La copertina esibisce, nell’angolo in basso a sinistra, l’etichetta “romanzo” tipica dei volumi appartenenti alla collana “oceani”, ma è sufficiente un’occhiata rapida per capire che, se di romanzo si può parlare a proposito dell’ultimo lavoro di Paolo Nelli, Sindrome da assicuratore (La Nave di Teseo, 2024), è possibile farlo solo estendendo di molto i confini che definiscono il genere.
Muovendosi tra autobiografia frammentaria e personal essay, il testo rifugge classificazioni rapide e sommarie, forzando i limiti che separano la fiction dalla non-fiction e inserendosi all’interno del vasto filone di narrazioni spurie che, negli ultimi anni, hanno ridisegnato la mappa della produzione editoriale italiana e stimolato un fecondo dibattito critico (per avere un’idea di quest’ultimo basta pensare alla recente raccolta di saggi curata da Riccardo Castellana per Carocci e intitolata proprio Fiction e non fiction).
Al di là di tali questioni teoriche però, il libro di Nelli è interessante per il modo sottile con cui il suo punto di vista individuale di expat che cerca di farsi strada nella metropoli londinese abbraccia una prospettiva più universale, toccando questioni di vasta portata. Nel ricucire la trama di fatti personali e aneddoti memorialistici che riguardano la sua esperienza personale, la voce narrante attiva uno sguardo politico sul mondo e scava tra le sue storture economiche e sociali, mantenendo sempre un respiro letterario e ricercando una verità che «è quella del romanzo e non della vita» (i virgolettati presenti in questo intervento, quando non citazioni dirette dai testi, appartengono all’autore stesso, da noi raggiunto via email).
All’interno della carriera di Paolo Nelli, Sindrome da assicuratore rappresenta un oggetto narrativo anomalo («non identificato» direbbe forse ancora qualcuno) che pure fa parte di un progetto non organico, avviato qualche anno prima con Trattato di economia affettiva (La Nave di Teseo, 2018). Entrambi i testi, molto eterogenei tra loro a livello formale, hanno come protagonista Nello, chiaro alter-ego dello scrittore, e raccontano momenti cronologicamente successivi della sua vita; mentre Sindrome si concentra sugli anni più recenti, Trattato raccontava invece dell’infanzia e del processo di formazione del protagonista, figlio di meridionali emigrati in Brianza e cresciuto in una famiglia numerosissima, negli anni in cui in Italia si diffondeva rapidamente il benessere capitalistico.
Il primo romanzo – e qui l’etichetta di genere è calzante – oscilla tra la terza persona a focalizzazione interna e una originale seconda persona che dialoga astrattamente con i personaggi, quasi a volerne rileggere, con il senno e la maturità di poi, le intenzioni, le ambizioni, i sogni e le speranze. L’espediente attribuisce da subito al testo un taglio psicoanalitico – Paolo Nelli è scrittore e insegnante di italiano per stranieri di professione, ma psicologo di formazione –, per mezzo del quale l’autore scava tra le ansie e le soddisfazioni delle generazioni del boom, invischiate tra le maglie di un consumismo che declinava già sul piano economico tutti gli aspetti dell’esistenza («Scorrono gli anni ’70, con le loro canzoni, la fine di Carosello, le nuove pubblicità, i telefilm, le Brigate Rosse: lo slogan “tutto è politico” diventa nell’esperienza di Nello “tutto è economico”», come recita la quarta di copertina).
In Sindrome troviamo invece un Nello ormai adulto che, trasferitosi a Londra, si è faticosamente ritagliato un posto nella metropoli d’oltremanica. L’inevitabile trait d’union tra i due lavori – lo ribadiamo – è dovuto a questioni più biografiche che letterarie; nonostante i rimandi e le vistose analogie (entrambi, ad esempio, si aprono con il protagonista all’interno di un negozio al dettaglio, sineddoche efficace della nostra società) questi non costituiscono in alcun modo un percorso unitario dal punto di vista estetico. Come già detto, il lavoro più recente rifugge il romanzo puro, presentandosi come una serie di brevi episodi quasi autosufficienti, assemblati per mezzo di un sapiente montaggio narrativo.
