1.

Se operazioni come quella che minimum fax ha fatto con Assalto a un tempo devastato e vile di Giuseppe Genna (prima edizione con PeQuod, 2001; versione 3.0 nel 2010) e Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio (prima edizione Fanucci, 2000; ricomparso nel 2010) permettono, da un lato, la riscoperta di testi ormai poco reperibili, dall’altro lato aprono la strada a una possibile storicizzazione di quei primi anni Zero che sembrano già appartenere a un’epoca trascorsa, non più troppo familiare. Kamikaze d’Occidente di Tiziano Scarpa s’inserisce a pieno titolo nel filone: la prima edizione fu per Rizzoli nel 2003; la riedizione attuale presso la collana Nichel[1] potrà consentire ai lettori più consapevoli di osservare, come in laboratorio, le distanze, le ossessioni, i vuoti e le tensioni che attraversavano una porzione cospicua della letteratura italiana di (ormai) quindici anni fa.

Bisogna per forza, a punto di partenza, collocare precisamente nel tempo un libro che con tanta ostinazione vuole restare abbarbicato al presente tenendo il passo di ogni evento del giorno tramite la forma del “falso diario” (o, con termini più alla moda, dell’autofiction). Ambientato nei primi due anni del nuovo millennio, Kamikaze rivela la sua età anche grazie alla memoria di alcuni autori decisivi per il periodo. Per esempio, degli Esordi di Moresco (e in particolare dei dialoghi fra l’anonimo protagonista e l’editore luciferino chiamato “il Gatto”) si sente l’influenza nei colloqui telefonici fra l’autore-protagonista Tiz e il Cinese sulla commissione del falso diario per il mercato cinese clandestino (pp. 30-8). Con la narrativa cannibale (e non solo) a cavallo fra i due secoli condivide il carattere frammentario e iperveloce; il saggismo digressivo, semiserio, disordinato e a breve gittata; il gusto per la ripetizione e la meccanicità (desunto anche dalla musica contemporanea, come suggerisce lo spunto metanarrativo su Moby a p. 148), anche a costo di rinunciare a una trama avvincente in nome dell’avvicinamento a una sfera di contemplazione astratta tipica di certa arte contemporanea (sull’«abbassamento delle attese narrative» l’autore riflette nella Postfazione, p. 348). Infine, con gli scrittori specializzati nell’autofinzione si percepisce un’affinità profonda, nell’impostazione del discorso e nell’esigenza di stabilire una corrispondenza immediata fra autore in carne e ossa e autore testualizzato. In particolare Scuola di nudo (1994) di Walter Siti e Operazione Shylock (1993) di Philip Roth sembrano antenati possibili: il primo per la forma instabile e per il saggismo diaristico senza gerarchie né galateo, il secondo per la macchinazione romanzesca di cui l’autore è il centro.

L’autofiction, abile a travestirsi da journal intime e capace come un romanzo di inglobare molte altre forme narrative e discorsive (saggio, narrazione, schede tecniche, invettive, digressioni pornografiche e tanto altro, come l’autore commenta nella bella Postfazione del 2019), è una forma simbolica potente nei primi anni Zero, posta alla base del testo di Scarpa (che a sua volta precorre a Troppi paradisi, un altro testo vicino sul piano formale, di tre anni). Con le sue parole: «Un romanzo travestito da diario. In modo che la cosa sembri più vera possibile» (p. 30). Insieme, un romanzo che, come nella migliore tradizione, non osa dire il proprio nome per paura di perdere il suo potere persuasivo sul lettore (basta ricordare, a p. 253, il passaggio in cui Tiz incolpa il computer di non digitare correttamente la parola “romanzo” e quindi non riesce a chiamarlo così).

Una scelta simile esaudisce un desiderio di autenticità che ha molte facce. Anzitutto, l’illusione di raccontare senza filtri la propria esperienza ha una finalità politica strettamente legata a quegli anni, perché si contrappone alla retorica spersonalizzante della comunicazione berlusconiana:

Centinaia di migliaia di adulti pensanti, da quindici a ottant’anni, ricominciano ad affollare le strade per contestare la gestione capitalistica della vita. È iniziato davvero un decennio nuovo. Ci sarà una diminuzione della fiction, cadrà il velo della teleipnosi. Dopo la sbornia di narrativa, invenzione, fantasia, rappresentazione, è tornata la necessità della presenza. Basta rappresentare! È ora di presenziare. Meno metafore, meno mediazioni. Significati diretti. Sensi letterali (p. 172)

