Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo la postfazione di Roberto Gerace alla raccolta poetica Verso dove di Lorenzo Mandalis (LietoColle, 2020).


Spira un senso di liquidazione nella prima raccolta di poesie di Lorenzo Mandalis; e insieme pare d’intravedere l’apertura di un solco nuovo, di una via da approfondire. Di passaggi, orizzonti e varchi pare nutrirsi in effetti tutta quanta la sua ispirazione, volta com’è a misurare febbrilmente, col venire e andare delle fasi della vita, la capacità di congedarsi dai propri cieli. Per Mandalis il paesaggio è sempre in un modo o nell’altro un’entità viscosa, che imprime le proprie tracce nei ricordi, nel senso di sé, ma che allo stesso tempo apre ponti che si possono percorrere, lancia corde a cui ci si può sempre aggrappare. Se lo spazio del viaggio è una fune su cui ci si tiene in equilibrio, il tempo è un brodo atmosferico, di volta in volta una mareggiata, una nebbia, un vento, come in Terrazza Mascagni:

C’è questa leggerezza
di funamboli e cime tese,
il volersi protendere oltre la balaustra
di questa ultima Terrazza.
Questo è il valico azzurro
a cui ripenserò nel libeccio dei giorni.

Specie nelle poesie livornesi si avverte il ricordo del Caproni più cantabile, eppure sottilmente doloroso e malinconico: quello del Seme del piangere. Ma, se anche qui ricorrono le apostrofi (agli amici, alla donna, alla madre) e il tema del viaggio che sarà tipico del Congedo del viaggiatore cerimonioso, il più forte influsso, e forse meno evidente, Caproni sembra esercitarlo in una certa curva meditativa delle frasi, nel loro frequente spezzarsi e sussumersi, specie nelle sezioni centrali; nel riepilogare e ribadire le impressioni elementari, le più ordinarie esitazioni. E tuttavia, mentre in Caproni è un’oralità tutta letteraria e finta, improntata all’iperbato, carica di tracce dei classici, nelle poesie di Mandalis assistiamo, sì, all’emergere sporadico di richiami alla tradizione (e però quasi sempre ironici), aulicismi sintattici («sopra questi tetti ignoti procedersi», Poesie londinesi, I), ma secondo una cifra (anche prosodica) molto più distesa e ariosa, in un tono da conversazione non artificiato dall’affastellarsi degli enjambement. Quel che in Caproni era insomma una scultura involuta della sintassi, che serviva a far risaltare più distinta (secondo la lezione ungarettiana) l’eco delle parole nelle chiusure epigrammatiche, qui l’epigramma giunge a conclusione di un percorso forse meno accidentato, ma più coerente nel dipanarsi ordinato e ossessivo delle stesse meditazioni, persino delle stesse immagini: ruotanti tutte attorno al tema dell’identità, della vita come ripetizione variata dell’uguale, della casa percepita insieme come ventre, luogo caldo e gentile della tenerezza, e origine di tutte le illusioni.

C’è, nel succedersi di queste poesie, pure così concrete, così leggere all’apparenza, una tendenza riposta all’astrazione dolorosa e allo scandaglio gnoseologico. Non poche di esse hanno un’intelaiatura quasi sillogistica. Verso Verona, per esempio, è la prima a essere strutturata come una specie di cogito cartesiano, ma declinato alla seconda persona singolare (è un’apostrofe alla madre). In tutti i componimenti iniziali (e non solo in quelli) ricorre infatti molto spesso la fraseologia tipica della recusatio, come già in Autunno di Lucca, dov’è anche in vigore una polemica nei confronti della poesia estatica, con le sue forzature metaforiche, coi suoi gerghi novecenteschi (il “correlativo oggettivo”):

Non so. Ho di queste malinconie io,
non ho santità o preveggenze
né conosco le arti degli auguri
o degli ornitomanti […]

O nella subito successiva, e già citata, Terrazza Mascagni:

Io non lo so cosa sia il tempo
come scada il fiato sul mare
d’inverno.

Allo stesso modo, in Verso Verona, provando a sondare le sensazioni vissute dalla madre in viaggio, l’immaginazione si scontra coi propri limiti, né decide di varcarli arbitrariamente, facendosi forza di presunte prerogative mistiche:

Non conosco quale vapore
la storia acconsentiva tra un bagaglio
e l’altro e quali binari
si stringevano sempre più in uno.
E se ero un pensiero in quella radura
che attraversavi piena di nebbia
e vecchi spettri zappatori
dal finestrino – non posso saperlo.