Questa struttura propone così quattro principali piani di lettura: il preponderante racconto diaristico, fatto di avvenimenti singolari, epifanie improvvise, disavventure, incontri, delusioni e piccole gioie quotidiane; la guida cittadina, che conduce i lettori attraverso le strade e i quartieri di una Londra allo stesso tempo ammaliante e inospitale; l’indagine sociologica sull’odierna lotta di classe e sullo iato sempre più palpabile che separa i ricchi da tutti gli altri, ma anche sul disagio e sulle ansie che la vita da espatriato comporta; infine, una riflessione dal sapore metanarrativo sul senso dell’arte e della letteratura, sul valore politico ed epistemologico che esse esercitano oggi.
Tutto questo è tenuto insieme da un impianto che ruota intorno ad alcuni elementi chiave e nuclei tematici. Centrale tra questi è il motivo della bicicletta, che ricorre costantemente sia nel testo che nel paratesto – non solamente campeggia nell’immagine di copertina, ma risalta già nei titoli delle varie sezioni («bici nuova», «bici bianca» ecc.) – e agisce a più livelli. In primo luogo, essa svolge per il narratore la naturale funzione di mezzo di locomozione, la cui praticità è essenziale in una città come Londra, dove la facilità degli spostamenti può influire molto sulla qualità della vita. Pertanto, l’atto stesso del pedalare detta i tempi narrativi e la prospettiva da cui la realtà viene osservata ed esplorata. Inoltre, a questa finalità pragmatica se ne associa un’altra quasi diametralmente opposta: l’andare in bici rappresenta un momento contemplativo e “improduttivo”, che strappa alla routine quotidiana il tempo per la creatività artistica («molte delle cose che diventano pagina scritta sul computer, le scrivo mentalmente prima, mentre pedalo»).
A un secondo livello però, forse più inconscio, la bicicletta funziona come feticcio politico, sia in relazione al presente che al passato. Già in Trattato gli operai come il padre di Nello ritenevano che lo spostarsi in bicicletta fosse simbolo di un fallimento sociale e che quest’ultima andasse relegata all’uso sportivo. Farne, anni dopo, il mezzo di traporto prediletto non può che esemplificare per Nello – forse a livello inconscio – l’affrancamento dall’universo di valori dei padri. Allo stesso tempo, la bicicletta è simbolo di contestazione politica verso il presente: segno metonimico di un rifiuto sociale, rivolto a quanti consumano e ostentano ricchezza, concentrati come sono a vivere al di sopra delle loro – e nostre – possibilità.
Il secondo nucleo tematico è un leitmotiv cruciale per l’intero volume e riguarda il dissidio vissuto dal personaggio nella sua ricerca di identità: perso in una terra di mezzo fatta di poli contrapposti (ricchezza-povertà, indigeno-straniero, vincente-perdente), Nello fatica a posizionarsi nel mondo che lo circonda, non solo e tanto in termini pratici, quanto psicologici e antropologici. In numerosi passaggi del libro, la complessità e la disfunzionale stratificazione sociale di Londra costringono il protagonista a interrogarsi sulla propria condizione. Da una parte, il suo lavoro di insegnante privato di italiano lo porta a conoscere uomini (soprattutto di sesso maschile) d’affari con le loro mogli e a sbirciare nei loro appartamenti milionari o tra le pieghe dei loro stili di vita irraggiungibili. Così, Nello si trova a chiedersi quale sia il posto che occupa nella scala gerarchica forgiata dagli squali e se, all’interno di essa, lui si trovi più vicino al gruppo dei predatori o a quello delle prede:
