco di cose, rivedo familiari, abbraccio vecchi amici e me ne faccio di nuovi.
Trascorrere un po’ di tempo al Cairo mi permette ogni volta di comprendere qualcosa in più di me stessa. Probabilmente mi sento più egiziana quando sono in Italia che non quando sono in Egitto.
Mi mancano le regole – il codice della strada, la raccolta differenziata – ma adoro quel clima caldo che scalda la pelle e le ossa fino in fondo, anche quando è torrido. Mi piacciono tantissimo il tè alla menta e il caffè arabo al cardamomo, ma dopo due settimane rischio l’astinenza da espresso. È facile trovare la birra, anche se a volte gradirei un buon bicchiere di vino bianco.
Se cammino per strada, senza parlare, sono uguale e diversa allo stesso tempo. I miei colori, i miei occhi, il mio naso dicono che sono egiziana e quindi uguale a tutti quelli che mi passano accanto per strada. I miei capelli corti, il mio abbigliamento, persino il mio modo di camminare, non corrispondono alle aspettative e mi rendono diversa. Qualcuno apprezza, qualcuno no. Negli anni ho spesso cercato di distinguermi, di segnare una contrapposizione rispetto a qualcuno o qualcosa, di essere diversa anche quando non c’era bisogno. Eppure al Cairo, immersa nella folla del Downtown, vorrei essere più uguale a tutti gli altri. […]

Camminare per strada e muoversi per le vie del centro intorno alle piazze Tahrir e Talaat Harb, o nei quartieri degli edifici governativi e delle ambasciate, non è molto rilassante. Carri armati e militari sono dappertutto, non soltanto a sorveglianza di punti sensibili o presunti tali, ma anche in luoghi insospettabili. Le divise bianche dell’esercito spuntano a ogni angolo della città e spesso si incontrano anche folte squadre di giovani soldati in assetto antisommossa. I ragazzi che non si iscrivono all’università sono obbligati a un servizio di leva di tre anni, assolvendo i compiti più duri e meno gratificanti, mentre i laureati possono cavarsela con soli due anni. Un tempo infinito che interrompe qualsiasi tentativo di pianificare il futuro, trovare un lavoro, costruire le basi per un domani migliore. […] 

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Questa militarizzazione massiccia della città sembra apparentemente ingiustificata. In giro è tutto tranquillo, il traffico è congestionato come sempre, la vita scorre al solito ritmo caotico di notte e di giorno. Però, è una tranquillità brutta, carica di tensione, si sente che basterebbe una sciocchezza per far esplodere la situazione e gettare la gente nel panico. Sicuramente lo spiegamento di forze non aiuta ad abbassare i toni, ma è come se El Sisi e l’esercito volessero dimostrare di avere il pieno controllo del paese. Nessuno si muove, nessuno parla, senza che loro lo sappiano. E i nemici predestinati sono molti, dai Fratelli musulmani agli attivisti della rivoluzione, dai giornalisti ai servizi segreti occidentali e israeliani, dagli artisti agli ultras, fino alle organizzazioni non governative. Impossibile non appartenere a qualcuna di queste categorie ostili.

L’atmosfera cambia completamente arrivando nei quartieri popolari, lontani dal centro metropolitano e ai margini delle periferie ad alta densità abitativa, come Ard El Lewa o Helwan. Mi avvisano di vestirmi in maniera “regular”, evitando di scoprire le spalle o le caviglie, e naturalmente seguo le indicazioni alla lettera per non urtare la sensibilità altrui, ma in realtà le persone non si curano affatto di me. A parte qualche sguardo interrogativo mi sento a mio agio, soprattutto grazie all’accoglienza festosa dei bambini che non chiedono di meglio che farsi fotografare e si esibiscono in scatenati balletti davanti all’obiettivo. Gli edifici sono costruiti al di fuori di ogni criterio edilizio, le strade non sono asfaltate e l’energia elettrica è una risorsa che scarseggia, lì più che altrove, ma la sensazione di serenità che respiro in quei sobborghi mi carica di positività e buone vibrazioni.
Le ore più  divertenti e spensierate della giornata sono quelle dopo il tramonto, quando l’oscurità avvolge la metropoli e rende ogni cosa più bella e magica. Sono abituata a vivere in città che non conoscono il buio, mentre al Cairo i frequenti blackout mi ricordano che non vedere – dove si cammina, chi si ha di fronte – può essere pericoloso o, almeno, fare paura. Soprattutto se gli amici ti aspettano su una terrazza al nono piano di un edificio e resti bloccata dentro un ascensore senza porta. Le stelle è come se non esistessero, nonostante il buio totale, perché lo strato di inquinamento è troppo spesso per consentire alla loro luce lontana di filtrare.

Di sera è più facile incontrare gli amici, fare nuove conoscenze e perdersi in lunghe chiacchierate multiculturali, che diventano progressivamente più fluide all’accumularsi di bottiglie vuote.
In zona Downtown i locali che somministrano alcolici, almeno quelli più conosciuti e frequentati, non sono così tanti: alcuni bar storici affacciati sulle vie intorno a Bab El Louk, come lo Stella e Al Horreya, e altri locali ricavati agli ultimi piani di certi hotel per turisti, di solito su ventilate terrazze con vista sulla città. Anche senza darsi un appuntamento, che nella maggior parte dei casi non sarebbe rispettato, ci si ritrova sempre in buona compagnia.
E così ci si rilassa, si scherza e si ride, dopo una lunga giornata passata a esplorare i diversi quartieri del centro alla ricerca di graffiti, a incontrare e intervistare artisti, musicisti, poeti, o semplicemente dedicata all’osservazione della vita quotidiana del Cairo nella sua varietà. Non credo che potrei viverci per sempre, ma vorrei tanto restare per un bel po’».

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Una parte del mio cuore è laggiù, persa fra i caffè affollati del Downtown, i viali eleganti di Zamalek e la polvere di Ard El Lewa. Cammina tra signore velate e giovani donne con le chiome sciolte sulle spalle, rincorre bambini troppo vivaci nei loro giochi di strada e segue venditori ambulanti nei loro tragitti quotidiani, schiva automobilisti incoscienti e osserva enigmatici bawab, seduti e immobili davanti ai loro portoni. L’altra parte aspetta il momento giusto per ricongiungersi, confidando nella pressione politica della comunità internazionale e, soprattutto, nell’orgoglio e nella forza del popolo egiziano, che è stato capace di superare le sue paure già più di una volta e sa che può farlo ancora. Nel 2011, in diciotto gloriosi giorni di Rivoluzione, ha rovesciato il regime quasi trentennale di Mubarak e, nel 2013, con una manifestazione oceanica ha cacciato l’integralista Morsi, prima di cadere nella trappola dell’esercito e favorire tragicamente la dittatura muscolare di El Sisi. Qualcosa succederà, deve succedere. È solo questione di tempo, la storia farà il suo corso e si tornerà a danzare, cantare e dipingere per le strade del Cairo.


cop_cairo_calling_fronteLa parti in corsivo sono tratte da Cairo calling (Agenzia X, Milano 2016, pp. 24 e 145-148).

Le foto sono di Claudia Galal.