Tra gli innumerevoli talenti che Louise Erdrich ha saputo mettere in mostra nei suoi quarant’anni di produzione letteraria, uno dei più impressionanti è senz’altro la capacità di creare personaggi convincenti e tridimensionali inseriti in contesti umili e popolari, spesso in piccole comunità del Midwest statunitense. Braccianti, lavoratori in fabbrica, addetti alla sicurezza, negozianti in difficoltà. Persone il cui lavoro è spesso il fattore chiave che determina i ritmi e gli imprevisti delle loro vite. Crystal, una delle protagoniste de La grande piena (tradotto in Italia nel 2025 da Silvia Rota Sperti per Feltrinelli), è un’autista di camion che passa le notti a trasportare tonnellate di barbabietole da zucchero dai campi dei coltivatori locali alla fabbrica dove vengono processate. I turni brutali la costringono a una vita notturna; le lunghe ore passate a guidare le causano un mal di schiena che si fa sempre più debilitante.

Eppure Crystal, come tutti i personaggi di Erdrich, non è definita o limitata dal suo lavoro, né ridotta ad esso. Le sue difficoltà economiche, seppur a tratti spaventose, non vengono sfruttate per suscitare nel lettore facile indignazione o pietà, né, come accade con una certa narrativa naturalista di stampo classico, diventano occasioni voyeuristiche per affacciarsi sul mondo degli stenti e della miseria. Crystal è invece dotata di una vita interiore ampia e complessa, di sogni e ambizioni, antipatie e pregiudizi, difficoltà emotive e convinzioni irrazionali. È molto attaccata alla sua casa, che ha ristrutturato e fatto sua nel corso degli anni. È determinata a lasciare il marito, un sognatore pieno di fascino ma anche vanitoso e pigro. È fiera di sua figlia Kismet e a lei molto legata, ma è anche convinta che stia buttando via la sua vita sposandosi presto e male. Catturare la piena complessità di un essere umano (per quanto fittizio) senza ridurlo a un archetipo letterario è qualcosa di estremamente difficile, soprattutto quando ciò avviene attraverso l’intreccio di innumerevoli vite, in un’opera densa come La grande piena che riflette l’opera narrativa di Erdrich in senso ampio.

Ciò non nega tuttavia che i personaggi dell’autrice siano anche influenzati, spesso loro malgrado e in modi anche inaspettati, dai mondi che li hanno generati, mondi a volte scomparsi e dimenticati. Un aspetto, questo, che non sorprende se consideriamo che le comunità descritte da Erdrich (autrice nativo-americana) sono luoghi in cui persone indigene convivono e si mescolano da tempo coi discendenti degli immigrati europei dell’Ottocento. Wendy Geist, uno dei personaggi più bizzarri de La grande piena, è considerata una donna ricca dalla comunità, e vive senz’altro una vita agiata, almeno per gli standard umili del luogo; eppure ogni sua azione, anche la più estrema o irrazionale, è in qualche modo influenzata da una mentalità e una visione del mondo sviluppati nel corso di un’infanzia poverissima, segnata dal trauma di vedere la propria fattoria di famiglia inglobata e distrutta da quella di un grande proprietario. Wendy vive dunque una vita per molti versi “sospesa,” in cui è al contempo attaccata ai suoi comfort materiali (a cui è facile abituarsi, e difficilissimo rinunciare) ma anche piena di risentimento per l’agricoltura intensiva che ha distrutto la sua famiglia durante l’epoca spietata delle riforme economiche di Reagan – ma che garantisce ora il successo economico di suo marito.

L’agricoltura moderna e le sue perversioni sono uno degli argomenti trainanti e unificanti di questo romanzo corale. La grande piena è ambientato ad Argus, una comunità rurale del Nord Dakota, nel periodo immediatamente successivo alla crisi economica del 2008. L’economia locale è incentrata sulla barbabietola da zucchero, prodotta da famiglie di coltivatori legate assieme in una grande cooperativa, trasportata fino alle fabbriche da autisti come Crystal, e rifinita nel suo richiestissimo prodotto finale. Il fiume che attraversa questa regione, quel Red River che dona al libro il suo titolo originale (The Mighty Red), ne garantisce la fertilità e abbondanza, forse ancora per poco: questo paradiso naturale è infatti ormai quasi completamente eroso dalle coltivazioni intensive di quella che il romanzo definisce forse la pianta meno nutriente sul pianeta, coltivata a scapito di innumerevoli erbe ben più adatte al sostentamento umano e animale, ma meno redditizie nell’odierna industria alimentare.

In un’epoca in cui il cambiamento climatico si dipana imperioso anche se spesso ignorato, Erdrich si concentra sull’esperienza di chi è in prima fila in uno degli ambiti più colpiti dal cambiamento ecologico, ossia la produzione agricola: famiglie di contadini e coltivatori che vivono sulla propria pelle, spesso letteralmente, le conseguenze dell’agricoltura intensiva moderna – tra cui gli effetti nocivi, a volte protratti nel tempo, che pesticidi ed erbicidi infliggono a chi vi entri in contatto, l’efficacia con cui le monoculture distruggono anche i terreni più fertili, svuotandoli di ogni nutrimento e trasformandoli in polvere arida, e le conseguenze per la biodiversità di questo genere d’industria.

