Lorenzo Lotto, Cristo-vite e storie del martirio di Santa Barbara, affresco dell’oratorio di Trescore Balneario (Bergamo), 1524, particolare


Nei mesi recenti, per quanto riguarda l’ambito della saggistica, il panorama editoriale italiano è stato ravvivato da un importante programma di ristampa di parte dell’opera di Carlo Ginzburg. Importante anche perché eterodiretto: promosso in forme diverse da diverse case editrici. Adelphi ha ribadito il portato rivoluzionario, che va ancora oggi ben oltre il settore degli studi storici in senso stretto, di un libro come Il formaggio e i vermi (apparso per la prima volta presso Einaudi nel 1976), dandogli una sontuosa nuova veste di lusso. Quodlibet, invece, ha reso finalmente disponibile Occhiacci di legno (licenziato da Feltrinelli nel 1998, ed esaurito dal 2011) in un formato aggiornato e arricchito da un addendum: una supplementare “decima riflessione sulla distanza” che testimonia l’incessante indagine di Ginzburg – inaugurata dalle sue prime pubblicazioni degli anni Sessanta, ma particolarmente evidente in questo testo spartiacque, per via della sua vocazione “estetologica” – sugli strumenti a disposizione dello storico. Per configurare la propria visione, egli può attingere da tutti i campi del sapere, purché si interroghi su tali presupposti attraverso continui meccanismi di “straniamento”, da intendere alla lettera come scambi di punti di vista.

 

A queste due ristampe se ne aggiunge una terza, passata forse più inosservata ma decisamente cruciale: Centro e periferia nella storia dell’arte italiana. Si tratta di un saggio, tanto breve quanto denso, originariamente scritto da Ginzburg e dallo storico dell’arte Enrico Castelnuovo come parte dell’imponente (e attualmente irreperibile) Storia dell’arte italiana, onnicomprensivo progetto editoriale curato da Giovanni Previtali a partire dal 1979. Officina Libraria ha deciso di ripubblicare il contributo di Castelnuovo e Ginzburg isolandolo in un agile volume economico, per avviare la collana “Storie” (significativamente al plurale, all’insegna di un approccio multidisciplinare). Questa operazione editoriale, in certo modo “estrattiva”, ha senso non solo perché rivivifica un testo quasi dimenticato; è giustificata dalla natura dello stesso, dalla sua impostazione e dai suoi scopi.

 

L’ipotesi che all’analisi del fatto storico si possa giungere da strade molteplici trova in questo libro non solo una conferma, ma addirittura uno sforzo – riuscito – di sintesi. Sintesi ma anche confronto, fra il ruolo dello storico e quello dello storico dell’arte, concretizzata nell’equilibrio della scrittura a quattro mani. Castelnuovo e Ginzburg impostano le loro argomentazioni in cortissimi paragrafi, scegliendo però di non attribuirvi le rispettive paternità. Le mani, dunque, si confondono, mescolando felicemente gli stili dei due autori. Sta al lettore scioglierli infine, se vuole, tentando di identificare la voce di ciascuno, magari riconnettendosi a letture pregresse, e riattivando così un circolo di corrispondenze tra l’intera produzione di Castelnuovo e quella di Ginzburg.

Questo intrecciarsi degli stili di scrittura rispecchia, come un’impostazione di metodo, uno dei propositi della collaborazione fra i due autori: che la sinergia fra l’approccio storico e quello storico-artistico possa, in ogni caso, arricchire entrambi. Tale auspicio sottintende il presupposto che la storia ha bisogno, per essere scritta, di volgersi alle immagini, e che la storia dell’arte non può prescindere, statutariamente, dall’inscrivere l’indagine del fatto artistico negli orizzonti più vasti delle molteplici narrazioni storiche. Ben lungi dall’essere soltanto una microanalisi, il saggio di Castelnuovo e Ginzburg mette alla prova i limiti dello specialismo oltranzista; gli studiosi che non avvertono la permeabilità di ogni confine disciplinare sono, per citare un adagio di Adorno, figure «tanto indispensabili quanto insufficienti»[1].

Tali posizioni si manifestano nella scelta degli di dedicare un saggio intero – nell’ambito di una generale Storia dell’arte – a un problema a prima vista molto specifico: il rapporto tra la nozione di centro e quella di periferia, e la sua incidenza sulla circolazione di artisti e opere d’arte in un contesto affatto particolare come quello italiano (per molti versi staccato, indipendente da quello europeo). Per Castelnuovo e Ginzburg la questione, pur specifica, è tutt’altro che marginale; la constatazione che le dinamiche di relazione fra artisti, committenti e pubblico siano state determinate per secoli, in Italia, da un’opposizione, non dialettica ma rigida, fra centri (dominanti) e periferie (dominate), obbliga a riportare attenzione, per l’appunto, sui margini.

