Prima è venuta la musica. Poi i passi, contati uno dopo l’altro. E infine tutto il resto: il mondo che ci investe in tutta la sua evidenza, come un crollo o un altro lavoro da finire.

La scrittura di Vitaliano Trevisan è stata e rimane questo richiamo partito da lontano. Un richiamo che si è fatto via via più forte e stringente, tanto da rendere lo scrittore veneto un importante punto di riferimento per un discorso critico comprensivo intorno alla letteratura degli Anni Zero e oltre. I temi, i modelli e gli agganci extra-testuali che l’opera di Trevisan ha imposto in modo così intransigente e ricorsivo sono stati oggetto di studio accademico e discussione militante, sia tra chi si occupa di letteratura sia tra i lettori più affezionati.

Incombente sullo sfondo era sempre la sua presenza fisica, accentuata dall’attività di attore. Come raramente accade nel nostro tempo, Trevisan era davvero uno scrittore-corpo, che ha portato su di sé i segni della propria coerenza come uno stemma, con tutti i pregi e i rischi del caso. È difficile, quindi, separare la vita dalla letteratura in un autore che ha vissuto sulla sua persona gran parte delle cose rivendicate nei propri libri, fino alla punta estrema di Works (Einaudi, 2016). Tuttavia, più che le considerazioni sull’uomo Trevisan, quelle che tanto hanno riempito le pagine di giornali e riviste alla notizia della sua recente scomparsa lo scorso gennaio, dovrebbe interessarci l’interezza della sua parabola letteraria, in cui ha risolto da vero autore la propria esperienza di vita.

Partire dalle immagini della musica, dei passi, del crollo e del lavoro che scandiscono i libri più importanti di Vitaliano Trevisan può essere utile per iniziare ad addentrarsi in un percorso che ha abbracciato vari campi ma che ha fatto della scrittura la traccia dominante. Si è spesso detto che è uno scrittore dell’ossessione, che gira sempre attorno agli stessi punti fissi ai quali nel tempo ha legato il proprio nome: il Nord-Est e in particolare il paesaggio fisico e sociale del vicentino come metafora dell’intero paese, il peso della memoria familiare che si fa spettro da cui liberarsi, il desiderio impossibile di fuga e sparizione, il disagio psichico vissuto con la lucidità magnetica di un referto, il rapporto viscerale con un pantheon personale di modelli che vanno da Thomas Bernhard e Samuel Beckett alla pittura di Francis Bacon e la musica di Keith Jarret.

Uniti a un senso di provocante libertà da ciò che è considerato politicamente corretto, sono questi gli aspetti che di volta in volta sarebbero stati ripetuti nei singoli libri, trascendendoli in un’opera sempre uguale a se stessa. Piuttosto che guardare al momento particolare di un lungo e articolato sistema di scrittura, l’impressione è che alla fine sia stato più interessante e redditizio rintracciare il solito Trevisan che sviscera implacabile la devastazione umana e paesaggistica della solita Italia, attraversandola prima sotto il nome di Thomas (Bernhard!) in moto o a piedi (ma «non sono un fottuto flâneur», ci ha giustamente ricordato), poi tolta la maschera con il proprio nome e cognome. E anche le critiche di compiaciuta ambiguità morale e pedissequa imitazione dei propri modelli, concentrandosi sempre sugli stessi elementi slegati tra loro, non hanno contribuito a dare un’immagine chiara dei passaggi che la sua opera ha affrontato di volta in volta. Una produzione fatta di racconti, prose brevi, saggi, sceneggiature, non-romanzi, testi teatrali e di teatro musicale credo meriti un’attenzione che non cada nel gorgo del singolo spunto, spesso usato, specie in ambito accademico, per digressioni sociologiche e antropologiche di dubbio valore.

La scrittura di Trevisan ha sì dei temi ricorrenti, ma come nel linguaggio musicale questi sono ripresi e sviluppati in vari modi. I primi due libri infatti sono all’insegna di uno stretto legame con la musica jazz, non solo a livello di contenuto ma anche stilistico. Il non-romanzo Un mondo meraviglioso. Uno standard, dove appare per la prima volta il personaggio di Thomas che verrà ripreso nei successivi I quindicimila passi. Un resoconto e Il ponte. Un crollo, è effettivamente lo standard che si professa di essere in sottotitolo. Lo standard della scrittura di Trevisan, su cui improvviserà e varierà nel tempo, è il monologo fluviale che oscilla jazzisticamente tra scatti nervosi e pause inaspettate.