Quello che risulta intrigante nella visione del mondo agricolo trasmessa dai personaggi di Erdrich è come il sistema delle monoculture intensive non appaia affatto come una situazione inevitabile, il picco di una presunta ondata inarrestabile del progresso, bensì come un’aberrazione, una forzatura: il risultato di politiche volte a incoraggiare la crescita esponenziale del mercato; un errore che non appare tale soltanto perché le sue conseguenze nocive non sono immediatamente ovvie. Gli uomini e le donne di Argus ricordano distintamente la varietà di vita animale che popolava la campagna della loro infanzia: la presenza di uccelli e cavallette, le orde di rane che emergevano ogni anno dagli acquitrini. Ricordano un’epoca in cui l’allevamento a terra del pollame non doveva essere definito tale, poiché era il solo modo esistente di allevare polli in fattoria. Questo mondo perduto appare vicinissimo e in grado di essere, se non recuperato, per lo meno restaurato, con grandi sforzi e duro lavoro. Non mancano nel romanzo esempi di membri della comunità che sperimentano metodi di coltivazione naturali e meno intensivi sui propri campi, capaci di restituire al terreno parte dei nutrienti perduti.

Sempre attraverso le lenti complesse e contradditorie dei suoi personaggi, Erdrich è in grado di riflettere su come questi metodi agricoli tradizionali o alternativi non offrano risposte facili e infallibili ai problemi delle nostre società (le coltivazioni biologiche e naturali, ad esempio, non possono fruttare gli stessi quantitativi di quelle intensive), trattando questi argomenti senza fare scontialle complessità dei dilemmi odierni, ma al contempo senza frustrare le speranze di un cambiamento positivo. Nell’ambito umano e privato dei suoi personaggi, da cui il romanzo non si distacca mai troppo, La grande piena offre un’immagine schietta della vita di coltivatori il cui successo odierno non è mai garanzia di successi futuri; in cui la cognizione dei pericoli per la salute e l’ambiente delle monoculture non rende più semplice rinunciare a questo modello di vita. Si tratta di uomini e donne desiderosi di trovare soluzioni ai problemi che li affliggono, ma restii, al contempo, ad ascoltare i dettami di chi è estraneo al loro stile di vita, e non è costretto a trarre il proprio sostentamento da un terreno e un territorio tanto generosi quanto imprevedibili.

Il mondo agricolo non esaurisce l’intreccio del romanzo di Erdrich. La grande piena usa infatti lo sfondo di questa comunità rurale per tessere una trama fatta di storie tanto quotidiane quanto straordinarie, vite comuni le cui complessità assumono toni quasi fiabeschi o epici. Un giovane del luogo abbandona la cittadina per cercare un lavoro, proficuo ma pericolosissimo, nell’industria petrolifera che sta al contempo arricchendo e devastando la regione. I fondi dedicati al restauro della chiesa locale vengono sottratti da un cittadino apparentemente insospettabile. Due giovanissimi fidanzatini decidono, forse senza un buon motivo, di sposarsi. Sottesa a queste e altre trame vi è poi una “trama fantasma”, al contempo onnipresente e silenziosa: un incidente nel passato recente di Argus in cui sono morti alcuni liceali, e che ha creato profonde spaccature nella comunità.

Anche in questi ambiti ciò che più brilla è la capacità di Erdrich di trattare i temi più delicati – come traumi, difficoltà di coppia, comportamenti abusivi e ricatti emotivi – con una franchezza e saggezza rari. Il matrimonio tra Kismet e Gary – una liceale promettente ma priva di certezze, e un ragazzo popolare ma profondamente disturbato – concede al romanzo la possibilità di trattare il tema delle pressioni familiari e sociali in un modo onesto ma bilanciato, che rifugge dalle semplificazioni narrative cui fanno spesso affidamento trame di questo genere. La complessità dei sentimenti che entrano in gioco in queste situazioni, soprattutto quando alle difficoltà di coppia si aggiungono abuso domestico e problemi psicologici, è esposta da Erdrich con una capacità analitica e una schiettezza che ricordano Il colore viola di Alice Walker, di cui vengono rievocate la forza e la finezza. In La grande piena Erdrich compie dunque l’ennesimo miracolo narrativo, creando un equilibrio non scontato tra violenza e tenerezza, humor e disperazione. Il suo è un romanzo che risulta sempre delicato, cauto, anche quando tratta i temi più brutali: la rabbia e i sotterfugi di persone in estrema difficoltà emotiva, le tendenze casualmente autodistruttive di chi può contare su ogni comfort, l’apparente impossibilità di continuare a vivere dopo un grande trauma. È una delicatezza nata non dall’esitazione, ma dalla spigliatezza mai arrogante di un’autrice che sa cogliere le complessità e contraddizioni della vita, e trasmetterle con quell’insieme di chiarezza ed empatia, di arguzia sociale e onestà emotiva, proprie del romanzo come forma d’arte. La grande piena sa parlare delle devastazioni causate dalla monocultura della barbabietola da zucchero – ma sa anche che lo zucchero così prodotto è alla base di dolci deliziosi, preparati dai personaggi per mostrarsi a vicenda il proprio amore. È l’opera di un’autrice capace di ignorare ogni convenzione narrativa e ogni distinzione tra letteratura alta e popolare, riuscendo a scoprire sempre nuovi modi di spiegare cosa significhi essere umani.


Louise Erdrich, La grande piena, traduzione di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, Milano 2025, € 22, 448 pp.