Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione ragiona con Sergio Pasquandrea, autore di Sono un deserto (Lietocolle, 2019).


Caro Sergio,

uno dei (pochi) viaggi in treno di questo rientro agostano mi ha permesso di leggere e saggiare il tuo Sono un deserto. Diversamente da quanto mi accade troppo spesso, il tuo libro ha coinvolto il me lettore, non soltanto il me critico: l’ho infatti sentito affine per stile, tonalità, poetica e organizzazione macrotestuale. È questa somiglianza, ho pensato, che ci può allertare su possibili limiti della scrittura in proprio, perché per quanto proviamo a lottare contro i nostri bias, ci è comunque più agevole guardare al nostro operato con maggiore indulgenza rispetto a quello altrui. Forse ciò si deve al fatto che scorgiamo con più trasparenza i nostri limiti nel simile, perché il simile rimane pur sempre altro-da-sé, permettendo distanza e rispecchiamento al tempo stesso.

Lo stile è quello – asciutto ed elegante, neoclassico e riflessivo – che fa passare il primo Magrelli per Fortini (o viceversa – e non a caso l’epigrafe a p. 21 è proprio di Fortini). Il sentire di fondo pessimista, pronunciato con un ghigno trattenuto (“Anche i discorsi per fortuna / girano alla larga dal centro”, p. 13 – ho sottolineato la locuzione avverbiale attitudinale), oscilla fra l’ultimo Sereni e Larkin, col Montale di Satura sullo sfondo, nonché una tangenza puntuale con Roberto R. Corsi (“di noi per fortuna non resterà nulla”, in Cozza III). Questo porsi discretamente nel solco di una tradizione che stempera confessionalismo con razionalismo (e viceversa), fedeltà al dato fenomenico minimo e generalizzazione speculativa, permette di comporre testi concettualmente corposi, scolpendovi il proprio sentire individuale – hai qualcosa da dire senza dover ricorrere a macrotemi netti o prestiti strutturali da generi altri. È proprio questa attitudine che – al netto di una indifferenza austera verso l’innovazione e l’eccentricità linguistico-compositive – allontana ogni sospetto di manierismo. Allora il “deserto” del titolo può anche valere, in una accezione positiva (quella negativa la metterò in luce poi), per “pulizia”, “essenzialità” che permette di vedere sé e gli altri (“nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso”, recitano infatti quei versi indimenticabili di Sbarbaro, che riscattano la connotazione di aridità con quella di lucidità stoica).

Veniamo ora a una disanima più puntuale. Il titolo della prima sezione, “Ultime”, può essere inteso letteralmente, vista l’aridità di vena che avevi confessato sui social; oppure, meno drammaticamente, nel senso di “poesie più recenti”. A ogni modo, il suo essere posto in limine rimanda a un’ironia simile ma di segno opposto rispetto a quella di Frasca, che ha intitolato “Prime” un’antologica che copre ben trent’anni di produzione. Questa tua “Ultime” contiene i testi, spesso monostrofici, più in equilibrio fra riflessione e lirica, quelli meno inquadrabili se non all’interno del discorso che essi stessi articolano. Mi pare la sezione più alta e duratura, anche se occorre aggiungere che alla base di questo mio giudizio c’è un’idea piuttosto circostanziata della funzione poetica: quella di un io lirico che, spesso mediante un “tu” autoriferito e quindi distanziato dall’analisi, “coglie” la realtà circostante e la universalizza indirettamente, senza staccarsi dalla propria immanenza o contingenza.

