Arrivare

Arrivare d’estate, accaldati, camminare per ore per svuotare la mente. Arrivare e stanziarsi in una stanza d’albergo o una stanza d’amici, calda di sole e con le finestre spalancate sul vento. Lasciare che la città allestisca, silenziosa, l’accoglienza.

Il pavimento delle strade, più tardi, brilla di bianco e di nero, la calçada portuguesa scivola sotto le suole, fa scricchiolare le scarpe di gomma. La città si snoda ed esplode di colline che s’affacciano sul fiume.

Siamo arrivati dall’alto, in aereo. Siamo scesi obliqui, come la pioggia di cui tutti hanno letto, attraverso le nuvole e gli edifici disposti in fila: palazzi colorati, un brulicare di automobili, la strada lucida che inanella la capitale e lampeggia di rosso nel buio. Lisbona. Allacciate le cinture, richiudete il tavolino, spegnete gli apparecchi elettronici. Si scende. Si scende e tu stai pensando a dove andremo a mangiare, si vede dagli occhi che fai passare, vagamente affamati, oltre me, oltre il finestrino, si sente dal tuo stomaco che gorgoglia. Si scende e io ho già sonno, immagino solo di stendermi su un divano qualsiasi, sul seggiolino della metro, su un autobus giallo che ci porti a casa. Una casa qualsiasi. Si scende e si sobbalza di nuvole, si scende, si esce e si ha voglia di sentire la temperatura che è sempre più mite del posto da cui si arriva, sulla pelle, sugli occhi, la temperatura del vento che viene dalle palme appena fuori dall’aeroporto. Arrivare. Scendere.

foto di Olga Pavlovska

Si atterra per davvero soltanto qualche giorno dopo.

Alberi, quartieri, cimiteri

Non ce ne sono molti. Sono nascosti in zone impensate della città. Il Dragoeiro parte da terra magro e sottile, poi si dirama, si allarga verso l’alto, come a voler abbracciare il cielo con tutte le braccia che ha, come se volesse avere più braccia, e più lunghe. Ma in punta a ogni braccio, invece delle mani, ha foglie appuntite che accarezzano o pungono l’aria come innumerevoli dita verdi. Dragoeiro, per i latini o per gli scienziati: Dracaena Draco. Può avere fino a 400 anni. È un albero paziente: assiste a tutte le epoche, resiste a tutti i climi, a tutti gli innamorati che passano e si siedono sui rami, agli adolescenti che gli incidono la pelle per lasciare messaggi indispensabili come M+J=LOVE. È paziente con loro, è paziente con i giardinieri che vanno a spuntargli i rami e lo guardano dalla cima della scaletta come un parrucchiere insoddisfatto guarda una frangia storta. Resiste incolume e guarda la gente che passa, ma tutto predisposto verso l’alto. Quello che guarda veramente è il cielo. È nato nel Miocene ed è arrivato al duemilaventidue senza curarsi dei nostri orologi e dei nostri minuti d’anticipo o ritardo, tutto concentrato su una personale scala di tempi geologici che ci supera e ci guarda, ma forse nemmeno ci vede. Ha un metronomo tutto suo che misura le epoche. Fiorisce ogni dieci o vent’anni. E la data della prima fioritura è tra i nove e i trent’anni. La linfa del Dragoeiro, quando esposta all’aria, diventa di colore rosso e consistenza gommosa – per questo si dice che sia come «sangue di drago».

Ce ne sono alcuni sparsi per la città. Qualcuno ha fatto una mappa. Ce n’è uno alla Quinta Conde dos Arcos, a Olivais. E ce n’è un altro anzianissimo al Jardim Botânico di Belém. E ancora un altro, grande, alla Tapada das Necessidades.

Ma il dragoeiro di cui parlo adesso sta in un angolo poco in vista del Cimitero degli Inglesi, a Estrela. Il Cimitero degli Inglesi è sempre chiuso ma, se si insiste un po’, il giardiniere, quando spegne il tagliaerba e sente finalmente il campanello, viene ad aprire.