Dunque, offrire ai lettori la propria autobiografia senza menzogne apparenti serve a essere presi sul serio e certifica la “presa” sull’attualità dello scritto, ma aiuta anche a superare l’impotenza di un discorso pubblico che ormai è avvertito come intrattenimento ingannevole, completamente fine a se stesso. Per neutralizzarlo, non resta che ripartire da sé offrendo l’unica cosa certa di cui si dispone: il proprio corpo. Kamikaze è perciò la storia di una prostituzione: il protagonista, scrittore-performer disposto a tutto per il rimborso spese e per la visibilità (v. l’elenco di prestazioni elargite e non, alle pp. 38-40), arrotonda andando a letto a pagamento con le sue lettrici. Con l’autofiction Scarpa porta alle estreme conseguenze un’immagine pubblica  (la “prostituzione intellettuale”), rendendola alla lettera.

Alla prostituzione si accompagna l’esibizionismo. L’esposizione continua di sé non è solo una strategia del discorso, ma anche un tema portante (e potentemente autobiografico). Tiz è un personaggio ipercinetico, che vuole dire la sua su tutto ed essere ovunque, capace di rendere ogni situazione del romanzo una scena di cui lui è al centro. Scandalo ed esibizionismo, ritenuti consustanziali alla scrittura in prima persona («mi sono accorto che i libri raccontati in prima persona sono proprio così: scandalistici al massimo grado», p. 48), sono il modo dell’autore-personaggio di conoscere il mondo e comunicare (come già puntualizzato da Scarpa saggista in Cos’è questo fracasso?, 2000), ma al tempo stesso schermano la sua persona. Di norma infatti l’autenticità (cioè la mostra spontanea di sé, senza infingimenti, volta a instaurare una comunicazione diretta col destinatario) confligge con l’esibizione progettuale, studiata, artefatta della propria persona che troviamo in Scarpa. La sua autoironia esibita, che tracima spesso e volentieri nella goliardia (nelle scene pornografiche e nelle formule incensanti come «nobile cazzo»), è in fondo quasi un ossimoro che trasforma il discorso da ironico a narcisistico, aggiungendo un’ulteriore distanza fra l’autore e i suoi lettori. Non è un caso: mentre sulla pagina assistiamo alle performance sessuali, artistiche e intellettuali di Tiz, quanto più scopriamo su di lui come personaggio in scena, tanto meno arriviamo a capirlo in profondità. Esporsi è in Kamikaze una via traversa per nascondere l’interiorità: non è mai chiaro che cosa Tiz pensi davvero, e l’espressione del suo pensiero è affidata ad annotazioni veloci e dialoghi botta-e-risposta in cui il protagonista si chiarisce le idee su ciò che sta facendo.

 

2.

Sedici anni dopo, mi pare che il testo sia ancora vivo, più che nel racconto dell’attualità e nelle scene comico-pornografiche (sorpassate da medium più efficaci come i fumetti, la videoarte, le serie tv che trattano lo stesso argomento), nelle sue contraddizioni. Oltre a quella che fa convivere esibizionismo e reticenza, è interessante (e, no pun intended, più nascosta) la compresenza scomoda di azione e passività nell’autore-protagonista. Kamikaze a un primo sguardo potrebbe essere letto come inno all’azione-per-l’azione: azione come movimento continuo di Tiz, in viaggio da un posto all’altro, incapace di fermarsi; azione come performance, scambio, interazione (sessuale o intellettuale), mai compiuta in solitudine; azione, soprattutto, come antidoto all’impotenza della scrittura. In un passaggio viene notato, con serietà programmatica:

Compito dell’intellettuale oggi è prendere la penna, rimetterle il cappuccio, appoggiarla sulla scrivania, chiudere anche il programma di videoscrittura, spegnere il computer, alzarsi, uscire di casa, andare dalla Fantarealtà, ficcarsi due dita in gola e vomitarle addosso (p. 136).

Vomitare addosso alla realtà (un gesto tipicamente da arte performativa, eseguito talvolta anche nei concerti di musica leggera) sancisce che per Scarpa l’intellettuale deve agire, non scrivere. La scrittura e l’opera sono secondarie: secondo un principio fondamentale della retorica dell’autenticità affiorata a metà degli anni Novanta in Italia, a contare davvero in letteratura è l’autore. È un aspetto fondamentale per capire l’influenza di certa arte contemporanea su Kamikaze: alla base delle arti concettuale e performativa sta l’idea che per la riuscita dell’opera conta più l’intenzione (il concetto fondante) dell’estetica (la bellezza “oggettiva” secondo un qualche canone di realismo). Ed è innegabile che per questa ragione Kamikaze, scritto appunto «sulla base di un progetto» (p. 348) e dal carattere artatamente studiato, perfino cerebrale nelle sue intenzioni, sia un testo necessario per comprendere la cultura e la letteratura dell’epoca in cui è uscito, per fare storia del presente attraverso il passato prossimo. Meno innegabile è che sia altrettanto bello e riuscito nel suo complesso (a tratti, anzi, è consapevolmente velleitario).