Ginzburg viene spesso associato alla cosiddetta microstoria, ma egli stesso, nella nuova prefazione (che scrive da solo, poiché Castelnuovo è scomparso nel 2014), si distanzia da questa facile equazione. In questo caso, per occuparsi di centro e periferia senza percorrere corsie preferenziali, si rende indispensabile un doppio sguardo: costantemente rivolto sia alla singola occorrenza storica sia alla storia in quanto tale.

Proprio così mettono a fuoco la loro visone Castelnuovo e Ginzburg: proponendo anzitutto ricognizioni storiografiche nel complesso e ponendo problemi generali, per poi soppesarli – e verificarli – nel particolare, con una serie di esempi utili al lettore per orientarsi.

Il territorio dell’indagine viene mappato fin da subito, mettendo per così dire tutte le carte in tavola alla prima mano. Gli autori citano un brano di Kenneth Clark, eminente storico dell’arte inglese (tratto da un saggio del 1962 significativamente intitolato Provincialismo), che squaderna in tutta la sua problematicità la posta in gioco. Clark sostiene infatti che «uno stile non si sviluppa spontaneamente in un’area vasta. È la creazione di un centro, di una singola unità da cui proviene l’impulso» (K. Clark, cit. a p. 15), istituendo così un nesso fra stile e centro. Per Castelnuovo e Ginzburg si tratta di una sovrapposizione troppo netta, e si domandano: se solo l’elaborazione di uno stile artistico, di un linguaggio figurativo facilmente riconoscibile, configura un centro artistico, come si definiscono le aree e le situazioni eccentriche? Prive di stile? Una simile impostazione, si direbbe monocentrica e stilistica, ben salda in molti snodi della storiografia, ha contribuito, secondo gli autori, ad associare i luoghi e i fenomeni marcati come periferici (da qualsiasi punto di vista: storico, sociale, culturale) al ritardo artistico; le aree e gli artisti che non subiscono l’influenza di un centro artistico di riferimento, appaiono letteralmente indeboliti.

Il monocentrismo stilistico è rovesciato anche dalla peculiarità del contesto italiano, storicamente – e per Castelnuovo e Ginzburg pure ontologicamente – privo di un unico centro unificatore. Il loro libro è leggibile anche come un’interrogazione radicale sulla liceità dell’utilizzo del concetto di stile (e di stili come linguaggi perfettamente cristallizzati) per interpretare il fatto artistico quando si sviluppa parallelamente – ed è il caso dell’Italia – in tanti centri diversi, egualmente importanti.

 

Il sospetto verso lo stile ben si spiega con alcune consuetudini della storiografia artistica italiana, e con i loro effetti a lungo termine. All’inizio del saggio, Castelnuovo e Ginzburg ne mettono a nudo due, sacrificandone volutamente l’ordine cronologico.

La prima è rappresentata dalla sistemazione della storia dell’arte italiana in “scuole” pittoriche, imbastita da Luigi Lanzi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. L’abate Lanzi era un fine erudito legato agli ambienti della corte del Granducato di Toscana; sulla scorta di Winckelmann, decise di riscrivere l’evoluzione dello sviluppo artistico della penisola con un modello che superasse l’impostazione biografica di stampo vasariano; il risultato: tre edizioni della Storia pittorica della Italia (1792, 1795-1796, 1809), libro rivoluzionario che per la prima volta cerca di «tessere separatamente la storia di ogni scuola» pittorica italiana (L. Lanzi, cit. a p. 18), adottando un criterio storiografico generale e soprattutto sovraindividuale.

Ai meriti di Lanzi (che comprese della sua Storia aree geografico-artistiche fino ad allora trascurate, come la cosiddetta “scuola lombarda”), Castelnuovo e Ginzburg aggiungono le critiche alla sua concezione. Stendendo una tassonomia dei pur molti centri artistici italiani, l’erudito considerava le zone eccentriche «come adjacenze delle primarie» (L. Lanzi, cit. a p 19); paragonava i centri propulsori, con metafora teatrale, ad attori protagonisti che «sempre rimangono se non in azione, almeno in esempio» (L. Lanzi, cit. a p. 24).