A raccontare è un uomo dalla tormentata condizione psichica che fronteggia la propria memoria personale e familiare nel contesto asfittico di una società democristiana votata alla religione del lavoro e del denaro. Gli elementi narrativi si accumulano per episodi allucinati nei dintorni di Vicenza. Compaiono un collega di lavoro all’apparenza normale ma che impazzisce, un alpino mutilato che rincorre il protagonista, una donna russa ingannata da un italiano, un inquietante pescatore glabro, un uomo dal volto deforme, il padre poliziotto malato in ospedale. Alla fine il mondo meraviglioso è solo una musica, un sogno a occhi aperti in cui si immagina di cantare e ballare sopra le note di What a wonderful world, il risvolto sublime di un mondo marcio e terribilmente stonato.

Qui c’è già molto ma non tutto. Oltre al sottotitolo, viene da Bernhard il dispositivo di enunciazione (lo «scrive Thomas») che dà inizio a una narrazione interna fittizia, una maniera di impostare il discorso che si smarca immediatamente da ogni possibile autofiction. Non troveremo quindi un ambiguo gioco di specchi sulla verità tra autore e lettore (tanto che Trevisan ha più volte affermato di non preoccuparsene), ma una forma antiromanzesca che è esplicito processo mentale e quindi di scrittura. Ricollegandosi alla tradizione novecentesca della crisi dell’Io, Bernhard e Beckett in testa, e calandola nel paesaggio veneto e nella propria storia psichica, Trevisan inizia anche un lavoro di variazione stilistica che si evolve nel tempo.

I tre racconti e il breve pezzo drammaturgico di Trio senza pianoforte. Oscillazioni hanno infatti uno stile più lineare, meno tortuoso, e l’attenzione è nettamente spostata sulla riflessione artistica, sull’imitazione e la fuga che da elementi musicali diventano letterari ed esistenziali. Sono racconti più classici, che non accolgono il cruento con il gusto postmoderno di tanta narrativa degli anni ’90, ma si attestano piuttosto sulla scorta della grande letteratura mitteleuropea del passato. Questa prima costruzione di trame brevi, che sono ancora rese da un narratore di secondo grado che esplicita il processo di scrittura, evolverà poi verso un completo assorbimento di ogni deriva nevrotica (e quindi stilistica) nelle prose brevissime e cristalline di Shorts. Qui solo fatti e cose, l’evidenza dello stile è l’evidenza di un mondo (non) meraviglioso. Ma a differenza dell’evidenza razionale e sistematrice del modello dei Sillabari di Parise, quella di Trevisan è minacciosa e aperta al dubbio. Tutto quello che resta fuori continua infatti il suo percorso con il «resoconto» I quindicimila passi.

Se fino a qui era la musica a contare, cioè l’urgenza (Trevisan ha dichiarato di aver scritto di getto e riletto solo una volta il suo primo libro) di rendere l’oscillazione tra il monologo tragico e il racconto sintomatico, adesso i temi e le ossessioni si precisano meglio in una forma che resta quella del monologo ma accoglie anche inserti saggistici e paratestuali nuovi. I passi contati ossessivamente da Thomas, accompagnati dal processo mentale che ripercorre la storia familiare dominata dalla madre, la sorella e soprattutto il fratello, che si scoprirà essere solo un doppio fantasmatico dell’Io, sono il computo esorcistico di un cammino tra gli scarti del presente: rifiuti, resti di piccoli animali schiacciati, aree spogliate della vegetazione e lasciate nel completo degrado.

Si gira attorno alla pittura di Francis Bacon e alla «periferia diffusa» di Vicenza, mescolando il dettaglio straniante con la riflessione esatta sull’architettura urbana e il suo sviluppo storico. Siamo di fronte a un testo che riesce nel difficile equilibrio di tenere insieme per forza di lingua la nevrosi interna di un Io alienato e la lucidità scientifica di un osservatore attento, che scova interstizi di resistenza tra la cementificazione caotica. L’idea della scomparsa, della fuga e del suicidio ritornano ossessivamente ma sono sempre trascesi nell’inerzia dell’atto del camminare e infine in un desiderio di fuga verso i boschi dell’Amazzonia, simile al sogno hollywoodiano di Un mondo meraviglioso. Si è molto insistito sugli elementi sociologici e urbanistici, ed è vero che Trevisan tornerà spesso nei libri successivi su tali aspetti. Ma per ora l’evoluzione decisiva è questa sintesi tra parti saggistiche, con tanto di note, citazioni e una bibliografia molto precise, e la materia magmatica e incandescente del racconto.