L’inizio, il primo verso, è perfetto nella sua semplice perentorietà: “casa è dove chiudi gli occhi”. Il termine “casa” non viene innalzato ad archetipo (non è “la casa”), perché la pronuncia parlata, senza articolo (“dove c’è Barilla c’è casa”, per intenderci) evita la modalità mitica a favore di quella mimetico-realistica, per usare le categorie di Frye (infatti dopo appaiono le “piastrelle” e il “grès”). Eppure un’interpretazione che si richiami all’archetipo non è fuori luogo: luogo regressivo, del ritiro, ricreazione dell’utero, al riparo dalla storia, dallo scorrere del tempo (“Lì c’è vento qui le pagine / restano ferme negli anni”) così come dalle “teorie del tutto” (p. 13). Di sfuggita, mi piace notare che come il tuo libro si apre con “casa”, il mio si chiude con “casa”, sempre usato in chiave realistico-mimetica: altra spia, forse, di quell’affinità che sento e di cui ho accennato all’inizio di questa lettera.

Alcuni rilievi sparsi, ora. Le chiuse sono a volte sentenziose nel senso di una gnome illuminante, come i bellissimi e veri “mai avevi giocato con tanta grazia / come ora che deponi le forze” (p. 14) – altro segno di un classicismo composto, di una fiducia nella forma organica. Talvolta la secchezza dell’enunciazione ricorre al verso-frase, come in “Ottobre” (“Sono quelli comunque gli spazi. / Io avevo te fra gli occhi e la pioggia”, p. 15) o “Herbstreisse” (p. 16), dove il punto fermo genera anche cesure a metà verso, con un ritmo di cemento subito rappreso, argine all’emotività. L’incombere della vecchiaia (“De senectute”, p. 17) viene concettualizzato come un travaso di sostanze, sangue e carne (“Hai per mano la tua carne / e il travaso comincia ormai / a pendere in negativo”) – transfert metaforico che mi ricorda quello, più esteso, che verso la fine del Gattopardo racconta la morte del principe di Salina, in cui l’energia vitale fugge via a ondate.

La seconda sezione, “L’area di Broca”, ha testi che in parte continuano lo spirito della prima sezione, sebbene siano più spiccatamente centrati su un tema a priori che varia di poesia in poesia, che sia esso “L’inaccessibilità del noumeno” o “Le mani”. L’intellettualismo del primo titolo è sconfessato dal desiderio sensibile, dalla gioia dell’immanenza: “i fenomeni si mostravano nel loro splendore / nei culi che disegnavano curve perfette nelle sedie” (p. 23) sono versi che magari offenderanno qualche sensibilità “progressista” o di un femminismo assai superficialmente inteso, ma che trovo coraggiosi nel dire del desiderio e del nesso forte fra erotismo ed estetica. Anche qui ci sono riuscite di tutto rispetto: la summenzionata poesia, o “Le mani”, e perfino le numerose metapoesie (“Apofasi”, la montaliana “Le mauvais mots” da confrontare con “Le rime”) hanno aspetti interessanti perché tengono al guinzaglio il rischio retorico con abbassamenti repentini e rauchi (“Tacciano i poeti / le parole si facciano piccole / cadano stecchite le ali”, p. 31, ultimo verso messo in evidenza da me). “Autoritratto con cranio di volpe” (p. 30, titolo da confrontare sia col fortiniano “Paesaggio con serpente”, sia con altre tue prove ecfrastiche in “Approssimazioni o convergenze”) rilancia l’idea della secchezza ed essenzialità di cattafiana memoria, con tanto di osso (“aderendo il più / possibile all’osso”).

Non mi sento attrezzato a percorrere nello stesso dettaglio la terza sezione, “Compagni”, perché l’uso del dialetto di San Severo mi permette di avvicinarmi solo alla traduzione (opportunamente di servizio, posta in calce). Continua la spigolosità del sentire, ma si carica di tinte ancora più basso-realistiche (e tuttavia mai comiche), di violenza che coinvolge i campi semantici degli animali e del corpo: “le volpi che fanno schiattare i cani arrabbiati”, “una guancia graffiata”, “l’aria soffiarti da parte a parte / svuotarti come una zucca”, “ti fanno raddirizzare gli occhi”.

