Quando parlo della poesia di Luigi Socci mi piace sempre partire dai suoi titoli. È come se portassero con sé piccole infrazioni linguistiche, ambiguità di significato, strappi alla regola grammaticale o giochi intorno a essa, incontri/scontri col significante, lapsus; insomma tutto quello che potrebbe rientrare nei domini del Witz.

È così anche nel caso del suo ultimo libro, Regie senza films (Elliot, 2020), dove la «s» finale richiama la nostra attenzione al punto che la si sente pronunciata prima che scritta; è come se tutto il titolo finisse lì, su quella consonante, anche la nostra voce. Eppure questa «s» non è una novità in Socci, e la prima volta che l’ho incontrata è stato ne Il rovescio del dolore (italic pequod, 2013): «Fuori dalla portata / lontano dalle fonti di calore / tics e balbuzie vomito singhiozzo / secondo prescrizione». Tics e non tic. Films e non film. La scelta di mettere al plurale un termine straniero che in italiano andrebbe, per regola, scritto al singolare crea in chi legge un momentaneo effetto di sorpresa, che è certamente uno degli aspetti che caratterizza la poesia di Socci e la sua attitudine «teatrale», termine giustamente adoperato da Massimo Raffaelli per descrivere la propensione del poeta a «cogliere il reale da una angolatura smarcata, defilata». Ma a contare non è tanto la risposta al perché ci sia quella «s», quanto la domanda stessa, cui si lega il piacere della pronuncia, che è lo stesso del bambino che gioca con le parole storpiandole o modificando il senso di certe espressioni. Questa particolare propensione, caratteristica della poesia di Socci, trova la sua formula più divertita in Bibliografia fantastica, da cui cito alcuni versi: «Panta rei e altri condizionali», «Messaggini in bottiglia», «Calli da inctura» (questo davvero per intenditori), «Portapene. In poesia / ogni buco è trincea», «Le cronache di Crohn. Catarsi addosso». Regie senza films conferma dunque quel che di ariostesco c’è in Socci, il quale gioca sul serio “rovesciando” il rovesciabile e rimettendolo dritto per mostrarne l’effetto, proprio come fa un prestigiatore che si muove in maniera disinvolta tra il piacere del perché e il perché di quel piacere.

Proprio il tema del «piacere» e quello del «perché» sono a mio parere centrali nella poesia di Socci, ed emergono in maniera evidente nel titolo (già ricordato) del suo libro d’esordio, Il rovescio del dolore, sulla copertina del quale campeggia la Caffettiera per masochisti di Jacques Carelman. Non è un caso, allora, che Regie senza films (in cui Socci ripropone e riordina in modo definitivo anche i testi di una plaquette intitolata Prevenzioni del tempo, uscita nel 2017 per Valigie Rosse) «inizia (quasi come a chiasmo) — è lo stesso autore a dichiararlo — laddove finiva il Rovescio».

Socci propone adesso un’immagine che ha a che fare con l’incompletezza (la preposizione «senza» è importante tanto quanto i due sostantivi che nel titolo precedono e seguono) e su questa costruisce un’opera che ha tutto l’aspetto di una messinscena:

Raccontaci una storia poche storie
non cominciare che non si capisce
non fare come al solito
tuo che dopo finisce che finisce
di quella volta come per esempio
svelto prenditi pure tutto il tempo
che ti ci vuole dillo con parole
tue come puoi come tu sai se vuoi
com’era dai cosa succede poi?

Proponendo la costruzione di un libro come frutto di una regia (o di più regie), l’autore fa un ulteriore scelta: quella di utilizzare insieme espressioni letterarie, cinematografiche e teatrali come Autofiction, Director’s cut e Monologhi e altri dialoghi per voce sola performare le sezioni interne. Per la stessa ragione, le didascalie e certi corsivi e i righi con cui alcune parole sono cancellate acquistano un valore testuale ed espressivo da copione.

Indossando i panni di regista narrante, è come se Socci provasse e riprovasse lo spettacolo dei suoi versi. Leggere Regie senza films è in questo senso, e sopratutto, sentire ancor più di prima la vocalità del poeta; si può correttamente immaginare quella voce in un teatro che dice:

La gente è inverosimile.
La gente è incorreggibile.
La gente non è normale.
La gente come gente
è amatoriale.

