Di Menno ter Braak non si parla poi molto ed è perciò una bella sorpresa ritrovare il suo Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore tra le recenti pubblicazioni di Apeiron (novembre 2019). Parente e collaboratore del più famoso Johan Huizinga, celebre storico e pensatore olandese, teer Braak fu saggista eclettico, convinto che per comprendere le vicende storiche fosse necessario analizzarne anche, e soprattutto, l’immaginario letterario, filosofico e culturale che ne fa da sostrato ideologico.

Il pamphlet in questione fu terminato nel 1937. I giochi olimpici svolti in Germania avevano appena offerto a Hitler l’occasione per sbandierare la grandezza della svastica (alla faccia di chi ne aveva chiesto il boicottaggio). In Italia, Mussolini stava creando il Ministero della Cultura Popolare, dando alla propaganda di massa una svolta sistematica e istituzionale. Invece nei Paesi Bassi, patria di ter Braak, gli intellettuali continuavano a trattare i nazionalsocialisti “come una sciocchezza della quale un signore ottimamente istruito e beneducato non dovesse occuparsi”. Il breve saggio di teer Braak irruppe così con lo stridore di un grido d’allarme. Circa tre anni dopo, i nazionalsocialisti avrebbero conquistato i Paesi Bassi e Menno ter Braak, appresa la notizia, si sarebbe suicidato, a soli trentotto anni.

Oggi, la ragione di interesse del Nazionalsocialismo come dottrina del rancore risiede proprio nella non obiettività con cui è stato scritto. Quello di ter Braak è sguardo frontale e in simultanea: nessuna visione aerea, nessuna certezza storica. Della parabola nazionalsocialista sappiamo più noi che, a distanza di decenni, ne conosciamo gli sviluppi e il finale. Ter Braak, piuttosto, offre la testimonianza in diretta di qualcosa che sta vedendo nascere, qualcosa che presume diventerà un mostro devastante per l’Europa, senza tuttavia poter sottoporre questo timore alla prova dei fatti come, invece, possiamo fare noi più di ottanta anni dopo. Un’analisi dalla vista corta e insicura sulla diffusione della pandemia nazista, ma proprio per questo un’analisi in divenire, vivissima. Così potente che attiva in noi l’immedesimazione e la paura. Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore risuona nei nervi scossi del nostro presente e scatena i fantasmi di paragoni e analogie.

Ma andiamo con ordine. Ter Braak fu studioso di Nietzsche e di Scheler, in particolare delle loro riflessioni sul risentimento. È cosa nota che proprio questi furono i temi di cui la mitologia nazista e fascista cercarono di impossessarsi, innestandovi la giustificazione morale della volontà di potenza della razza ariana. Vale la pena riassumere i passaggi di questa appropriazione, perché è qui che, in modo originale, si inserisce l’analisi di ter Braak.

Di risentimento aveva parlato Nietzsche nella Genealogia della morale (1887), definendolo come lo stato emotivo “di quegli esseri ai quali la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che perciò non trovano compenso che in una vendetta immaginaria”. Di un tale risentimento risultava intriso l’amore cristiano, in cui chi è troppo debole per vendicarsi esalta la propria, inerme, sopportazione e viceversa colpevolizza coloro che agiscono, coloro che vivono e che aspirano “al massimo possibile”. Per Nietzsche, il risentimento di religiosi e filosofi fu un sentimento così forte che nei secoli è riuscito a falsificare i valori dell’intera civiltà umana. Fu poi Max Scheler a mettere in luce la presenza di questa forma di rancore in tutta la nostra cultura, non risparmiando neanche l’umanitarismo democratico, dove l’ambizione all’eguaglianza aveva finito per agglutinare il risentimento di tutti coloro che sempre si sentiranno maltrattati.

Nazismo e fascismo si posero, culturalmente, come una romantica alternativa al risentimento umano, esaltando la propria irruzione di uomini d’azione che, al contrario di cristiani e democratici, senza alcun imbarazzo sfruttano appieno la potenza di conquista che gli è stata concessa. In un classico saggio di Emilio Gentile si legge che, dal punto di vista culturale, la prima caratteristica dei fascismi è proprio questa: “Il senso attivistico della vita, concepita come manifestazione della volontà di potenza”.

I nazisti, insomma, non sono dei risentiti. I nazisti agiscono. I nazisti prendono quello che vogliono e non si vergognano di essere padroni in un mondo di schiavi. Qui si inserisce la novità di teer Braak, la quale risiede in un’analisi che ribalta il gioco. Nel suo saggio, al contrario, “il nazionalsocialismo è un movimento che trae ispirazione dal risentimento”. Per ter Braak i nazionalsocialisti sono gli uomini del risentimento per eccellenza, al punto che tutti gli sforzi di comprendere i fascismi come fenomeno complesso (indagandone le ragioni economiche, sociali, istituzionali…) sono vani se non si accetta prima di tutto questa verità psicologica basilare: il risentimento è presente ovunque nella società ed è un sentimento così potente (“il rancore crea cultura”) che da solo è capace di fondare e diffondere i fascismi. Ter Braak applica così una sorta di rasoio di Ockham culturale che, se è concessa la battuta, quasi ricorda Il genio della massa di Bukowski: c’è abbastanza odio nell’uomo medio per rifornire costantemente eserciti e guerre.

Smascherare il risentimento, analizzarlo, isolarne gli effetti culturali: è così che, per ter Braak, si traccia la diffusione della pandemia nazionalsocialista e se ne isolano i focolai. Un tracciamento non facile, intendiamoci, dal momento che il risentimento è per ter Braak, come per Scheler, “uno degli aspetti essenziali della nostra cultura”, una “parte integrante e onnipresente”. Anche il liberalismo, il socialismo e la democrazia, scrive ter Braak, “sono accomunati dal fattore costituito dal risentimento”. Il risentimento è categoria che pre-esiste al nazionalsocialismo. La novità dei fascismi risiede nell’averlo liberato dalle regole del gioco, privandolo della sua forma contenitiva e autocensoria. Elevandolo a “desiderio urlato” ed esaltante.