È un’oasi di silenzio in mezzo al traffico cittadino. Poco più in là del Jardim da Estrela, che è sempre attraversato da bambini imbizzarriti e cani al guinzaglio, il Cemitério dos Ingleses è un rifugio di pace. Un cimitero britannico che fa pensare a Spoon River e che esiste a Lisbona fin dall’inizio del Settecento, quando il Portogallo si prometteva di rispettare, all’interno dei propri confini nazionali, la tradizione religiosa della comunità britannica sparpagliata sul territorio portoghese per traffici commerciali e politici.

foto di Olga Pavlovska

La star del cimitero è Henry Fielding, il famoso autore di Tom Jones, che si studia a scuola. Nel 1754 Henry Fielding, già molto malato, si imbarca su un veliero per Lisbona con la speranza che un clima più ameno possa migliorare la sua salute. Lisbona, per lui, corrisponde forse a un ultimo miracolo possibile. Allo sbarco, però, inizia a detestare tutto e tutti. Scrive che le case, i conventi e le chiese sono molto belli se visti da lontano ma, man mano che ci si avvicina, l’idea di bellezza svanisce in un attimo. Non sopporta l’estrema povertà del popolo, il degrado degli edifici, si lamenta addirittura di quanto gli fanno spendere per mangiare. Imbrigliato in una serie di malintesi con le persone, debilitato dalla malattia e irritato da tutto, nel suo diario di viaggio a Lisbona afferma di essere arrivato alla «città più orrenda della Terra». Muore a Lisbona nel 1754, qualche mese dopo il suo arrivo, e quasi esattamente un anno dopo, il primo novembre del 1755, un terremoto fortissimo e uno tsunami immenso avrebbero completamente raso al suolo la città. Ma questa è un’altra storia.

Nel duemiladodici, con due amici, andavamo quasi ogni settimana al teatro degli inglesi. Era lì vicino al cimitero. L’atrio era piccolo e gelido: locandine di teatro appese ai muri, divanetti, ombrelli gocciolanti tutti ammucchiati in un angolo, avventori che parlavano portoghese con l’accento british. Il teatro era in una chiesa sconsacrata. In platea aveva delle piccole poltroncine di velluto rosso e faceva sempre molto freddo. All’entrata, infatti, ci veniva fornita una copertina da mettere sulle gambe. Gli spettacoli erano spesso divertenti, noiosi qualche volta. Il pubblico era variegato: signore impellicciate con i ricci fonati di fresco, uomini in giacchetta con la barba corta, giovani sbrindellati, e noi, con i piedi infangati, che portavamo dentro l’autunno, trascinando foglie coi piedi e scrollandoci di dosso la pioggia. C’erano, negli intervalli, bicchieri di vino rosso e un’aria di teatro retrò che anche se non ti piaceva lo spettacolo, o non ci capivi niente dell’inglese, valeva comunque la pena di andarci solo per stare un po’ lì a respirare quell’atmosfera.

Due pittori e un capilé

Ho leggiucchiato qua e là il libro che mi hai dato. Le lettere di due pittori innamorati. Lei a Lisbona, lui in giro per l’Ungheria. Difficile leggere le lettere d’amore quando non si è più innamorati. Ho infatti smesso di leggerlo. Ma l’altro giorno, passeggiando, i piedi mi hanno portato al loro museo, nascosto dentro al Jardim das Amoreiras.

È un giardino che sta dietro a Largo do Rato, dove gli alberi sono alti e il suolo appiccicoso di frutti caduti. Nell’800 c’erano solo alberi che alimentavano i bachi da seta, che a loro volta alimentavano le fabbriche circostanti. E il museo dedicato ai due pittori, Arpad Szenes e Vieira da Silva, era un’antica fabbrica della seta. Le strade dei paraggi si chiamano Traversa della Fabbrica della Seta, Traversa della Fabbrica dei Pettini…

Il giardino cresce ai piedi del maestoso «reservatório da Mãe d’Água», il più grande serbatoio d’acqua dell’acquedotto di Lisbona, che allunga le sue arcate sul fianco del parchetto. C’è anche un piccolo chiosco, sotto le fronde verdi, che vende il capilé, lo sciroppo di capelvenere che bevevano i bambini di una volta. Bisogna battagliare con gli avventori del chiosco per leggere i quotidiani che stanno sempre lì a portata di mano. Si sorseggia lo sciroppo e si pensa a come sarebbe abitare lì, in quella casa gialla, con vista sul giardino. Oppure in quell’altra, quella verde, con le finestre bianche. E avere un cane da portare a passeggio tutte le mattine, fra gli alberi ombrosi e le panchine degli innamorati.

