I miei stupidi intenti è il romanzo d’esordio del venticinquenne Bernardo Zannoni, pubblicato per Sellerio nel 2021. Sulla copertina del libro, incastonata nella sottile cornice blu, campeggia il ritratto di una faina: il protagonista e narratore del romanzo. Il suo nome è Archy e la sua vita non è diversa da quella degli altri abitanti del bosco: poco lontano dalla campagna, territorio degli umani, si assiste ogni giorno allo spettacolo spietato della natura. La giovane faina non avrebbe molte possibilità di sopravvivenza, è zoppa e sua madre ha troppi altri cuccioli da nutrire. Un incontro cambierà la sua esistenza, rendendola unica e degna di essere raccontata. Nel cuore del bosco c’è una tana speciale, il centro nevralgico dell’economia fatta di furti, caccia e piccola agricoltura: è l’antro di Solomon la volpe. A questo punto del racconto si capisce che gli animali del mondo di Zannoni sono molto simili agli umani: sono antropomorfizzati. Hanno tane dotate di porte, finestre, lampade e utensili; parlano e comunicano in un’unica lingua; cucinano e hanno istituzioni sociali ed economiche rudimentali. La famiglia, il baratto e il lavoro esistono anche nel bosco ma in una dimensione che privilegia l’istinto, la violenza e la prevaricazione evocando più che un placido “stato di natura”, una distopia animalesca. Archy viene venduto dalla madre alla volpe che, ormai anziana, necessita di zampe giovani per aiutarlo nel lavoro. Solomon è temuto e rispettato e si fa aiutare nella riscossione dei debiti dal grosso mastino Gioele, suo fidato servitore. Un giorno Archy sente parlare di Dio, un essere misterioso che la volpe nomina quando si tratta di indagare il destino e la natura delle cose. Solomon è restio a condividere i suoi segreti ma alla fine svela alla giovane faina l’origine di quel nome: il libro che contiene la sua Parola. Solomon sa leggere e scrivere e lo insegna ad Archy che diventa il suo apprendista, incaricato di studiare i discorsi di Dio al suo popolo e trascrivere le memorie della volpe.

Ascoltando e leggendo la Parola di Dio, del Dio dell’Antico Testamento, Archy prende coscienza della morte, del tempo, della crudeltà della giustizia divina. Non è più un semplice animale perché ha smesso di esistere solo nel presente, sa quale sarà il suo ultimo destino, il suo “rapporto con la vita era scomparso dietro la coscienza della fine”. Condannato a tale coscienza egli comunque non aspira ad essere più che sé stesso; si accontenta di essere prima allievo e poi maestro di questo sapere segreto. La breve vita della faina, scandita dalle stagioni, da periodi di fame e di abbondanza, continua e attraversa le sue fasi naturali: l’accoppiamento, la paternità, la vecchiaia ma sempre con il fardello della consapevolezza superiore, inflittale dall’aver voluto conoscere qualcosa che non le era destinata. La narrazione segue il flusso del tempo, senza anticipazioni o flashback, tranne le poche memorie del protagonista, il cui spazio diventa naturalmente più grande quando egli invecchia e le sue possibilità di azione si riducono.

Il romanzo di Zannoni si sviluppa così in una dicotomia animale-umano che appare evidente sin dall’incontro con Solomon. Il mondo animale è quello della sopravvivenza, dell’istinto, dell’incoscienza, di quella che appare come crudeltà ma è, invece, soltanto natura. L’umano invece è tutto ciò che è consapevole e guidato dal destino, superiore – per elezione divina – nella comprensione del mondo ma anche debole nel continuo rimuginio dell’esistenza razionale.

Gli abitanti del bosco, cornice de I miei stupidi intenti, sono confinati in una dimensione da cui solo Solomon prima e il protagonista poi riescono a emanciparsi. Sta al lettore domandarsi: per guadagnare cosa?

La conoscenza è forse una condanna? L’ignoranza è forza? Queste e altre le domande esistenziali, inevitabilmente topiche, che accompagnano le pagine del romanzo, sorrette nella loro monolitica pesantezza da un ritmo narrativo che le alterna a scene di azione anche brutali, tappe della formazione del protagonista e attimi di tensione.

A un’analisi potremmo dire “fiabesca” in cui il lettore, per tradizione, ricerca negli animali protagonisti vizi e virtù umani potremmo sostituire uno sguardo allegorico o addirittura teologico ma vale la pena non peccare di sovrainterpretazione e semplificare la faccenda. I personaggi di Zannoni potrebbero benissimo essere umani qualsiasi in un momento storico di sospensione delle leggi, delle istituzioni e della cortesia sanitizzata. Ciò che conta è salvare la pelle (o il pelo) e quella della propria famiglia, mangiare, riprodursi e morire senza speranza o coscienza di un futuro diverso o migliore; non perché non ce lo si auguri ma perché non si ha tempo per pensare, immersi nel presente della continua necessità di vivere un altro giorno. Il protagonista è diverso, sa che “questi pensieri fatti di ma e se” appartengono soltanto a lui. Ci confessa di non aver mai conosciuto “altri animali con questo fastidioso difetto. Ha a che fare con il Prima e il Dopo, e con Dio”.

Archy non guadagna niente dalla parola di Dio; non si illude come Solomon di avere davanti a sé un destino di salvezza, nonostante le nefandezze compiute in vita. Alla faina-apprendista non resta che una cosa, l’unico lascito del padrone e maestro: la scrittura. La terza colonna portante della costruzione teorica e narrativa dell’autore, dopo la diade animale-umano, è la riflessione sulla scrittura e l’identificazione della faina zoppa con un Io scrittore che arriva a sostenere: “Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera. La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio”. L’immagine del sangue utilizzato per la scrittura è di forte e scontata portata metaforica e si accompagna con una visione pedagogica della letteratura. Ogni atto di scrittura, specialmente memoriale, è iscrizione di una verità destinata a durare nel tempo. Quella verità verrà poi letta da chi può farlo e, seppur dolorosa, sarà un insegnamento prezioso e indelebile.

I miei stupidi intenti è un esordio sicuramente valido dal punto di vista narrativo e stilistico ma che scivola in alcuni passaggi nel voler trattare temi assoluti con altrettanto assoluta aderenza alla tradizione: l’animale vive nella cruda realtà mentre l’uomo si arrovella sul passato e il futuro; la coscienza della verità condanna alla miseria ma la scrittura ci può salvare o, quantomeno, può farci illudere di star sconfiggendo la morte mentre lasciamo un marchio indelebile per i posteri.

Unendo queste riflessioni a personaggi molto tipizzati, con saltuarie cadute nello stereotipo  – si veda la volpe Solomon, che parla in ebraico e fa l’usuraia – si ottiene un romanzo che zoppica proprio come il suo protagonista; volendo affrontare interrogativi eterni di irrinunciabile fascino attraverso la vita di un animale-scrittore, inciampa in Dio, nel Vero, nella Letteratura, nella Memoria e ne esce ridimensionato: tra fiaba morale e romanzo di formazione, il peso delle sue ambizioni è anche la sua zavorra.


Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio, Palermo 2022, 252 pp. 16,00€