Non so niente di questa ragazza che continua il suo lavoro mentre Janet parla, se capisce quanto Janet ha appena detto al cellulare, se questo lavoro per lei sia un raggiungimento importante o un ripiego. Non so dove viva, quanto venga pagata dal centro estetico che l’ha mandata qui. Janet, come le altre mie clienti, mi ha trovato per passaparola e paga direttamente me, senza intermediari o agenzie. Non so cosa possa pensare di me, come mi inquadri socialmente, se mi senta più vicino a lei o, vista la libertà con cui io e Janet parliamo, mi senta più vicino alla donna a cui sta facendo i piedi. (p. 45)
Dall’altra parte, la città stessa mostra ovunque la sutura per le ferite inflitte dal divario economico che separa inesorabilmente i dominanti dai dominati: Londra è un immenso tappeto di quartieri in cui comprare una casa è solo questione per ricchi, mentre le persone comuni (per non parlare dei poveri veri e propri) sono costrette a sostenere affitti da capogiro, oppure vengono spinte sempre più ai margini dallo spietato meccanismo di gentrification. Lo sguardo del protagonista scandaglia senza filtri questo stato delle cose, riportando lucidamente le cifre e i numeri che lo sostanziano: la differenza di prezzo degli immobili e dei salari, il rapporto tra provenienza e grado di successo lavorativo, il tasso di povertà urbana. Ma allo stesso tempo, simili momenti dal respiro saggistico e giornalistico sono incastonati dentro la cornice di un lirismo lacerante, che sfrutta le potenzialità del racconto in prima persona per produrre empatia e compartecipazione nei lettori.
Elementi simili erano presenti anche nel Trattato ed emergevano soprattutto nei frequenti flashforward offerti dalla voce narrante, ma avevano una polarizzazione molto diversa. Nell’atmosfera del primo romanzo emergeva ancora un orizzonte fervido di possibilità, un desiderio di riscatto reale e non soltanto retorico: sia il padre che Nello sentivano di potersi affrancare dalle loro radici, senza mai rinnegarle. Il personaggio di Sindrome invece è schiacciato dal peso di un’ingiustizia che inibisce il desiderio di ascesa sociale e che dirotta ogni slancio verso il basso. Londra stessa, nel suo splendore e calore umano, diventa la miniatura di un ordine globale perverso e acefalo, contro cui si fatica a ribellarsi in maniera concreta.
Ed è qui che subentrano l’arte e la letteratura, la cui sostanza politica è evidenziata nei numerosi estratti citazionistici, metanarrativi e meta-riflessivi del volume. Nella sezione «bici nuova» lo scrittore cita un passaggio significativo de La camera chiara di Roland Barthes, in cui il critico francese parla del punctum, ovvero di un elemento all’interno della fotografia che trascende i dettagli e il puramente visibile, ribaltando l’analisi logico-razionale dello spettatore per penetrare nel suo lato più emotivo. Allo stesso modo la scrittura di Paolo Nelli bisbiglia all’orecchio dei lettori una verità che è più grande della somma delle parti presenti sulla pagina; e lo fa talvolta con sarcasmo e distacco ironico, altre volte con un autentico afflato poetico e letterario.
Questo processo è incapsulato nel capitoletto che dà il titolo al volume; la «sindrome da assicuratore» viene suggerita da un personaggio incontrato a un evento, il quale importuna Nello con il lungo e dettagliatissimo racconto della sua vita e del suo – già noioso – lavoro. Da quell’incontro così insignificante e tedioso Nello ricava una importante massima sulla nostra condizione umana e cioè «l’idea che il racconto di sé assicura al sé una conferma dell’esistenza»: così come l’inopportuno assicuratore «racconta la sua vicenda per esistere», lo scrittore «scrive cose per assicurare che anch’esse abbiano una forma di esistenza, sentendo in sé un’illusione demiurgica che, prima di tutto, è una necessità personale» (p. 265).
