La casa, e con essa la famiglia nucleare eterosessuale che più frequentemente la abita, è considerata da lungo tempo il primo luogo dell’oppressione maschile sulle donne, soprattutto da un certo tipo di femminismo perlopiù bianco (un pensiero leggermente diverso avevano le femministe nere come bell hooks per cui la casa era invece un luogo di resistenza rispetto alla società razzista che ne stava fuori). Ereditando buona parte delle analisi politiche delle femministe marxiste degli anni ’70 e ’80, è abbastanza comune nei collettivi e negli spazi di lotta sentire parlare di lavoro di cura, lavoro riproduttivo non retribuito, dell’istituzione familiare come funzionale al gioco del capitale. Non serve andare troppo in là con la teoria e arrivare a Silvia Federici, Mariarosa Dalla Costa – tra le esponenti più importanti della tradizione marxista di cui prima – per arrivare a rivendicazioni femministe che si muovono su questi termini. In tempi recenti anche prodotti più pop, come il fumetto Bastava chiedere di Emma, diventato un piccolo caso editoriale, affondano le radici in una trattazione teorica di questo tipo rendendola fruibile a un maggior numero di persone grazie al mezzo comunicativo.

Se siamo infatti già brave e bravi a elaborare i condizionamenti sulla vita delle donne a partire dalle dinamiche di potere con l’altro genere, nella sfera sentimentale-sessuale – quindi compagni, fidanzati, mariti – negli ultimi anni poco ci siamo soffermati sull’analisi del rapporto con “il primo uomo della vita di una donna”: il padre. Ed è proprio sul rapporto padre-figlia che si concentra il breve saggio di Katherine Angel Bella di papà. La figura del padre nella cultura contemporanea, recentemente pubblicato in Italia da Blackie Edizioni nell’ottima traduzione di Veronica Raimo e Alice Spano. Un testo che si inserisce in modo coerente in tutta una scia di prodotti (film, serie tv, libri tra fiction e non fiction) conseguenti all’evento spartiacque che è stato il MeToo nel femminismo degli anni ‘10. È probabilmente errato ricondurre la genesi di Bella di papà al solo MeToo – Angel viene dopotutto da studi di femminismo e psicoanalisi che interrogano da tempo le relazioni genitori-figli – ma è da quella sensazione di spaesamento e di messa in discussione che l’autrice fa partire il suo testo:

«In quei mesi orribili, estenuanti, in cui i media riportavano quotidianamente i sistematici maltrattamenti subiti dalle donne da parte di Harvey Weinstein, mi sono ritrovata, come moltissime altre, a discutere e a interrogarmi sugli uomini del mio passato: ex ragazzi, ex stalker, ex molestatori, ex palpeggiatori. Io e le mie amiche […] Stavamo mettendo in discussione tutti gli uomini delle nostre vite, tutte le forme di potere patriarcale. Eppure era raro che nominassimo i padri».

Come Angel stessa afferma, se è vero che dopo gli anni ’90, quelli della grande ventata di empowerment – purtroppo non ancora superata – si è tornato a parlare di femminismo e liberazione delle donne nei termini di lotta contro il patriarcato, è proprio del patriarca, del capo famiglia, e degli effetti della sua autorità nelle nostre vite che ci siamo dimenticate. O, meglio, se la lotta femminista che riempie le strade trova bersagli alla luce del sole, lo scontro intimo con il proprio padre resta invece privatizzato nel «regno dei problemi personali». Soprattutto in un momento storico in cui non solo la famiglia resta ancora un’istituzione che la politica ha tutti gli interessi a proteggere, ma in cui i «padri civilizzati» – usando un’espressione di Valerie Solanas citata da Angel – vengono eccessivamente lodati. «Eppure, volenti o nolenti, i padri detengono un potere inquietante, sia che rivendichino sia che rinneghino il ruolo patriarcale che si ritrovano assegnato dalla storia».

Bella di papà si muove così tra riferimenti culturali, passato e contemporaneità, finzione e realtà, delineando una nuova prospettiva sulle disfunzionalità della figura paterne e delle sue conseguenze. Perfettamente esemplificativi del percorso analitico di Angel sono, infatti, da una parte le dichiarazioni di Donald Trump sulla figlia Ivanka; dall’altra il remake del 1991 de Il padre della sposa di Steve Martin. In entrambi i casi notiamo l’omesso, ciò che la società si rifiuta di accettare. Se infatti è facile riconoscere a una donna i cosiddetti daddy issues – espressione che è anche il titolo originale del saggio – e quindi della sua voglia/tendenza a cercare uomini che le ricordino il padre, difficilmente riconosciamo come problematiche certe esternazioni più da spasimante e/o amante geloso, tanto sono radicate in un rapporto padre-figlia culturalmente determinato. Si chiede così Angel: «ma le daughter issues dei padri?».