Scandagliare un saggio del 1937 alla ricerca di riferimenti ai nostri giorni è senza dubbio un gioco pericoloso, che espone al rischio dell’anacronismo e della forzatura interpretativa. Tuttavia, chi avrà il piacere di leggere questo breve testo, ammetterà che in questo caso è un gioco a cui è proprio difficile sottrarsi. Le analogie urlano e pretendono attenzione. A partire dalla sensazione di ter Braak che il risentimento sia “uno stato d’animo diffuso ovunque”, sempre più dilagante, sempre più privo di freni morali nella società di massa. Oggi, mentre siamo costretti a coniare nuove espressioni come “odiatore seriale”, troviamo la parola “risentimento” usata sempre più spesso nell’analisi politica. In un celebre articolo comparso sul Guardian, Peter C. Baker analizza i populismi di Orban, Trump e Bolsonaro e azzarda questa definizione di populismo: “il risentimento della gente comune, amplificato da politici carismatici che fanno promesse impossibili”. Il resto viene da sé ed è sufficiente alludere senza esplicitare. Ter Braak nel 1937 metteva in luce l’importanza che il leader fosse un condottiero fiero e superiore al quale però si potesse “arrivare a dare la mano durante una pausa del sermone all’aperto”. Evidenziava poi il ruolo di slogan semplicistici il cui “valore pubblicitario sta proprio nel fatto che se ne fregano dell’etica della bontà-cattiveria”. Portava l’attenzione sulle menzogne messe in circolo per alimentare il risentimento in un corpo sociale “scarsamente istruito che non è in grado di smascherare le menzogne in quanto menzogne né le ricostruzioni in quanto ricostruzioni”.

Un’ultima riflessione. Oggi si mette in luce quanto molti populismi derivino della percezione che le istituzioni democratiche, con le loro procedure e le loro etichette, rispondano alle esigenze di un’élite. In Italia lo si è detto a proposito di molti trionfi elettorali della Lega, interpretati come “voti di protesta” di quegli operai che, una volta, erano di sinistra. Negli Usa, Michael Moore profetizzò la vittoria di Trump spiegando che i più poveri l’avrebbero votato in quanto “molotov lanciata contro il sistema”. È in generale una tesi che convince alcuni teorici di sinistra, i quali non solo riconoscono nel risentimento diffuso un sintomo dell’ingiustizia sociale odierna, ma addirittura vi scorgono una possibile e feconda occasione di sfida allo status quo. La politologa socialista Chantal Mouffe, per citare un altro esempio, riconosce nei populismi dei nostri giorni un’occasione di “strategia discorsiva per la costruzione di una frontiera politica, che opera attraverso la divisione della società in due campi e chiama alla mobilitazione ‘i derelitti’, chi è sfavorito, contro ‘chi è al potere’”.

È così che per ter Braak agisce il meccanismo falsificante del risentimento: suggerendo che esso debba necessariamente essere sintomo di qualcosa (come un’ingiustizia) e possibile causa di qualcos’altro (come un cambiamento), quando invece, questo è il punto, il risentimento basta a se stesso, è capace di originarsi da solo e, una volta entrato in circolo, non ha altro obiettivo che quello di autoalimentarsi. Per ter Braak il nazionalsocialismo lo dimostrava ogni giorno. Al suo centro c’era sì una sociologia delle contrapposizioni di classe, la quale però alimentava un fuoco che non doveva spostare nessun equilibrio sociale, ma solo tenere accesa la fiaccola del “risentimento di tutti contro tutti: (…) dei poveri contro i ricchi, dei ricchi contro i poveri e soprattutto dei due gruppi contro gli odiati «grandi capitalisti»”, per arrivare infine a cementificare il mito della “«comunità di popolo», il che sta a significare che i ricchi rimangono ricchi, i commercianti rimangono commercianti e i poveri tali e quali”.

Il cuore della provocazione di ter Braak è proprio qui. Populismi e nazionalismi non si combattono rimuovendo quelle ingiustizie sociali che sono state additate come cause, ma affrontando la radice culturale del risentimento, poiché finché il risentimento creerà valori allora esisteranno nazionalisti e populisti che creeranno occasioni di ingiustizia sociale per incarnare quei valori stessi. In Europa, oggi, vediamo leader xenofobi che “chiamano alla mobilitazione derelitti” che si sentono danneggiati dai flussi migratori ma che poi, una volta che l’acclamazione popolare gli ha spalancato la stanza dei bottoni, non risolvono ma, al contrario, incancreniscono le crisi migratorie. Nulla di strano, se già Scheler nella Crisi dei valori scriveva che “per molti dei nostri partiti politici (…) nulla può arrecare maggior dispiacere che l’avvelenamento del loro alto sentimento di opposizione radicale, effettuato realizzando parte del loro programma”. Ecco il nazionalsocialista secondo Menno ter Braak. Ecco l’uomo del risentimento. Non compie nessuna azione reale, piuttosto è l’inattivo per eccellenza. Non è portatore di nessun vitalismo, piuttosto di un fiero immobilismo che diffonde depressione. Un leader che trascina un’intera nazione a urlare con rabbia quello che in realtà “non vuole per nessun motivo, perché la sua realizzazione limiterebbe le occasioni per poter odiare”.


Menno ter Braak, Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore (1937), tr. it. di E. Paventi, Apeiron, Roma 2019, 64 pp., € 8.90.