Così, quasi impercettibilmente, Scarpa nel corso della storia fa scivolare il suo alter ego Tiz da personaggio che agisce nel centro della mischia a osservatore distaccato. Gli spostamenti di lavoro diminuiscono, le performance e i lavori vengono svolti con meno entusiasmo, gli incontri si diradano, e alla smania subentra l’auto-reclusione appagata:

Si vive bene, tutti soli, si lavora splendidamente, si perde tempo regalmente. Ne soffrono soltanto il sesso e la comunicazione, ma non più di tanto. Per tutte e due le cose infatti c’è Madama Pornografia: telefonate, messaggini al cellulare, posta elettronica. Tutto ciò che passa per le reti telefoniche, via cavo o nell’etere, è pornografia dei rapporti umani, in forma di immagini o di parole (p. 199).

Anche i rapporti sessuali non sono così frequenti come nella prima parte del libro, perché la pornografia può sopperire ugualmente (anzi, meglio) ai bisogni del protagonista. In un libro ossessionato dalla prassi e dall’atto sessuale, l’osservazione guadagna terreno man mano che si arriva al finale. Tiz prova il godimento più intenso, in un vero passaggio di consegne, guardando un porno durante una prestazione con una cliente («Sono sconvolto, non ho mai goduto così tanto», p. 277; più avanti, «Non mi è ancora capitato di schizzare così forte addosso a una donna. Che cosa devo concluderne? Le immagini sanno come darmi la carica e farsi amare più delle donne?», p. 310). Da lì in poi, la «condizione contemplativa ipnotica» (p. 314) prende il sopravvento e il protagonista finisce per assomigliare a un occhio pensante, più che a un corpo. Il passaggio da prostituto a voyeur si fa inevitabile: Tiz assolda un altro “accompagnatore” per farlo andare con Loredana, una cliente immaginaria di cui ha finito per innamorarsi mettendo fine alla sua breve carriera di escort (pp. 287-303), per poi farsi raccontare al telefono il loro incontro, in un trionfo di frustrazione e impotenza (pp. 319-321).

Nel rovescio da azione a contemplazione, l’inconscio del testo rinnega le programmatiche intenzioni d’impegno, intervento sulla realtà, rivendicazione di un contatto diretto con le cose. Pur scritto all’ombra di un nuovo impegno militante della letteratura verso la cronaca e la politica (come testimonia l’attività intellettuale di Scarpa in quegli anni, con la partecipazione all’importante volume Scrivere sul fronte occidentale e la fondazione del litblog Nazione indiana), Kamikaze è compiutamente postmoderno. Immerso nella cultura dell’immagine, professa il ritorno all’azione per sancirne, in fin dei conti, il fallimento:

Ho fatto l’amore con un’immagine. Mi ha eccitato un dettaglio del mondo. Il mondo così com’è mi piace. Lo voglio perpetuare, duplicare, propagare (p. 330).

Se consideriamo l’architettura generale, in fondo, la sua concezione di un testo che ingloba il mondo, senza lasciarne nulla al di fuori, mima letteralmente alcune famose considerazioni di Derrida («Sarai romantica, sarai anche dolce, ma sei fuori dal libro. Ormai sei irrimediabilmente fuori dal libro», p. 305). Inoltre, l’appartenenza a questa cultura tardonovecentesca è ribadita dalla focalizzazione paradossale sull’io. Dal protagonista, in un egocentrismo paranoico e divertito, dipendono i destini del mondo intero: se il diario commissionato dal governo cinese, spiega il committente cinese a Tiz, sarà ritenuto di buon livello, l’Occidente non sarà invaso dall’Oriente. L’eventuale riscatto di Tiz (nella vita e nella scrittura, considerati in questa autofinzione come coincidenti) comporta quindi la salvezza, o la dannazione, dell’umanità (e nel finale l’autore scoprirà di aver sconvolto la vita di un miliardo e mezzo di cinesi con il suo referto pornografico, p. 339):

IO: No, anzi, ma… Che cosa significa? Che mi avete preso come sintomo della decadenza occidentale?
IL CINESE: No, non decadenza: sfacelo, abiezione, putredine, male assoluto (p. 32).