Questa malcelata dichiarazione di intenti mette a nudo, a nostro parere, proprio gli aspetti più rilevanti del lavoro di Paolo Nelli, sia dalla prospettiva critica che da quella più propriamente politica. Da un lato, Nelli confeziona una narrazione ibrida in cui lo sguardo della voce narrante si confronta con il reale solo per interiorizzarlo e dissezionarlo sotto la lama affilata delle proprie emozioni e del proprio stato psichico. Questa forma di «realismo testimoniale» (prendendo in prestito una definizione coniata da Raffaele Donnarumma sulla scorta delle teorie di Giorgio Agamben), condivide fatti e circostanze apparentemente irrilevanti per riprocessarne, in un dialogo aperto con i lettori, il trauma e il rimosso, così come gli attimi di pura felicità. Così facendo, la letteratura ricuce i frammenti di un’esistenza per fare dell’esperienza più intima un discorso collettivo, di una storia personale tante storie condivise; e allo stesso tempo essa sottrae un ricordo fugace al soffio del tempo, per renderlo immanente e duraturo nell’intento di «fare esistere questa mia città, questo mio tempo e, certo, come tutte, questa mia vita».
Dall’altro lato, nell’epoca della post-verità e del narrative turn, dove prevalgono l’egocentrismo, l’individualismo e l’interpretazione meramente emotiva di fenomeni economici e sociali, il modo sincero e schietto con cui il narratore si concede ai lettori, il tono dialogante e anti-epico, hanno un elevatissimo potenziale politico. Pur occupando il centro della scena sul piano dell’enunciazione e del discorso – l’angolazione da cui guardiamo al mondo è sempre quella singolare del protagonista –, il narratore si colloca in una posizione marginale a livello sociale; il suo essere scrittore impegnato in attività “improduttive” e poco remunerative come quelle umanistiche e letterarie, immigrato nell’Inghilterra del post-Brexit, non abbastanza ricco da potersi permettere una casa nella città in cui vive, sono tutti fattori che, in una Londra che è emblema dell’iperliberismo finanziario più spietato, scavano uno spazio di resistenza civica e sociale.
Nonostante ciò, lo scrittore si guarda bene dall’imporre una visione del mondo o una qualche verità. Condividendo le proprie esperienze ed emozioni – ma anche le proprie letture e conoscenze nozionistiche – egli dichiara in modo sottile il suo posizionamento politico e intellettuale, invitando chi legge a scegliere liberamente una collocazione rispetto ad esso. In tal modo egli politicizza la propria esistenza e le proprie azioni rifiutando sia la tentazione di cedere alle facili pseudo-ideologie sempre più popolari al giorno d’oggi; sia il racconto sincopato e autoreferenziale tipico della cronaca contemporanea e delle stories in formato social, preferendo invece l’ampio respiro di una narrazione intermediale, che mischia al suo interno codici e registri diversi che vanno dal giornalismo alla memorialistica, dalla fiction al saggio critico. Nella condizione odierna della post-verità dove domina il narcisismo più individualista, ma dove il soggetto umano è stato ridotto a bacino di dati da saccheggiare, Paolo Nelli ci mostra come l’“io” possa ancora essere un terreno del contendere, inteso in termini gramsciani, e quindi fulcro per una insurrezione pacifica.
Nel rispetto di tale spirito, il libro si conclude con una nota positiva, un’«unghia di luce» che sopravvive al buio della pandemia, quando anche l’ultima illusione di rivoluzione sociale veniva disattesa e frustrata. In quel momento, costretto ad accettare la sopravvivenza del vero virus del millennio, e cioè un sistema politico ed economico iniquo e ormai inemendabile, il protagonista rifiuta di abbandonarsi alla disperazione per lasciarsi inondare, nonostante tutto, dallo splendore della speranza:
E tutto questo rimettersi in moto, questa umanità che aggrappata a sé stessa cerca di tenersi a galla, questa specie di rinascita, qualsiasi cosa possa rappresentare, no, non l’avevo previsto, ma, a passarci in mezzo, a rivederla muoversi, un po’ riesce ad emozionare. (p. 297)

Paolo Nelli, Sindrome da assicuratore, Milano, La nave di Teseo, 2024, 304 pp., € 21.