I due versi finali («e osservi quanto nulla del mondo ti appartenga | se non oggi il tuo posto su questo vagone») sono dunque il risultato di un dubbio metodico agito con conseguenza. Quel che resta delle traiettorie della nostra fantasia, se non di tutti i nostri viaggi, è in fondo il GPS di noi stessi, un residuo appercettivo, un dirsi. La poesia in cui questo procedimento è più evidente, direi senz’altro esibito, è però la prima delle dublinesi, Grafton Street. Cito dal mezzo:

Nessuno mi vede, ma io sono qui dentro
a snocciolare pistacchi, smollicare
pagnotte, sgusciare chiocciole…
io mi dico riuscirò a trovare
la mia giusta pronuncia, mentre tutte
le ostriche mi sibilano in bocca,
e a sorsi la neve mi strozza?
io mi dico…no, non quella domanda,
non di turbare l’universo.
Io mi dico. Sarò un’espressione sola
che sia compatta che sia pure una foglia
foracchiata, pestata, sgranocchiata?
Io mi dico. Io mi dico. Basta.
Basta con queste visioni e revisioni.
Ho bisogno di distrazioni.

Qui il discorso si avvita su se stesso fino alla balbuzie, finché il cogito non diventa una trappola, l’anticamera di un disagio. Non c’è traccia delle punte aristocratiche dello scetticismo montaliano, né dell’ironia tutto sommato risolta di tanta poesia crepuscolare. Nel non sapere non c’è alcun risarcimento gnostico, nessuna saggezza superiore di cui avvantaggiarsi. Già in Autunno di Lucca, che in questo senso, anche per la posizione in apertura, ha valore programmatico, quel che rimane è soltanto «un sentore […] | un leggero dolore | per qualcosa che non sa durare | più di un’ora.» Solo scavando dentro questo spazio, e dicendolo, se ne percepisce la fondamentale insufficienza – ed è così che il “tu” compare puntualmente per colmarne il vuoto:

Quando ogni maschera cede e tu sei
l’ultima parola da pronunciare
– ultima prima di che? Dopo di che?
solo l’ultima – forse ecco in tutto questo vapore
e fumi di condense e caminetti d’osterie
la mia poca certezza.

L’amore è in queste poesie una presenza a volte sotterranea, spesso tematizzata, ma ogni volta necessaria. Le sue apparizioni non pertengono però al campo dell’esotico, né esibiscono ascendenti metafisici, patenti teologiche: anche nei viaggi più avventurosi, nelle più eteree derive dell’immaginazione, quando pronuncia i nomi di “città lontane”, la parola della donna è più che altro un portolano, una forza della terra e della concretezza, che va presa alla lettera, e cioè «senza finzioni d’incanto» (Vorrei cavalcare le tue parole…). La sua sostanza (ed è una marca arcaizzante, che chiama in causa lo Stilnovo) è un fatto innanzitutto mimico: di là dai classici sguardi, che assumono però qui, più che la solita inclinazione salvifica o angelica, tratti piuttosto materni, rassicuranti, persino protettivi («tu che hai gli occhi sereni | e conosci i gondolieri del tempo», La terrazza sul mare in festa), ritorna soprattutto l’enfasi sull’atto del pronunciare, dell’evocare mondi con le parole («Vorrei cavalcare le tue parole | […] | seguirle nel loro esalarsi | fino alle città lontane che pronunci», Vorrei cavalcare le tue parole…; «poi tu pronunci le tue immagini di terra», Verso casa; ma anche «Le sue frasi pronunciate all’agente immobiliare», Il contratto). L’antenata più prossima è la Beatrice del Paradiso, che discetta di teologia mutando l’ardore della guardatura, ma con continui sconfinamenti tra la musa meteorologica («elencami i nomi dei cicloni e degli anticicloni», ancora La terrazza sul mare in festa) e l’amica d’infanzia.

Quello del “pronunciarsi” è forse il più grave travaglio di queste poesie, come si è già visto nel ricorrere della formula cartesiana del «mi dico» («io mi dico riuscirò a trovare | la mia giusta pronuncia», Grafton Street). Ne La siepe, che è una specie di manifesto poetico che prende a piene mani tanti spunti da Leopardi e Pascoli, salvo poi smarcarsene, ci si presenta la tamerice come allegoria non solo di un credo poetico, ma di una postura esistenziale:

La mia siepe è la tamerice.
Un arbusto che non sa pronunciarsi.
Insicuro nel suo erigersi
sbilenco. Il progettatore
avrà pensato che non valeva
la pena di star lì a prendere
misure, a far troppi calcoli.
La bellezza toccherà altrove,
si sarà detto.

