Quando ci si imbarca su un volo della compagnia di bandiera degli Emirati Arabi, si è subito avvolti da una certa idea preconfezionata di “medio-oriente”. Tra le sedute color sabbia, coperte e cuscini, nell’aria si diffondono una fragranza e una musica progettate per far sentire il passeggero in una sorta di ideale e confortevole mondo arabo. L’arpeggio, forse di un oud, accompagna il canto del flauto. Non sembrano suoni registrati da persone vere, ma allo stesso tempo non sono così scrausi come gli strumenti finti delle musiche d’arredamento. Dovrebbero essere strumenti virtuali, ma molto costosi. Sul touch screen a disposizione di ogni passeggero, tra un disco dei BTS, una partita NBA e una serie HBO, c’è una funzione che mostra in tempo reale la posizione della Mecca rispetto a quella dell’aereo. Sorvoliamo Rodi, la penisola del Sinai, luoghi battuti in antichità da colossi e profeti. Poi, dopo ore di deserto arabo, ecco che appare una distesa confusa di costruzioni e cantieri. Di antico sembra esserci solo la tinta della sabbia, che colora l’acqua, la terra e il cielo.

Abu Dhabi mostra una tendenza all’espansione, alla conquista del maggior spazio possibile, che in ogni luogo della città sembra sempre avanzare di molto, rispetto al suo relativo bisogno. Già l’aeroporto fa sentire più piccoli di quello che si è, soprattutto se ci si passa in un momento di scarsa affluenza. Decine di poltrone, molto più morbide di quelle che offrono di solito gli aeroporti, sono vuote, e i pochi gruppi di viaggiatori che si incontrano sono sovrastati da queste architetture massicce e seducenti, che sanno di prospera contemporaneità. Si avvicina un ragazzo ben vestito, che mostra una sorridente ma sospetta cortesia, come se stesse per provare a venderci qualcosa. Ci si prepara allora a declinare qualsiasi offerta, con almeno la metà delle sue buone maniere. Invece il ragazzo ci indica solo dove si passa per uscire, nonostante la chiarezza delle indicazioni scritte. È un cartello informativo umano, in giacca e cravatta. In ogni luogo di interesse di Abu Dhabi c’è sempre qualcuno che ti dice dove devi passare, come se si cercasse di evitare l’indecisione del visitatore, l’assembramento. Una volta fuori aspettiamo la navetta gratuita promessa dall’albergo che ci ospita. Si ferma un autobus completamente bianco, una piccola scritta oltre il parabrezza: Abu Dhabi Experience. Chiediamo all’autista dove si prendono le navette degli alberghi. Dice che ci porta lui, e quasi senza lasciarci il tempo di rispondere afferra le nostre valigie e le carica sul bus. Saliamo anche noi, vagamente preoccupati, se non altro perché siamo gli unici passeggeri. L’autista dice che sta tornando a casa, e che l’hotel è di strada. Una volta a destinazione prende le nostre valigie e le mette davanti alla porta di ingresso dell’hotel. Non vuole soldi.

