Il 2018 è stato un anno positivo per il cinema. Non tanto per gli incassi, seppur buoni considerando il sempre più consolidato potere di Netflix e l’annus horribilis del 2017, ma in termini di qualità, in particolare italiana. Alice Rohrwacher con Lazzaro Felice ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes, Dogman ha confermato il grande talento di Garrone nel raccontare storie ai margini, Minervini si consacra come uno dei più grandi documentaristi in circolazione con What you gonna do when the world is on fire? Anche il resto del cinema mondiale ha dimostrato di essere più vivo che mai, attraverso la voce di autori noti e meno noti, in particolare in un genere: quello horror. Qui ho scelto le 5 pellicole che hanno segnato questo 2018.

Isle of dogs (Wes Anderson)

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Il film ha aperto l’ultima Berlinale ed è stato il vero primo evento della stagione. Chi si aspettava l’ennesimo esercizio di stile del più manierista dei cineasti mondiali è rimasto colpito da un’estetica inedita, più ruvida ed espressionistica. La storia di un manipolo di cani cenciosi confinati in un’isola da un governo autoritario di un Giappone distopico potrebbe sembrare all’apparenza il soggetto più strampalato e meno interessante della storia del cinema. La bravura di Anderson consiste nel dare anima ai suoi pupazzi in stop-motion, mettendo da parte il mondo levigato delle sue opere precedenti per dare più spazio alla costruzione dei personaggi e a un’atmosfera insolitamente cupa. Il risultato sono un’ora e quaranta di pura avventura.

A beautiful day – You were never really here (Lynne Ramsay)

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E poi arriva il martello. Lynne Ramsey firma una pellicola dalla trama lineare, ma tesa come una corda di violino. A reggerla un Joaquin Phoenix perfettamente a suo agio nei panni di un uomo disturbato – che stesse già provando il suo Joker? – che cala la sua furia autodistruttiva su chiunque lo ostacoli. Immediato il confronto con un altro film cult, Taxi driver, per via del passato militaresco di entrambi i protagonisti particolarmente violenti e la presenza di una ragazzina innocente quanto perduta, che il nostro eroe dovrà salvare da un inferno di depravazione. Un film a tratti perfetto anche grazie alla colonna sonora del chitarrista dei Radiohead, Johnny Greenwood.

Hereditary (Ari Aster)

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Da qualche anno sta prendendo piede un nuovo modo di concepire il cinema horror, più articolato nelle atmosfere e meno incentrato su facili trucchi stile jumpscare. Babadook, The Witch, It Follows e Get Out sono alcuni tra i principali titoli di questa nuova tendenza che piace molto ai critici, tanto da essere stato coniato un nuovo termine: “elevated horror” . La paura torna dunque a frequentare i salotti buoni riscoprendo il valore di una buona sceneggiatura e di uno sviluppo meno scontato dei personaggi. È il caso di Hereditary, film dell’esordiente Ari Aster, incentrato sulle vicende di una famiglia i cui membri faticano a relazionarsi e dove un tragico incidente non farà che precipitare la situazione. Fin qui sembra la trama di un drammone hollywoodiano da domenica pomeriggio su Canale 5, se non fosse che l’orrore continua a scavare sottotraccia per tutta la durata del film, fino ad esplodere nella parte finale in tutta la sua magnificenza.

La ballata di Buster Scruggs (Joel e Ethan Coen)

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I fratelli Coen sono quel genere di cineasti che tutti danno per finiti, ormai privi di idee e un po’ vecchiotti, fino a quando non sfornano l’ennesimo film prezioso che non ti aspetti. La ballata di Buster Scruggs, film a episodi sul vecchio west prodotto per Netflix, poteva sembrare il compitino pagato molto bene dai nuovi padroni dell’intrattenimento mondiale, quasi come la performance dimenticabile della vecchia gloria del calcio nella squadra ricca di un campionato sconosciuto. E invece i Coen colgono l’occasione per realizzare un formidabile libro illustrato del mito della frontiera, capace di suscitare il riso e le lacrime grazie a una scrittura ai limiti del poetico. Ogni episodio racconta un archetipo del west, come il pistolero infallibile, l’impiccagione del bandito, il cercatore d’oro, la carovana, e ognuno di essi racchiude un messaggio: una sorta di parabola sui giorni che stiamo vivendo. I Coen affidano la rappresentazione delle loro epiche tascabili a bravissimi attori (tra cui Brendan Gleeson e Tim Blake Nelson) e offrono a Tom Waits uno dei ruoli più affascinanti della sua carriera cinematografica.

Suspiria (Luca Guadagnino)

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Anche se in Italia arriverà solo nel gennaio del 2019, il remake del film di Dario Argento resta uno dei progetti cinematografici più curiosi di quest’anno. Luca Guadagnino lascia le languide atmosfere della campagna cremasca di Call me by your name per affondare le mani nel sangue di un sabba berlinese. E lo fa con l’entusiasmo di un vero fan dell’horror. La nuova versione del capolavoro del 1977 presenta scelte ambizione fin dai primi minuti, discostandosi sempre più nel corso del film dall’originale, sia nello stile che nella trama. Se Argento puntava più su atmosfere da thriller – con tanto di lama nel buio – Guadagnino sceglie di evidenziare l’elemento sovrannaturale e il rapporto tra allieve e insegnante all’interno dell’accademia di danza Markos. Dakota Johnson, con il suo recitare “passivo”, è una perfetta Susie, forma plasmabile nelle mani della direttrice Madame Blanc, interpretata da un’istrionica Tilda Swinton. Bene e male si scontrano fino a confondersi, creando uno dei finali tra i più forti visti quest’anno.