Il “pronunciarsi” fa insomma tutt’uno col prendere forma – e l’identificarsi nella pianta col non saperne o non volerne assumere una fino in fondo. L’arbusto è insomma figura dell’adolescenza eterna, della poesia come fantasticazione «con le mani in tasca»: l’immagine è rimbaudiana e torna con insistenza (Livorno è così intima e musicale…, Grafton Street, La mareggiata, Posti che non sono più posti). Anche nelle rivisitazioni mitologiche della tradizione il punto di vista è sempre quello ingenuo dell’infanzia («Avverto della tenerezza nel dover affrontare le cose dei grandi», Il contratto), degli animali («sono già come il granchio | che tra gli scogli s’inombra all’arrivo dell’onda», ibidem; «La mia casa è nell’occhio di un cane», Grafton Street), delle piante («Sarò un’espressione sola | che sia compatta che sia pure una foglia | foracchiata, pestata, sgranocchiata?», Grafton Street), del cosmo intero (Poesie londinesi, II):

Ho legami
disturbati con l’alto: facilmente
mi disloco nel silenzio di Giove,
nella preda d’Orione, e credo
di guardarvi da certi pianeti
dopo secoli di buio

Dove si vedrà la traccia di un minore illustre della nostra poesia, il naturalista Pier Luigi Bacchini. In tutta la raccolta fanno la loro comparsa varie volte molti dei non-luoghi della postmodernità, come l’aereo, l’aeroporto, il treno e persino, in uno dei passaggi più lievi, ironici, il negozio Ikea; né manca il loro inquadramento, che fa il verso, con un ghigno amaro, al linguaggio giornalistico, in quella “generazione Erasmus” che dà il titolo all’omonima poesia – che è anche quella in cui i fatti terribili dell’attualità traguardano in maniera più torva, sia pure con voce ovattata, distante («Alla radio parlano di Nizza | di un colpo di Stato fallito in Turchia»), concorrendo a colorare d’altro nero il nero del finale, fra tutti il più cupo: «Penso di non essere mai stato | così straniero alla vita.» Ma mentre la Storia con la maiuscola si presenta come improvviso accesso dell’incomprensibile e gli andirivieni della vita ci catapultano a getto continuo nella vertigine della provvisorietà, il senso di perdita che ne ricaviamo non è mai un sigillo apocalittico. Lo sforzo è semmai quello di sbrogliare il filo delle somiglianze, l’ordine delle «costanti | da ratificare» (Poesie dublinesi, II): di racchiudere in ogni esperienza il cerchio di un’intimità.
«I grandi autori non parlano di tenerezza», si dice ne Il contratto. Altra dichiarazione di poetica, altra mimata recusatio. O ancora (I tetrarchi):

Non ho loriche.
Non stringo else d’aquila.
Non ho che un piccolo fragile impero
fatto di pinete e granchi.

Diverse sono le immagini riprese dall’Odissea (in particolare in Verso casa e in Stansted Airport) e da Dante (il Sabato all’Ikea è una vera e propria catabasi, in cui Minosse è un dipendente che, benevolo, indica la strada da seguire), ma non c’è alcun’epica da vantare: queste fonti sono semmai sottoposte a un lavoro continuo di desublimazione. L’esito è un umorismo pacato, autoironico, ma non per questo privo di punte dolorose. Fin dall’inizio («Ho di queste malinconie io»), denunciandone il sentimento più tipico, la raccolta s’inscrive piuttosto nel genere dell’elegia. Cito da Livorno è così intima e musicale…:

Mi dico
non è poesia questo abbraccio
al concludersi dell’estate
ai Pancaldi, al limite massimo
della terra, nell’inginocchiarsi
dei promontori quando il vento
torna disturbatore di forme
e i bagnini incappucciati chiudono
le cabine verdi, sigillano
un grigio inquieto di mare
tappano con i teli scoloriti
gli scogli, i granchi, i più pallidi
pescatori.