Le riflessioni saggistiche saranno sviluppate autonomamente in Tristissimi giardini, ma l’uso del paratestuale in forma di nota e citazione, oltre alle citazioni interne al corpo testuale, resteranno a produrre un effetto straniante e direi di dissociazione anche in Il ponte e Works. E bisogna qui dire qualcosa sul rapporto che Trevisan instaura con la tradizione, con i modelli scelti. Perché le citazioni fuori e dentro il testo non rispondono a un decoro di facciata. Se prendiamo due raccolte di racconti, Standards vol.1 del 2002 e Grotteschi e arabeschi del 2009, notiamo come nella prima i testi sono aperte riscritture di altrettanti racconti di Beckett, Dickens, Kierkegaard e Bernhard, mentre nella seconda il modello di Poe è assunto in modo viscerale, facendo aderire la propria oscurità a quella dell’americano ma raffreddandola in «una luce del Nord, che non dà requie». Ci sono dentro brandelli della trilogia di Thomas accompagnati da sonetti di Petrarca, racconti neri di atroce crudeltà come Madre con cuscino, fino al resoconto-trasfigurazione del rapporto umano e professionale intrattenuto con Matteo Garrone per la realizzazione del film Primo amore. Non c’è un uso ironico o disinvolto della tradizione bensì una gelida serietà. E se grandi tragici come Beckett o Gadda erano anche grandi comici, in Trevisan la comicità è davvero rara, potendosi trovare solo crudele e sogghignante in certi brani di Shorts o nei testi drammaturgici come Una notte in Tunisia.

Il ponte. Un crollo chiude il percorso iniziato con Un mondo meraviglioso e lo fa dalla prospettiva di un Thomas che ha lasciato da tempo Vicenza per rifugiarsi in Germania. Come tanti altri personaggi di Trevisan anche il suo alter-ego è fuggito, ma i fantasmi e «un passato che non smette di crollare sul presente» lo attanagliano. Il passo prima di aprire le porte all’autobiografia selettiva di Works è un testo composito ma che non trova quella sintesi musicale che avevano i precedenti. Andando verso una tentazione di trama e un effettivo finale, Il ponte spinge troppo sulla spiegazione e sull’inventiva di matrice pasoliniana, non facendole sentire attraverso la frenesia ossessiva dell’autore (che pure qui rivela più esplicitamente il suo disturbo bipolare) ma quella del polemista incazzato. L’Italia e i suoi mali inestirpabili, la famiglia come trappola e le madri come prime aguzzine dell’anima, la moda dello storytelling a tutti i costi, il giornalismo e i tanti altri bersagli del libro lo caricano con uno stile che si è fatto più addomesticato, là dove prima oscillava intonato tra evidenza e straniamento. Il processo mentale e linguistico così imprevedibile si è ridotto alla ripetizione di un processo giudiziario: per mantenere viva e credibile la materia non restava che mettere direttamente la propria vita in letteratura.

Con Works Trevisan ripercorre la propria vita ma lo fa spogliandosi della maniera bernhardiana, di cui mantiene comunque la veemenza in tanti passaggi, e adottando un andamento da prosa tecnica, professionale (non a caso appare e scompare il richiamo a Machiavelli). Fa insomma una scelta che su una base protocollare e incalzante, che potenzia l’andamento veloce di trama da un lavoro all’altro, accende quei momenti di luccicanza crudele che lo hanno da sempre caratterizzato, qui ancora più disarmanti nel contesto autobiografico. Ed è un’autobiografia d’artista nel senso etimologico della parola, di un uomo dalle tante arti lavorative, che alle soglie della sua vita di scrittore si ferma, perché questo lavoro non l’ha ancora smesso. Si è detto tanto intorno, dal punto di vista sociologico, etico, storico, come e più degli altri libri di Vitaliano Trevisan. Con la sua scomparsa possiamo solo aggiungere che quella formidabile commistione di vita e opera resta ancora «una luce che non dà requie».