 

Nel modello di Lanzi la ripartizione tassonomica assume una valenza non solo gnoseologica ma normativa: i tanti centri sono i luoghi da cui si propagano, come suggeriva Clark, gli stili autentici, mentre le eccentricità, seppur contemplate, hanno minore importanza. Questo perché, secondo gli autori, in Lanzi «i due criteri, quello stilistico e quello politico, spesso coincidono, perché ogni scuola presuppone un centro, che è un centro anche politico. Talvolta però divergono» (p. 23).

Nella sovrapposizione di stilistico e politico, la nozione lanziana di “scuola” è connotata come un antenato del concetto di stile artistico, inteso come marca troppo netta e passibile di dissolvere le diversificazioni dei linguaggi figurativi. Il concetto di stile dovrà attendere ancora molti anni per liberarsi di quella che, in accordo a Castelnuovo e Ginzburg, è una vera e propria cifra politica.

Per un uso rinnovato del concetto, che tenga pienamente conto della polarizzazione centro/periferia, è utile rivolgersi – suggeriamo – a Jacob Burckhardt. Il grande padre della storia culturale non rifuggiva lo stile, anzi ne diede una definizione straordinariamente sintetica e globale: «Lo stile: il linguaggio architettonico delle forme nella sua totalità, dalla disposizione fino al minimo dettaglio»[2]. Per Burckhardt il concetto di stile è uno strumento efficace purché sia “situato”, ovvero non inteso in senso astratto e metafisico ma ogni volta riferito alle sue origini storiche e culturali. Non a caso Burckhardt è stato il primo ad aprire alla storia dell’arte le porte della storia della cultura ampliandone gli orizzonti, e promuovendo una sintesi fra indagine storica tout court, descrizione stilistica delle testimonianze figurative di un’epoca e teorizzazione estetologica. Premesse, quelle della Kulturwissenschaft burckhardtiana, che appaiono prossime al piano di lavoro di Castelnuovo e Ginzburg, laddove tocca il tasto della storicizzazione dello stile.

 

La seconda consuetudine storiografica è incarnata da Giorgio Vasari. Gli autori infatti individuano la genesi del problema appena posto in una serie di «questioni di lunga durata» (p. 36), intrinseche al policentrismo italiano; tra esse, in ambito storiografico spiccano quelle sparse nelle Vite vasariane (apparse, lo ricordiamo, in due edizioni: 1550, 1568).

Come si è accennato, Vasari fa storia con la biografia; narrando vita, opere e morte degli artisti che ritiene più importanti egli istituisce una gerarchia, non solo tra maestri (celeberrima è la terna che informa la “maniera moderna” della pittura: Leonardo, Raffello, Michelangelo) e minori, ma anche fra artisti (validi) di città e artisti (mediocri) di provincia. Gli artisti maggiori gravitano intorno alle grandi città, Roma su tutte, «spinti da una specie di inarrestabile tropismo» (p. 47); fuori dalla città vengono relegati gli artisti che non hanno più successo nei contesti urbani che contano, oppure si sviluppano diacronicamente realtà artistiche che non riescono (non possono, per Vasari) essere aggiornate sui canoni cittadini.

Secondo Castelnuovo e Ginzburg, se Luigi Lanzi depotenzia le “adjacenze”, è perché il “tropismo” di Vasari collega la periferia a «riflusso e ritardo» (p. 61).

 

Dopo queste premesse gli autori portano molti esempi, vòlti da una parte a spiegare i fattori che le hanno determinate (è stupefacente, per il lettore che non consce bene la storia, la ricognizione degli squilibri territoriali italiani modulata sull’istituzione e la soppressione delle diocesi vescovili a partire dai primi secoli a.C., che si legge alle pp. 36-39), e dall’altra intenti a rivalutare il peso di circostanze che, nel quadro storico tracciato, sono state recepite giocoforza come marginali, liminari, insolite; eccentriche in senso letterale: distanti dal paradigma del centro.

È il caso – fra i molti che si potrebbero citare – di Matteo Giovannetti, pittore viterbese che nel Trecento trovò una “alternativa” nella corte papale di Avignone, «doppia periferia» (p. 124) lontana dall’Italia. O del Piemonte del primo Quattrocento come «regione di frontiera» (ibid.), incrocio e catalizzatore di stimoli artistici di provenienza eterogenea.