Prima della pandemia si poteva entrare al caffè del museo anche solo per bere un caffè. Oggi è chiuso. Di tutto il museo mi ricordo solo un quadro. O forse due. Nei dipinti c’era Lisbona e c’era Budapest, quelli di Vieira da Silva colmi di dettagli, quelli di Arpad Szenes tersi, quasi aerei.

Nelle lettere, tra loro, si chiamano bestiolina mia e si mandano baci in ungherese, puszi, puszi, milioni di puszi. Patetici. Si mandano i disegnini, fanno dichiarazioni. Assomigliano un po’ alle lettere tra Majakovskij e Lili Brik, o a quelle tra António José Forte e la sua Amélia. Tutti amanti iperbolici. Ma perché mettere in mostra queste intimità? Perché me le regalate? Non siamo capaci di scriverne altre, magari un po’ meno stucchevoli? Ah, bestiolina cara, drága bichinha, terribile leggere le lettere d’amore, quando non si è più innamorati.

La linea verde

Ad Arroios, in genere, ci si va per motivi politici oppure amorosi. Le persone interessanti di Lisbona, infatti, tendono ad abitare sulla Linea Verde. E spesso ci hanno anche gli occhi verdi come la linea della metro. Arroios, Anjos e Alameda sono i centri nevralgici dell’interesse. Ci sono, quindi, strade che ora non si possono più frequentare per rischi elevati di incontri ravvicinati eccetera. Ma ad Arroios le strade sono infinite, per fortuna.


I motivi politici portano a passare serate nei vari collettivi che si sono stanziati lì. Nelle strade laterali, a destra e a sinistra della Rua Almirante Reis. Ci si va per caricare e scaricare, parcheggiando in doppia fila, sacchi di ceci per la mensa solidale; ci si va per dibattere d’anarchia seduti per terra; ci si va per mangiare una pizza bruciacchiata, giocare a calcetto, bere birre, discutere di femminismi. Ci si va per fare festa, ci si va ai concerti, o ci si va solo perché non ci si ha niente da fare.

Da qualche anno sbocciano anche le librerie sulla Linea Verde. C’è la Tigre de Papel che oltre ai libri – usati e non – fa anche delle belle edizioni e organizza sessioni di vario tipo. C’è la Leituria, che ha un corridoio di attraenti libri usati e qualche piccolo tavolino per un caffè. E anche altre librerie, qualcuna vecchia, qualcuna nuova, tutte zeppe di pagine e di idee.


Lisbone altrui

È uscito da poco un libretto che si chiama Io non sapevo neanche che Marvila esistesse. È stato pubblicato dal progetto Traça, un’iniziativa che si occupa di restituire alla comunità filmati di famiglia dell’archivio della Videoteca di Lisbona in modo da ricostruire la memoria collettiva di chi ci abita, far rivivere posti che non esistono più o che sono molto cambiati nel tempo. Ogni anno si organizza un festival in cui si proiettano i filmati e si creano dialoghi pubblici: sono invitati filosofi, scrittori, cineasti, e vengono intavolati dibattiti con gli abitanti. Nel 2020 è stato fatto il libro che documenta il terzo momento del ciclo «Che cos’è un Archivio?» e racconta la storia del quartiere di Marvila, un quartiere di periferia che ultimamente sta subendo vari cambiamenti. Il libro intercala voci di architetti e di cittadini normali, storie di vita e di progettazione, urbanismo e riflessioni filosofiche sullo spazio che abitiamo e su come ci viene distribuito, elargito e soprattutto sottratto.

Marvila è un quartiere spazioso. L’erba delle rotonde non viene tagliata da banali tagliaerba, ma viene data più ecologicamente in pasto alle pecore. C’è un pastore che si apposta nelle rotonde e le segue lentamente col cappello piantato sul capo. C’è un camioncino carico di patate che passa per le case a venderle porta a porta, come si faceva in campagna, ma le case qui sono palazzoni giganti e colorati, sono case popolari scalcinate, sono strade anonime. La campagna conquista, a tratti, la città negli usi e costumi, ma poi il cemento primeggia su tutto.

Lisbona, centro.

È triste dirlo così, ma il centro, a Lisbona, è come se non ci fosse più.

[Cercare su internet: gentrificazione Lisbona].