La fontana di Largo Rezzara di giorno non si sente. L’acqua cade muta su sé stessa. Bisogna venire al mattino presto o di notte ad ascoltarla. Per tre anni ha accompagnato le mie colazioni, prima che timbrassi il cartellino, accendessi i computer, attivassi le porte scorrevoli e la musica che uccideva il rumore della fontana. Ora è notte. E altri tre anni sono passati dall’ultima volta che sono stata qui. Sono seduta sullo scalino della libreria, la schiena appoggiata alla vetrina, sotto ai portici; accanto c’è la cesta con le copie del Libraio che qualcuno deve avere dimenticato fuori. Di fronte a me, oltre la fontana, c’è la chiesa di San Leonardo. Non ci sono mai entrata. Ma conoscevo don Barnaba, che sembrava essere scappato dal Rosso e il Nero di Stendhal. Ricordo una sua frase: «Se mi dicessero che ho la possibilità di far resuscitare Gesù Cristo una seconda volta, o Montale, io sceglierei Montale». Era un uomo piccolo, aveva gli occhi azzurri pieni di un’intelligenza trattenuta. È morto nell’estate del 2017.

Alla mia destra c’è piazza Pontida, da cui si dice che Mazzini arringasse alla rivolta contro gli austriaci; a sinistra il porfido di via sant’Alessandro sale fino alla porta omonima, una delle quattro ancora presenti, che apre le Mura venete che circondano Città Alta. Vicino a dove mi trovo, c’era sempre un ragazzo di colore con la giacca pesante e il cappuccio calato sulla fronte. Anche d’estate. Piazzava davanti ai passanti la mano per chiedere soldi con l’aria incazzata, non parlava mai. Magari anche oggi è stato qui. Mi sento in pericolo. È una zona rossa, ammalata. Per questo ho scelto di venire a quest’ora. Mi alzo e supero la fontana e la chiesa.

Via XX Settembre, la via pedonale dei negozi, è deserta. C’è solo il mio corpo, immobile da tre anni, all’altezza della Galleria Mazzoleni. Indossa un cappotto verde scuro, in una mano tiene la sciarpa che ha da poco sciolto dal collo, nell’altra il telefono, appoggiato all’orecchio. È fermo perché ha male alla milza, non riesce a camminare. Chiama qualcuno che possa venirlo a prendere. Ha scoperto da poco che esiste la morte. Sente uno sfarfallio nel petto, respira corto, percepisce che le persone e i luoghi che gli stanno attorno si stanno ammalando. Mi butta fuori. Vuole andare via.

Lo prendo in braccio. È diventato più piccolo, più leggero. Non sento fatica. Gli metto alle orecchie le cuffie e scelgo una canzone. La tua fretta, dei Verdena. Lo porto davanti al Lussana, il liceo scientifico che abbiamo frequentato, vicino alla stazione degli autobus. Misuravamo la distanza tra la fermata dell’8 e l’entrata contando il numero dei sacchi a pelo gonfi per terra. Anche ora ci sono, ma molti di meno. C’è una porta sul retro di scuola. È l’ingresso alla palestra dove stavamo tutti durante le occupazioni. Si occupava ogni anno. Prima di diventare una scuola, il Lussana è stato la sede della Gioventù italiana del littorio. Lo testimonia, sulla facciata all’ingresso, la lapide in onore di Sandro Italico Mussolini. Il nostro è stato un esorcismo. La porta è aperta. Sento le dita di Corpo stringermi per un istante il colletto della maglietta. Entriamo. Dentro c’è nebbia, odore di fumo e sudore. I materassi blu sono stesi a terra, tutto attorno mozziconi, palcia scura e bottiglie di birra vuote. Non c’è nessuno. Sul lato opposto, la parete è squarciata. Passiamo attraverso la fenditura, dentro una classe. A un angolo, sotto al planisfero, c’è un uomo sfatto, ubriaco marcio. Deve essersi intrufolato dalla stazione per cercare da bere. Lo lasciamo e saliamo le scale fino al bagno.

S. tiene la porta aperta. «Sbrigati», dice vedendoci. Chiude a chiave quando siamo dentro. Stiamo strette, le nostre gambe separate dal cesso. S. si accende una sigaretta e lo facciamo anche noi, per far vedere che non abbiamo paura, anche se non è vero. È una delle prime volte che stiamo insieme da sole. Non mi guarda negli occhi ma forse sono io che non guardo nei suoi. Le pareti del bagno sono coperte di scritte. Corpo si rannicchia dietro di me, non vorrebbe essere visto. Quando S. finisce la sigaretta getta il mozzicone nello scarico e noi la imitiamo tirando l’acqua.  «Corri, c’è la verifica di filosofia». Non abbiamo studiato. Guardiamo S. allontanarsi e usciamo in via Angelo Maj, accompagnati dal suono della campanella. Fuori un gruppo di professori fuma sigarette, si scalda le mani con il fiato.