La quarta sezione, “Battigia”, è quella più apertamente di impegno “civile”, anche se – di nuovo in modalità metapoetica, e forse con in mente Adorno – dichiari che “Oggi volevo scrivere una poesia / su un bambino morto. / Era in realtà una poesia / su di me che guardavo un bambino morto” (p. 45, e anche, in una poesia più di occasione e meno riuscita, “Non ci riesco proprio / a fare poesia politica”, p. 51). Nonostante il letteralismo non lasci scampo, girando il più possibile alla larga non solo dal simbolismo ma anche dallo sfumato del non-detto (e qui, anticipo in sordina la mia prima critica: il deserto è anche fortezza, chiusura stoica non abitabile dal lettore), qui tu tocchi un punto importante, sul quale mi sono trovato a riflettere a lungo: una poesia eticamente vigile non può permettersi di cadere nel tranello mimetico, immedesimandosi a buon mercato in esperienze estreme che non si sono vissute sulla propria pelle.

Quello che resta allora da fare è misurarne l’indicibilità per rifrazione, vale a dire scrivendo delle ripercussioni del male rappresentato – sarebbe come, nell’impossibilità di fissare il sole ad occhi aperti, immaginarne la forza accecante guardandone il bagliore sul mare o su una lamiera. Non mi trovo però d’accordo con l’idea, esposta dall’io poetico, che questa non sia una poesia civile: se così fosse, l’aggettivo “civile” andrebbe inteso in senso riduzionista e mainstream – come immediatezza, come un parlare direttamente in nome di qualcun altro. Inoltre, la ricerca di aderenza al proprio sentire porta al rischio di non potersi trascendere, di non osare scardinare l’integrità del soggetto mediante un’apertura che renda il soggetto parzialmente estraneo a sé stesso. Quando – forse come nel tuo caso – si dice che la vena è esaurita, che si è detto già tutto (lo disse per esempio Montale dopo La bufera), forse si dovrebbe dire che il self intellettuale-poetico in cui ci riconosciamo ha esaurito le proprie risorse. Nulla vieterebbe di cercarne o costruirne un altro, senza per questo scadere in un gioco di avatar ed eteronimi tanto alla moda quanto effimeri.

Dico questo in toni abbastanza seriosi, ma nella consapevolezza, vissuta in prima persona, che è facile indulgere nelle proprie certezze “negative”, perché la negatività sembra tanto eticamente quanto esteticamente preferibile al compromesso, alla sorpresa dell’apertura. Proprio questo mi pare il limite intrinseco del tuo fare poesia, così come di due poeti che pure amo, ovvero Philip Larkin e Guido Mazzoni (e l’ultimo Montale): l’analisi corrosiva distrugge quasi tutto ma dispensa se stessa, finisce per autoalimentarsi. Per apertura intendo una capacità – e prima ancora una volontà – di lasciarsi attraversare da corpi estranei, di impersonare voci altre, di non fuggire il rischio della commozione, della retorica. Spia grammaticale e testuale di questa chiusura psicologica è il sistema deittico che usi: il tu autoriferito, o una terza persona indefinita a conveniente distanza di sicurezza (“Chi era partito con le chiavi in tasca”, p. 50) o comunque ritratta extradiegeticamente, senza empatia (l’inquietante “addetto al reparto carni” a p. 61, per esempio). Insomma, retrospettivamente la “casa” del testo d’apertura rischia di diventare un bunker, e trovo sorprendente e significativa l’assenza di folle, di luoghi di transito nei tuoi versi: un deserto che forse denuncia una volontà di controllo, una definizione “tonale” di sé stessi che non ammette incrinature dall’esterno.