Tra i fatti più clamorosi, alla portata di tutti per la celebrità del protagonista, è la parabola artistica di Lorenzo Lotto nella prima metà del Cinquecento; un pittore che per realizzarsi dovette trasferirsi, perché mai trovò il posto che gli spettava nel suo centro artistico di riferimento, all’epoca Venezia. Il posizionamento di Lotto smuove alle fondamenta la teleologia vasariana: escluso dai maestri nella narrazione delle Vite, è stato riconosciuto fra essi come un unicum e post mortem, proprio in virtù di un esilio perpetuo (dalla gioventù a Treviso fino alla maturità nelle Marche, passando per Bergamo) che gli ha permesso di sfuggire a ogni logica di accentramento, e di trascendere forse la stessa opposizione centro/periferia.

 

Nonostante questo libro a quattro mani sommi le forze di uno storico dell’arte e di uno storico, il portato dei suoi temi e problemi lo accosta persino alla riflessione teorica. L’intento di inserire il fatto artistico in dinamiche legate ai suoi luoghi di origine e ai loro rapporti di posizione, senza però considerarli da una sola angolazione (geografica, storica, politica o sociale che sia) è raffrontabile ai ragionamenti sul “posizionamento” del pensiero occidentale del filosofo (nonché scrittore d’arte) Hubert Damisch, e che egli stesso ha chiamato «esercitazioni topiche»[3].

Damisch sostiene che il pensiero filosofico non debba fermarsi alla speculazione, ma approfondirsi mediante un “collocamento” delle proprie risorse; il concetto non nasce da solo, e soprattutto non nasce nel nulla: «Se è vero che la filosofia […] si definisce innanzitutto come produzione di concetti, […] ciò presuppone che si presti attenzione non solo alle forme che questa produzione può assumere, ma anche ai luoghi, reali o fittizi, dove essa ha luogo e che non potrebbero restare ininfluenti nell’ordine del discorso»[4].

Fra questi luoghi ha fatto e fa tuttora da padrona, per Damisch, la città, che viene intimamente associata alla visione cartesiana e all’esercizio del dubbio metodico, proprio perché postula l’istituzione di un centro (opposto alla periferia) che corrisponde al sé cogitante. L’intento filosofico di Damisch di “collocare” il pensiero perché il centro, metaforicamente, non se ne impadronisca, trova il perfetto controcanto in quello storico, di Castelnuovo e Ginzburg, di “situare” lo stile perché non rimanga accentrato.

 

In conclusione, è opportuno segnalare il carattere anticipatore di Centro e periferia. Sebbene in nuce, questo breve saggio contiene già quelli che saranno poi successivamente motivi di svolta nell’itinerario di Ginzburg. Egli infatti offrirà un’estesa e puntualissima rilettura del concetto di stile circa vent’anni dopo – precisamente nel già citato Occhiacci di legno – con un saggio che ne considera i risvolti di inclusività ed esclusività; qui dimostra quanto la «tensione tra stile in quanto fenomeno individuale e stile in senso più ampio raggiunge un punto acutissimo»[5], e può sfociare addirittura in teorizzazioni di stampo razzista, come nel caso di Wilhelm Worringer, che analizzando i problemi formali del gotico ne difese, come centrale, la tipica “germanicità”.

Per questa circolarità tematica, nel segno del riscatto dell’eccentricità, le tre nuove ristampe ginzburghiane giovano l’una all’altra; non bisogna marginalizzare quella di Officina Libraria, anzi rallegrarsi che una riedizione possa riportare concretamente un testo al centro.

[1] Parole di Th.W. Adorno, cit. in M. Bortolotto, “Donatoni versus Bach” (1992), in Id., Il viandante musicale, Adelphi, Milano 2018, pp. 353-355, qui p. 353.

[2] J. Burckhardt, Enleitung in die Aesthetik der bildenden Kunst (1863-1872), tr. it. di A. Pinotti, cit. in A. Pinotti, Quadro e tipo. L’estetico in Burckhardt, Il Castoro, Milano 2004, p. 94.

[3] H. Damisch, Skyline. La città Narciso (1996), tr. it. di L. Perrona e D. Nicolai, costa & nolan, Genova 1998, p. 5.

[4] Ivi, p. 20.

[5] C. Ginzburg, “Stile. Inclusione ed esclusione” (1995), in Id., Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (1998), Feltrinelli, Milano 2011, pp. 136-170, qui p. 141.


 

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Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, Centro e periferia nella storia dell’arte italiana, Officina Libraria, 2019 pp. 168 18 €