F. mi aspetta dall’altro lato della strada, in bicicletta. Sleghiamo la nostra e lo seguiamo. Saliamo per viale Vittorio Emanuele, ampia via alberata bordata da ville sontuose, lascito napoleonico che conduce a porta Sant’Agostino. Ci fermiamo alla Fara, un prato dal nome longobardo che sembra una vela davanti all’ex convento che ora è una delle sedi dell’Università. Alcuni ragazzi stanno giocando a calcio, noi ci sdraiamo sull’erba.

Corpo ha paura di F., sento il suo ventre che si tende. Io so già tutto ma non posso suggerire. Chiudo gli occhi, canto

e dopo tutto non avrò che pioggia che cade con me
e getto le ultime molecole contro di te
e brucia con me l’aria, e brucia con me l’aria

e aspetto che F. si distragga per prendere Corpo e scappare. Continuiamo a piedi, via Porta Dipinta è troppo ripida per farsela in bicicletta. Arriviamo a piazza Mercato delle Scarpe, entriamo nella stazioncina della funicolare e ci sediamo a un tavolino della terrazza del bar da dove si vede la città bassa e si sente quiete. G. è seduto accanto a noi, fuma nervosamente una sigaretta, mostra i suoi disegni, ha le unghie sporche. Corpo batte un piede leggermente contro qualcosa, guardo in terra e vedo la mia chitarra. «Non so suonare» dico e G. dà a Corpo un pizzicotto e una sigaretta. Corpo aspira, io butto fuori il fumo. Andiamo in Piazza Vecchia. La fontana Contarini è illuminata, i leoni veneziani sputano acqua e Corpo si bagna le mani e accarezza le loro teste di pietra, dice che ora può camminare da solo.

Lo seguo sotto il porticato del Palazzo della Ragione. Le arcate svelano l’altro lato della piazza, il duomo, la basilica di Santa Maria Maggiore e la cappella Colleoni. Chiunque passa di qui parla piano, bisbiglia per rispetto alla bellezza. Con G. imitiamo Alain Delon che duella con sé stesso proprio in questa piazza, nel corto William Wilson di Louis Malle contenuto nel film collettivo Tre passi nel delirio. Ci sediamo al banco dei magistrati. G. mi chiede di fare due accordi, lui canta stonato ma si interrompe e scappa via appena sente il primo colpo del Campanone. Noi ci copriamo le orecchie con le mani, per tutti i cento rintocchi del coprifuoco.

Le ombre si allungano, una di queste ondeggia, si avvicina. È Corpo ora che mi prende in braccio e scappa, F. ci ha trovati. Scendiamo per il viale delle Mura. Porta San Giacomo è come una stella cometa, un ciglio che ci cade dall’occhio.  Scendiamo da via Pignolo, Corpo mi indica la fontana del Delfino e il tavolo del bar Perry dove abbiamo passato i pomeriggi a leggere. In via San Tomaso l’ombra alle calcagna si sperde in Piazza Carrara, davanti alla Gamec.

Corpo crede di essere a casa. Io gli dico di andare avanti. Camminiamo fin davanti allo stadio, Corpo mi fa cadere in terra per indicarlo. «È gigante», dice. «Dove mi trovo?». Apro la macchina con il telecomando. «Ti devo portare in un posto». Passiamo davanti alla stazione. «Ti ricordi quando ce ne siamo andati da qui? L’aria era diventata pesante». S. è seduta a una panchina, ha accanto una valigia, ci saluta. «Anche lei è tornata. È diversa. È…».   

Perché no, tu non sei come un fiume che brulica
nessuna gloria
nessuna furia

«È sempre bella».

«Perché in via Gavazzeni? Mi porti all’ospedale?»

Parcheggio la macchina davanti alla scuola. Corpo non è mai stato qui, mi segue. Non capisce. «Perché in una scuola di sera?».

Entra con me in una classe, i banchi sono vuoti, i quaderni aperti. Sono andati tutti via.

«Perché?»

Accendo il computer e mostro il video dei camion dell’esercito che sfilano davanti al Cimitero Monumentale. Sembra un tempio Maya.

«C’è la guerra?»

«La città si è ammalata davvero».

Vediamo dalla finestra la macchina rossa di A. parcheggiare accanto alla nostra. Lo raggiungiamo, ho paura che Corpo stia male, non lo conosce. Invece si affida. Saliamo con lui e andiamo al parco del fiume, all’altezza di Alzano.

«Se continui per questa strada arrivi a Clusone, alla piazza dell’Orologio, all’affresco del Trionfo della morte di Jacopo de Buschis».

«Fa male».

A. chiede a Corpo di aprire la bocca, io mi infilo nel suo respiro.

«Meglio?».

Sento una musica per qualche secondo. Riconosco il Requiem di Donizetti. Si mescola al rumore del fiume, che assomiglia a quello della fontana di Largo Rezzara. Lava la malattia che ho nelle mani e negli occhi. Nel riflesso dell’acqua vedo Città Alta cullata tra le braccia di una ragazza addormentata.

«Sì».