La prima navetta gratuita che porta in centro, ammesso che ce ne sia uno, parte alle undici del mattino. Va dritta per decine di chilometri, in una specie di autostrada a dieci corsie che attraversa la città. A destra e sinistra un continuo carosello di edifici di tutti i tipi. Per cinque minuti si vedono villette, poi condomini, poi centri commerciali, poi una sinistra sede di qualche organo governativo, poi villette, poi grattacieli, poi parchi, moli, e ancora grattacieli. Quaranta minuti di catalogo dell’architettura contemporanea, senza persone. È come se nessuno abitasse in quei palazzi, anche nei più piccoli. Sulle migliaia di balconi non ci sono piante, panni stesi o esseri umani. Le persone poi, non si vedono neanche per strada. Nessuno sembra voler andare a piedi ad Abu Dhabi, e non ci sono praticamente occasioni per camminare. In effetti nessun luogo della città è raggiungibile a piedi, nonostante i marciapiedi e le aiuole, curate in modo maniacale fino ai confini della città, siano diffusi dappertutto. Tra un posto degno di interesse e un altro ci sono chilometri, anche decine, e affrontarli a piedi, soprattutto quando il sole picchia, la maggior parte del tempo, è fisicamente logorante. Ci abbiamo comunque provato. Attraversiamo un grande parco, pulito, curato, pieno di fontane, piante rigogliose, alberi e uccelli. Ce ne sono molti di parchi così in città, e quasi mai c’è qualcuno. Non ci sono bambini che giocano e non ci sono anziani che leggono il giornale. Per attraversare una strada al semaforo poi, si devono percorrere un centinaio di metri sulle strisce pedonali. Tra le macchine ferme al rosso non si vedono mezzi pubblici. La gente si muove in macchina, sempre con vetri schermati e aria condizionata al massimo, per poi entrare in posti dove ci sia altrettanta aria condizionata. Viene da chiedersi, a febbraio, come sia possibile sopravvivere all’estate da queste parti.
C’è un’aria rilassata ad Abu Dhabi, non c’è stato modo di incontrare persone nervose o di fretta, cosa che colpisce in una città enorme che si muove solo in macchina. Tutti sanno benissimo cosa fare e dove andare, senza quasi ostacoli di sorta. Il fatto che non siano visibili forze dell’ordine lascia un senso di sicurezza sorprendente. Tuttavia, disseminati per la città, ci sono grandi ritratti dei leader politici della nazione, che vengono rappresentati quasi di profilo, che guardano l’orizzonte. Quelle immagini sembrano dirti: “Stiamo andando verso un futuro meraviglioso”, ma nello stesso tempo “Se fai qualcosa di sbagliato sono guai”.

Ci avventuriamo in una spedizione in mezzo al deserto. È facile arrivarci, basta andare dritti sull’autostrada cittadina finché non finiscono le costruzioni e i cantieri. Il nostro autista, che ci riporterà in albergo a fine giornata, si diverte a saltare da una duna e l’altra, insieme ad altre jeep che si sono radunate in un punto di raccolta prima di addentrarsi nel deserto. Alla fine la nostra carovana conta una quindicina di mezzi pieni di turisti, che fanno rapide soste in punti buoni per le foto Si arriva in una specie di campo base, un quadrato ritagliato nel deserto. Dentro, circondati da negozi di souvenir e baretti, ci sono cuscini e tavolini disseminati a terra. Al centro, un palco. Ci danno da bere e da mangiare, tutto compreso nel prezzo. Compriamo regalini. Dopo cena ci sono gli spettacoli, balli con spade, danze del ventre e mangiatori di fuoco, che per stile e scelte musicali sembrano più spezzoni di talent show o reels, che genuine esibizioni di artisti locali. La musica perennemente in diffusione, il vociare dei turisti, i motori dei quad e delle jeep rendono questo luogo, che potrebbe essere ideale per esperire qualcosa di molto vicino al silenzio puro, una specie di nave da crociera su sabbia. L’impressione è che qui si possa essere turisti solo così, che non ci sia la possibilità di avere esperienze autentiche, forse perché il paese, non presentando una spiccata identità culturale, non ha altro da offrire che esperienze culturali scopiazzate da altri. In città c’è il Louvre, c’è il Guggenheim in costruzione, c’è un padiglione della Ferrari esteso come un paesino del centro Italia, e poi c’è il World Trade Center, con due grattacieli fratelli che si guardano.