La gente si fa anche
doppiare per parlare
con voce superiore
all’originale

o su un set: «Visto che non avresti / neanche bisogno di presentazione / non ti presenti direttamente / evitandoti un pizzico d’emozione»; o a recitare per primo una scena: «Ma il sogno non è ordigno / e non sa ticchettare. / Sogno (e son desto) il sogno / che ci viene a svegliare».

La direzione dei soggetti interpreti, concreti e astratti (la gente, i pronomi, la voce, l’amore), nei luoghi e nelle situazioni pensate è sempre provata su se stesso, perché questo gli consente di tenere insieme il dualismo costitutivo della sua poesia, che è scritto e orale, letterario e performativo, autoriale e attoriale: «Tu sei / il personaggio che dice io / perché sai / che / chi lo dice / lo è. // […]».

La varietà che ne deriva, da un punto di vista squisitamente situazionale, è la proiezione sul piano poetico del processo di montaggio della pellicola plurale che Socci dirige, in cui la vita e il pensiero si avvicinano e si allontano per camminare l’una di fianco all’altro nell’ultima sezione del libro, L’amore vince sempre (e non fa prigionieri), quella più letteraria e narrativa, e anche quella più “commerciabile”: il solo film che si potrebbe realizzare in una sala cinematografica. È allora indicativo che Socci citi in apertura di questa sezione la parte iniziale della celebre formula con cui Alfred Hitchcock riassume Vertigo, «boy meets girl», insieme al titolo di un libro del 2010 di Silvio Berlusconi, “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio”. Il risultato dell’accoppiata di un maestro del cinema e del patron della TV commerciale farebbe pensare a un ulteriore effetto comico, eppure in questi versi la regia di Socci è attenta alla «obbligatorie / tà dell’azione lirica», come si legge nella poesia proemiale della sezione che «Non so se si capisce ma è una dedica». Attraverso un calibrata intertestualità, ne L’amore vince sempre (e non fa prigionieri), l’autore porta avanti congiuntamente descrizione degli eventi ed esortazioni amorose in versi, quest’ultime scritte in corsivo; riflessioni a mo’ di controcanto del vissuto introdotte sempre dalle forme verbali «diamoci», «diamola», «ren / diamoci». Il monologo serrato e frammentato («diamoci il nulla / osta / diamo / ci un aut/aut / diamoci il ben / servito arren // diamoci») che va formandosi e al quale si assiste suggerisce, però, qualcos’altro. La sensazione è infatti quella di trovarci di fronte al discorso amoroso che parla secondo l’idea di Roland Barthes, ma qui in versione voice-over. In questo ulteriore “adattamento” del verso, l’amore nasce così come finisce, senza fare, appunto, prigionieri. All’innamorato non resta allora che prendere tutto e poi riporlo, perfino con un po’ di fretta:

Questa buca sbucata da chissà dove
scavata da chissà chi
per rimetterci dentro qualunque cosa
alla rinfusa e subito richiusa.

Elimina ogni parte di te.

Pensaci bene prima di pensare.

La “fretta” di questa poesia-explicit mi ha fatto pensare a Maurice Blanchot quando sostiene che un’opera è tale non perché la scrittura giunga necessariamente a un termine, ma in quanto chi scrive dice basta, interrompendo così il flusso infinito della scrittura. C’è dunque una decisione da prendere. Perché in base a quella decisione, l’opera sarà una e non un’altra. Come a dire che l’esistenza di un’opera porta con sé una parte mancante, una “as / senza”; che un’opera esiste quando la scrittura è interrotta e che l’interruzione della scrittura è una scelta, qualcosa che per di più ha a che fare con il disastro, il quale è sempre dalla parte dell’oblio. In «Questa buca sbucata da chissà dove» si sente che anche per Socci la fine è decisa, repentina, e forse anche un po’ disastrosa, ed è lì, proprio lì, che l’opera inizia ad assumere pienezza di significato. Il chiasmo è fatto.


Luigi Socci, Regie senza films,
Elliot edizioni, 102 pp., 15€