Dovrò necessariamente essere breve nell’affrontare l’ultima sezione (“Le cose e gli animali”), perché così vuole la lunghezza della nota, che non permette comunque di soffermarsi a sufficienza né su riuscite singole, né sul miglioramento effettivo rispetto a Approssimazioni e convergenze. Questa sezione nuovamente rimanda a certi testi di Fortini che parlano di bestiole, mantidi e altri insetti. Tali animali sono, per così dire, allegorici, anche se ritratti realisticamente fin nei particolari più scabrosi (per es. “gli intestini bianchi / di un randagio travolto”, p. 58). Insomma, nonostante la menzione della “capra” (p. 64) non c’è l’empatia (troppo antropocentrica e metafisica?) di un Saba, né la fiducia e la pietas di un Pusterla, né la curiosità ottimista di una Marianne Moore. Chiudo la nota riassumendo le due critiche fondamentali che mi sento di muoverti, al netto di un libro in cui mi sono riconosciuto. La prima è quella chiusura – sottilmente, quasi impercettibilmente indulgente – di cui dicevo prima. La seconda è il carattere un po’ troppo “a compartimenti stagni” del macrotesto, con alcuni grandi contenitori omogenei ma senza un chiaro filo di progressione fra l’uno e l’altro, tanto che la sezione in dialetto e quella sulle cose e gli animali sembrano un po’ appese dopo le prime due, più coese fra loro. Forse questa è spia della stessa ansia catalogatrice, di ordine, che vorrebbe assegnare ogni testo al suo habitat anziché tentarne una contaminazione più vitale (e vitalistica).

Sarebbe bello sentire le tue opinioni in merito, per intessere magari un dialogo più ampio.

Davide Castiglione

Valenza, 19 agosto 2019


 

Caro Davide,

innanzi tutto ti ringrazio per la lettura partecipe, articolata e critica, nel senso etimologico, ossia tesa a distinguere e valutare. Rispondo ad alcuni dei punti che hai sollevato; dove non rispondo, è sottinteso che io sia d’accordo con te.

Innanzi tutto i punti di riferimento stilistici: sì, Magrelli lo è sempre stato e Fortini lo sto sempre più approfondendo negli ultimi tempi, insieme a Sereni (che però non so bene quanto mi sia ancora riuscito di integrare nel mio modo di scrivere); Montale è stato per anni il mio livre de chevet (più gli Ossi e le Occasioni che Satura, in realtà) e Larkin l’ho letto parecchio, e anche tradotto.

Circa la struttura del libro: devo spiegare innanzi tutto che, a differenza dei miei precedenti, tutti composti in un ambito temporale piuttosto breve, questo contiene alcuni dei testi più recenti che ho scritto (quelli della sezione “Ultime”, appunto) e alcuni dei più vecchi (quelli di “Le cose e gli animali”, che per la maggior parte risalgono a dieci o quindici anni fa e sono tra le mie prime poesie, diciamo così, mature).

Nel comporlo, mi sono reso conto anch’io delle discontinuità stilistiche e tematiche tra una sezione e l’altra, ma dopo averci pensato parecchio su ho deciso di lasciarle così come sono, non solo per ragioni di varietas, ma anche perché mi pareva ci fosse comunque un trait d’union e una progressione; ovviamente, il fatto che li veda io non implica che li debbano per forza vedere anche i lettori.

Il tema comune è la possibile reazione della poesia di fronte al male, al dolore, individuale e collettivo; tant’è vero che – ma me ne sono accorto solo a libro ultimato e pubblicato – la parola che ricorre più spesso è “sangue“, intesa in senso letterale, non simbolico o metaforico. Ogni sezione, poi, sviluppa il tema in un modo diverso.

La prima, “Ultime”, esprime un senso di – non sono sicuro che la parola esista – “ultimità”, di fine, di spegnimento e insieme di regressione, che tu stesso hai ben colto. De Senectute è, in questo senso, il testo per me più emblematico. È anche la più coesa dal punto di vista stilistico, con quel procedere paratattico, per giustapposizioni.