La grande moschea sembra il palazzo del sultano di Aladdin, ma disegnato con un gusto peggiore di quello degli animatori Disney. È come se gli emiratini, per rappresentarsi, abbiano guardato a come gli occidentali li abbiano rappresentati negli ultimi decenni, spesso con una superficiale accezione macchiettistica. . Per entrare alla moschea si deve attraversare un grande centro commerciale sotterraneo, dove c’è praticamente tutto. Una volta superati i controlli, rivolti soprattutto all’abbigliamento femminile, si entra nel Tolerance Path, un chilometro circa di tapis roulant, e sembra di stare in un moderno e confortevole aeroporto. Non si cammina mai. Una volta arrivati alla moschea si può solo passare da piccoli corridoi delimitati da cordicelle. Se ti fermi c’è sempre qualcuno che viene cordialmente a sollecitare il movimento. Per fare le foto nella moschea ci sono degli appositi punti, delle piazzole in cui è ammessa la sosta. Ci si affaccia su saloni enormi, pieni di marmo, di tappeti sterminati e lampadari di una pacchianeria dolorosa per gli occhi. Ogni tanto la voce registrata del muezzin canta una preghiera, e viene diffusa quasi ogni dieci minuti. L’impressione comunque è quella di trovarsi in un luogo venduto come sacro, ma che di sacro non abbia nulla. Non si percepisce quel piccolo brivido di sottomissione che anche i non credenti dovrebbero provare in un posto che è stato costruito per la divinità. La visita alla moschea dura una ventina di minuti. Lo struscio al centro commerciale un paio d’ore. esistesse Un parco a tema sull’Islam sarebbe grossomodo così.
Ci accorgiamo di aver dimenticato una borsa sul taxi che ci aveva portato alla moschea. Abbiamo la ricevuta del pagamento, che tutti i tassisti forniscono. Proviamo a chiamare l’azienda dei taxi senza successo. Un ragazzo al centro informazioni della moschea dice che farà tutto il possibile per aiutarci, e lo fa. Con un paio di chiamate, mentre smaltisce velocemente avventori che cercano la biglietteria, riesce a contattare il tassista, che in venti minuti torna alla moschea con la nostra borsa. Saliamo per tornare in albergo. Durante il tragitto lo stesso tassista riceve una chiamata. È il ragazzo del centro informazioni della moschea, che si assicura del successo di tutta l’operazione di recupero.

Il Louvre di Abu Dhabi è quanto di più lontano ci possa essere dal suo omologo francese. Una struttura moderna, messa nell’acqua come un villaggio di palafitte, coperta da una gigantesca cupola di ferro. Dentro c’è di tutto. La prima opera esposta è un trittico di sculture sulla maternità: una statuetta di una madre fertile del neolitico, una della dea Iside, e una della Madonna, nella stessa vetrina. Tutto il museo è riempito da questi accostamenti tra culture lontanissime nel tempo e nello spazio. L’idea, forse vincente, è quella dell’assenza di gerarchia o separazione tra le culture, cose che spesso si possono percepire durante le visite nei grandi musei delle capitali europee. . Ci si muove in mezzo alla storia del mondo, tra armature di samurai, libri di astronomia medievali tedeschi, quadri di Cezanne, mummie; il busto di Socrate e quello di Buddha sono uno accanto all’altro, così come copie preziose della Bibbia, del Corano e della Torah. Basta curiosare nel bookshop del museo per essere svegliati da quell’idea di tolleranza e di uguaglianza delle culture. Trovo un albo illustrato che racconta la storia di un albero in mezzo al deserto, che protegge dalle tempeste di sabbia e dal sole uomini e animali. L’ultima immagine del libro è quella di una bambina che abbraccia l’albero, tenendo in mano una bandiera degli Emirati Arabi. Un altro libro illustrato si chiama Two Great Leaders, con in copertina i due capi politici della nazione, che sorridono guardandosi a vicenda, mentre uno dei due punta il dito lontano, verso il futuro forse.

Abu Dhabi è un luogo che appare come un’anomalia, una contraddizione in perenne costruzione. Starci dentro significa provare una certa sospensione, come se intorno ci fosse una costante tendenza al cambiamento, e che questa sia l’unica speranza di sopravvivenza di una città che quasi si costringe a vivere in un modo in cui non si potrebbe. E se questa idea dell’anomalia fosse solo il risultato di un inevitabile confronto con il mondo al quale siamo abituati? Sì, perché l’altra idea, quella più disturbante, è che Abu Dhabi sia solo un esempio di come saranno le grandi città nel prossimo futuro, città divorate dal sole, dalla tecnologia e dall’autorità. Il tutto in vendita.