[IL CINESE] Trovi anche solo un grammo di passione, e noi non vi annienteremo (p. 37).

Nella sua narrazione obliqua e inverosimile della cronaca, Scarpa vuole comunque catturarne gli snodi decisivi, in uno sforzo costante di cogliere l’attualità con i mezzi di una scrittura tentacolare. L’esigenza di tenere il passo con il momento presente a volte rende pour cause il libro un po’ invecchiato (come quando si parla di telefonia mobile, p. 20, e di newsgroup, p. 24): è un tratto quintessenziale a ogni autofiction, in quanto forma che cerca di combaciare perfettamente, senza mai riuscirci, col momento che racconta – potremmo dover leggere Siti e Scarpa con note esplicative a testo, fra qualche decennio? Ma quel che non è invecchiato, e ci racconta alla perfezione l’inizio degli anni Zero, è il modo di raccontare la cronaca e la politica: distante, straniato, inerme. Il rifiuto dichiarato della menzogna («La menzogna dà segni di cedimento. Negli ultimi vent’anni sono stati tenuti celati i conflitti sotto una coltre di irrealtà», p. 173) si accompagna a un suo uso critico a fini creativi, oltre che a un riconoscimento dell’impossibilità di giungere a una qualche verità su se stessi, e men che meno sulla realtà. Il G8 di Genova è visto da lontano («Dov’è che sono sparito per una settimana?», pp. 14-7) e il dissenso verso la repressione violenta dello Stato consiste grottescamente nel «rifare l’acconciatura della fica di una mia cliente» (p. 265) in una località balneare lontana. L’11 settembre, come in parecchi altri romanzi italiani del periodo (a partire da Occidente per principianti di Lagioia e La fine dell’altro mondo di Filippo D’Angelo),  è visto alla televisione (p. 178): non sconvolge, non segna la fine di un’epoca, ma passa oltre senza lasciare tracce, tutt’al più buono come spunto per riflessioni, volutamente di pessimo gusto e fuori fuoco, sulla dimensione performativa di chi si è suicidato lanciandosi dalle Torri Gemelle per non morire bruciato, in un’ennesima equivalenza opera di finzione-vita.

 

3.

Sedici anni dopo, di questo libro contraddittorio e irrisolto non resta solo un valore di documento, per testimoniare cosa sono stati i primi anni Zero visti da uno scrittore immerso, a disagio, nel postmodernismo. Nonostante la struttura di autobiografia menzognera, inaffidabile per contratto, Kamikaze potrebbe essere, a oggi, il libro più sincero di Scarpa. In modo lampante, perfino didascalico, mette in scena il suo esibizionismo mistificatorio e reticente, la sua giustapposizione di oscenità ed estrema raffinatezza concettuale, la sua nevrosi di essere ovunque e voler piacere a tutti i costi, la sua tensione ad agganciare il presente anche a costo di indebolirsi alla prova del tempo, la sua disponibilità a una progettualità artistica tenace, fino a rischiare consapevolmente di essere più interessante e aggiornato che bello da leggere.

Dietro l’immagine pubblica di scrittore-prostituto, da Scarpa riutilizzata con ironia paradossale secondo una procedura classica dell’autofinzione (ma all’altezza del 2003 non così comune), sta un’immagine sfaccettata e nascosta, che rimane fra le più belle del libro: quella di un uomo che prova a entrare nel nucleo vivo delle cose senza rete di protezione, ma finisce voyeur impotente, trincerato dietro una scrittura acrobatica ed elusiva, amaramente postmoderna. Si tratta di qualcuno che ha provato a raccontare la Storia, con la speranza paranoica di determinarne il corso grazie alle parole, ed è finito (letteralmente) a guardarne, muto e immobile, il residuo fecale:

Torno in camera. Mi metto a sedere per terra, a gambe incrociate, davanti alla merda misteriosa. La contemplo con gli occhi e con il naso. Inizio a meditare (p. 345).


 

kamikazeTiziano Scarpa, Kamikaze d’Occidente, minimum fax, Roma 2019, 357 pp. 17,00€

 

 

 

 


 

[1] Tiziano Scarpa, Kamikaze d’Occidente, Minimum Fax, Roma 2019. D’ora in avanti le citazioni e i rimandi a quest’opera sono a testo, seguiti dall’indicazione del numero di pagina.