Da una parte Trump, che ammette candidamente un certo tipo di attrazione nei confronti della figlia («Ho detto che se Ivanka non fosse mia figlia, forse la corteggerei!»); dall’altra, nel caso del film, il discorso di un padre affranto nel vedere la sua bambina abbandonare il tetto di casa. Non è importante riportare passaggi del monologo del personaggio di Martin, comunque citati da Angel all’interno del testo, perché ripetono qualcosa che potremmo facilmente ricostruire a intuito: il padre che infantilizza la figlia nonostante la sua crescita, la sua morbosa preoccupazione nei confronti di una sua possibile attività sessuale; in ultimo, lo struggimento nel doverla cedere a un altro uomo. Il tutto seguito dalla programmata reazione intenerita da parte dei partecipanti e delle migliaia di persone che nei decenni hanno visto il film. Così, come molte questioni di genere, vedi la violenza sessuale e/o domestica – univocamente condannata e riconosciuta solo quando si conclude in un femminicidio – anche la morbosità di questo interesse paterno viene fortemente disapprovata solo quando si compie nell’incesto – anch’esso affrontato in alcune analisi di Angel. Se è ovviamente e fortunatamente vero che non tutta la gelosia porta poi all’abuso, essa è una reazione tanto comune da meritare quanto meno a una delle tante domande sollevate dal saggio:

«[…] La frequenza con cui si verificano abusi sessuali su adolescenti, e l’onnipresenza del tema «teen» nella pornografia, suggerirebbero che la maggior parte degli uomini sappia cosa significa desiderare un’adolescente. L’orrore del padre davanti alla sessualità della figlia non è forse la rimozione dell’orrore che prova verso la propria insensibilità alla questione?».

Nella seconda metà del saggio, Angel utilizza poi la sua formazione psicoanalitica per approfondire, attingendo alle teorie di Donald Winnicott, Jacques Lacan e Melanie Klein, anche dal quel punto di vista le relazioni genitoriali e quanto questa abbia poi degli effetti sulle nostre esistenze. Senza che questo debba spaventare – il testo rimane sempre molto fruibile e fresco –, l’intento resta quello di sottolineare ancora una volta come, nonostante non sia affatto facile «fare i conti con le proprie origini» e «prendere in esame la […] famiglia e la sua presenza viva dentro di noi», è qualcosa da cui non possiamo sottrarci se vogliamo provare a districare i nodi che interferiscono con l’espressione di quello che Donald Winnicott chiama «vero sé». Se per Winnicott l’aggressività e lo scontro sono uno strumento fondamentale per riuscire a rendere la madre «reale» e quindi separarla dal suo potere e quanto di questo è interiorizzato in noi, per Angel la liberazione della figlia dal padre passa quindi non solo dal riconoscersi nella posizione di vittima, ma anche di venire a patti con la propria ostilità, concedendosi la possibilità di odiarlo invece di temerlo. In questo territorio di scontro, per Angel la scrittura assume un ruolo per lei fondamentale. Angel si appoggia infatti molto durante tutto il saggio a testi autobiografici di donne, come i diari di Virginia Woolf e le sue riflessioni sul padre e la sorella, ma soprattutto il memoir Legami feroci di Vivian Gornick dove viene tratteggiato il rapporto dell’autrice con la madre depressa.

Non è un caso che molti testi femministi partano dal vissuto delle scriventi, per motivi vari: la necessità di posizionarsi e quindi esplicitare un punto di vista, di parlare di un personale che diventa universale o banalmente di riconoscere in esso, come da slogan, un valore politico. La stessa letteratura delle donne viene spesso tacciata di rifarsi troppo a esperienze e traumi personali, di essere “confessionale” – nell’accezione negativa che spettava a poete come Anne Sexton. Angel stessa non si sottrae dal parlare del proprio “io” e inserirsi in ciò di cui parla, e in un gioco quasi metatestuale all’inizio del libro difende quel tipo di narrazioni («Ma questa insistenza sulle fragilità in prima persona fa passare in secondo piano qualcos’altro, e cioè che la scrittura non è semplice esposizione: è anche protezione. Scrivere è un incantesimo; evoca una persona dal nulla, e costruisce delle mura. Può creare una separazione netta e spietata tra sé e l’altro») e nelle ultime battute ne conferma non solo il potere creatore ma anche liberatorio proprio da quell’attitudine di condiscendenza e cominciare a vivere («La scrittura è […] il luogo dove mi avventuro per sentirmi sola in maniera libera e profonda, per creare me stessa e l’esperienza di me stessa come reale. […] Attraverso la scrittura creo un genitore, un’alterità, il cui volto rimane imperturbabile e che non ha bisogno del mio falso da sé.»).


Kathernine Angel, Bella di papà, Blackie edizioni, 130 pp., 17€