“L’area di Broca” comincia a sciogliere un po’ quel tono rattratto, a volte quasi gelido, in un andamento più discorsivo.

Le poesie in dialetto de “I compagni”: ecco, questa è la sezione su cui ho ragionato di più, perché in effetti rappresenta per certi aspetti un corpo estraneo. Ma è una linea, quella della poesia dialettale, su cui sto lavorando da un po’, senza essere ancora pervenuto a risultati definitivi. Il punto è che io non conosco bene il mio dialetto, dato che sono cresciuto in un ambiente italofono e ho iniziato a parlarlo più o meno fluentemente solo nell’adolescenza; per di più, ormai ho trascorso più di metà della mia vita (26 anni su 43) a Perugia, lontano dalla Puglia. Quindi, per me il dialetto non è affatto un ritorno alle radici, ma al contrario rappresenta quasi una scrittura alloglotta, come se provassi a comporre versi in inglese o in francese (a volte lo faccio, per diletto o per esercizio). Ciò che mi attrae è che si tratta di una lingua vergine dal punto di vista letterario, e soprattutto che non dispone di parole astratte: tutto vi diventa necessariamente concreto, corporeo, anti-intellettuale. Sull’altro piatto della bilancia, certo, c’è il rischio che i testi siano difficili da apprezzare per chi non conosce il dialetto.

In “Battigia” il male passa dall’individuale al collettivo. Per quanto riguarda in particolare la poesia sulla non-politicità: si tratta di un testo che andrebbe letto un po’ in falsetto, ironicamente, perché è una preterizione in cui si afferma ciò che si sta negando. Quello che volevo dire, in realtà, è che rifiuto la poesia come mezzo per veicolare un’ideologia politica (la “convizione di essere nel giusto” o la “iattanza dell’errore”): se politica può/vuole essere, può esserlo solo come espressione di una posizione individuale, vissuta.

“Le cose e gli animali”: scrivo spesso sugli animali, che per me rappresentano la possibilità di esplorare un’alterità non-antropocentrica. Anche qui, tutte le poesie ruotano ancora intorno al male, al dolore, alla sofferenza nelle sue varie accezioni.

Infine: è vero, c’è in tutto il libro una sorta di impasse, una volontà/tentazione di chiudere le porte e arrendersi al negativo. E, sì, negli ultimi tempi ho un risentimento nei confronti dello stesso fare poetico (anche se in effetti “Contro la poesia” è più un testo contro i poeti, contro certi poeti, che non contro la poesia in sé), che mi ha portato a non scrivere più, da mesi. Se sia qualcosa di temporaneo o definitivo, se sia magari l’effetto del valicare la soglia dei quarant’anni, questo lo dirà il tempo.

La soluzione è l’empatia, l’uscire-da-sé, un maggiore vitalismo? Forse. Per ora, mi prendo una pausa.

 

Chiudo con due piccole note.

La prima riguarda a un elemento cui hai accennato, ossia il rapporto con il precedente, “Approssimazioni e convergenze”: un libro che adottava uno stile alto, scosceso, nel quale si sentiva molto (troppo?) la lezione di Milo De Angelis – ma un De Angelis filtrato attraverso la nitidezza visiva di Valerio Magrelli – o di certa poesia francese. È un’esperienza che mi è servita, ma che considero ormai conclusa. “Sono un deserto” è un tentativo di superamento in una direzione meno algida e più partecipe, più discorsiva.

La seconda è sulle citazioni poste in esergo a ciascuna sezione: invito chi volesse leggere il libro a non sorvolarle perché, per quanto possano sembrare eterogenee (Eliot, Petrarca, ancora Eliot, Brecht, Fortini, Caproni), non sono esornative, anzi ognuna mira a dare una precisa chiave di lettura a ciò che seguirà, e nel loro insieme vorrebbero formare una sorta di sottotesto coerente.

Grazie di nuovo

Sergio

Perugia, 20 agosto 2019