Come nella migliore tradizione elegiaca, l’idillio viene colto nel momento in cui inizia inesorabilmente a tramontare. Qui i bagnini fanno il paio coi «gondolieri del tempo» de La terrazza sul mare in festa – sono «incappucciati» come cerimonieri funebri, angeli della contingenza, che «sigillano» e «tappano» i momenti della vita. Dall’inizio alla fine del canzoniere quello che seguiamo è il tracciato di una crescita, di un tentativo di maturità in un corpo a corpo con la «freccia del tempo» (Un matin nous partons) e con la propria identità – né è un caso che le poesie siano infilate in ordine quasi strettamente cronologico. Col procedere dei componimenti la prosodia si fa più regolare e limpida, la sintassi più scandita, come a voler mimare il ritmo di una saggezza che va irrobustendosi; o di una rassegnazione alla transitorietà («Io so che ora nessuno è a casa | che assomigliamo tutti al girovago | di Bosch costantemente in fuga» , Ho apparecchiato il tavolino). Così ogni ritorno è un’occasione per fare i conti con un senso di allontanamento, di inguaribile incompletezza (Pranzo toscano):

Pensai allora ai miei ritardi,
a come difficilmente sono in sincronia
con l’età che mi si richiede.

C’è un’alterità inviolabile nel cuore stesso della nostra vita, che noi fingiamo di conoscere in tutte le sue sedimentazioni, ricapitolandole in forma di ricordi (Posti che non sono più posti):

Strano che del tempo
rimangano solo i compendi
i riassunti, le epitomi.

Più volte per tutta la raccolta il cielo è apparso come un corpo stratificato, schiarito da una «luce sbucciata» (Ogni tramonto la sua intimità…), perennemente battuto dal «bianco suono del vento» (Appartenenza). Solo verso la fine appare cavo come una caverna, come una culla in cui distendersi («e non ricordo per quale motivo il cielo | mi apparisse allora tanto concavo» , X agosto), come un destino da cui farsi anche precedere, in cui sentirsi finalmente a casa:

Se sia riuscito a trovare
la chiave del tempo in quella via
o la porta per arrivare ad una vita diversa
non mi è dato sapere. Ogni cosa da allora
ha comunque trovato il modo di raggiungermi.

È proprio dell’arte consumata il sapersi fermare un attimo prima: di ogni vero artista lo smettere l’opera, ancora più che il cominciarla; se è vero, come sostiene Giorgio Agamben, che la prima prerogativa del potere di un creatore è saper scegliere quando non disporne,[1] allora la grazia è nelle poesie di Mandalis questo continuo affacciarsi dal di qua della lettera del mondo, coi suoi corsi e ricorsi ironici, verso i gerghi sospetti, le metafore equivoche della trascendenza, sempre tenendosene al riparo, magari per mettersi «sotto le coperte» (Natale) o, nei momenti più difficili, per rinchiudersi in una cogitazione («Io sono qui dentro | […] | Nessuno mi vede, ma io sono qui dentro» , Grafton Street); è in questo accarezzare e insieme svilire le mitologie (Sabato all’Ikea):

Alla fine – mi sono detto –
c’è più futuro in uno di quei divani
che in tutte le mie malcerte visioni
di ombre e cose scadute. Sono questi oggetti
le nostre allegorie, gli scenari a cui aspirare:
la sera, il divano, la televisione, i cuscini
le lampadine da spegnere
prima dei sogni.

«C’è un che di scaduto» in molto esotismo cerebrale della poesia del Novecento, ci dice Mandalis, in queste visioni di «cormorani gabbiani e alcioni…» (Verso casa). E in Autunno di Lucca la «circumnavigazione muraria» è «troppo lirica da dire», la «corrispondenza» tra due anime e il paesaggio può essere «scontata», perché anche la poesia ha bisogno di pudore. Così, in Ogni tramonto la sua intimità…:

e mi chiedevo se era possibile
una vita di affiches, manifesti
vacanzieri per croceristi,
queste altre possibilità di vita
tra un’amaca e il cocco, il fianco
azzurro di ballerine e occhi ardenti.
C’era un bel modo di fingersi
lontani, e il gioco in fondo stava già
tutto in quell’incanto

Perché i veri poeti giocano a fare la poesia; e i veri viaggiatori giocano a viaggiare: se c’è «una fiaba nascosta nel mondo», sì dovrà pescarla col «retino» (Un matin nous partons).

Lorenzo MandalisVerso dove, Faloppio, LietoColle, 2020, € 16.



[1] G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo, 2014.