La grande macchina da scrivere collettiva nel cortile di Palazzo Te

Una nuova giornata si apre su Mantova; La Balena Bianca ha ormai preso confidenza con gli ingranaggi della grande macchina del Festival, eppure fin’ora ha sempre seguito percorsi già stabiliti, decisi a tavolino. Oggi potrebbe essere giunto il momento di provare a perdersi tra le strade della città, lasciandosi guidare dalle diverse suggestioni che di volta in volta s’imporranno (con la consapevolezza che, almeno a metà giornata, un impegno «istituzionale» la richiamerà all’ordine).

Quest’anno al festival, lo si è già accennato, il parco di autori italiani – e magari anche giovani – non presenta particolari motivi di sussulto: le voci più nuove e originali (Giovanni Montanaro, Francesco Targhetta, Giorgio Fontana ad esempio) sono limitate a pochi e purtroppo marginali eventi. Il campo dove però il festival sprigiona tutta la sua potenza di fuoco è quello della letteratura straniera: non solo i grandi nomi, noti a tutti, che provocano file chilometriche, ma anche – ed è l’aspetto più interessante – campioni di piccole nicchie di lettori, la cui venuta in Italia, insignificante per il grande pubblico, rappresenta invece un’occasione unica per chi ne conosce i libri, i personaggi, la voce inconfondibile.

Il primo incontro in cui ci si imbatte è un esempio perfetto di questa dinamica festivaliera, e colpisce ancor di più perché l’autore in questione è a noi – ahinoi! – ancora sconosciuto. Etgar Keret è rappresentante della nuova linea di narratori israeliani (sponsorizzato addirittura da Amos Oz…). La sua scrittura si discosta dai temi e dalle formule espressive tipiche della tradizione nazionale (Olocausto, legami generazionali, sentimento identitario…) e il suo personaggio, la sua figura reale riflette limpidamente questo anticonformismo. Ironico, spigliato e senza alcuna remora nel dire le cose come stanno: i suoi grandi padri sono i capisaldi della letteratura moderna, ebrei e non, scrittori e intellettuali che inibirebbero ciascuno dall’intraprendere la strada della scrittura. E infatti non è quello il ruolo che Keret sente di poter assumere: meglio porsi in una posizione esterna, ribassata, magari anche deresponsabilizzata, sulla scorta di Singer, Babel e della grande linea degli scrittori della diaspora. La posizione di chi scende dal piedistallo per parlare con le persone. Meglio infatti è raccontare una storia che, pur con tutta la profondità che la cultura ebraica non manca di far trapelare, faccia ridere il lettore, trasportandolo in una dimensione parallela e fantastica (magari abitata dai personaggi che ognuno di noi ha inventato nelle bugie che ha raccontato). Saranno il paradosso e il rovesciamento a metterci faccia a faccia con una verità inaspettata, spiazzante (ad esempio, mentire non è sempre un grave peccato).

Etgar Keret, al centro

La scoperta di Etgar Keret indirizza bene la giornata che continua con un impegno oncordato da tempo: una tavola rotonda tra i bloggers ospiti del Festival. Si tratta di un incontro a porte chiuse, i cui contenuti per il momento è meglio tacere, vista la riservatezza che necessitano scambi di opinioni su temi caldi e delicati: la coscienza di classe di chi scrive di letteratura (e cultura tout court) sul web, la necessità di elaborare nuove modalità che conferiscano autorevolezza al discorso di chi si presenta al lettore senza titoli materialmente spendibili (lauree, dottorati, esperienze editoriali…), la possibilità di creare  progetti culturali che connettano il mondo virtuale della rete con quello reale delle persone e delle cose. L’idea di fare rete sembra trovare tutti concordi, tuttavia i temi sono spinosi, le idee sono tante e non sempre convergenti. Servirà tornare a rifletterci con più calma, a bocce ferme (come si suol dire), a mente fredda. Ma il sasso nello stagno è stato gettato.

La fatica di intervenire in prima persona, pur se al riparo dagli occhi e dalle orecchie indiscreti del pubblico, impone una pausa di riposo: in una sala stampa dove si incrociano scrittori e interpreti intenti a rispondere a un’intervista telefonica, giornalisti che continuamente rilanciano aggiornamenti e tweet, segretarie che impazziscono dietro alle richieste degli accreditati, ci godiamo la serenità di un caffè, sul sottofondo della diretta di Fahrenheit di Radio3 da Piazza Alberti. Giungono alle orecchie i gossip di giornata (un vacuo Ligabue che ieri sera ha risposto alle domande altrettanto vacue che gli ponevano, tramite Twitter, fan estasiati in collegamento streaming con Piazza Castello), le prime acidissime (e pretestuose) polemiche rivolte all’organizzazione del Festival (vedi alla voce Byoblu, ovvero chi farebbe bene a informarsi sulle regole e le dinamiche di Festivaletteratura prima di parlare). Niente però sembra scalfire l’atmosfera frizzante della città che, all’approssimarsi del fine settimana, si prepara ad accogliere il famigerato pienone.

A dover stilare un diario di bordo, però, si rischia di perdere più tempo in sala stampa, a ipotizzare possibili versioni della prossima pagina, che a scoprire le mille e più meraviglie della rassegna mantovana: non c’è tempo di stare di fronte allo schermo, si deve uscire. E dopo due giorni di navigazioni per acque poco note, districandosi tra musicanti che suonano brani della Rue Ketanou sotto i portici di Piazza Broletto e simpatiche signore americane che regalano bottigliette d’acqua ai passanti mostrando orgogliose la propria maglietta blu con scritto “Faithbook – I love Jesus”, La Balena Bianca finisce per tornare a mari più conosciuti, quelli della Milano letteraria (… sarà dura battaglia quella che la porterà a perdere questa identità geograficamente così marcata!).

Giorgio Fontana parla dei propri libri (l’ultimo, Per legge superiore, pubblicato nel 2012 da Sellerio) e di quelli di Hans Tuzzi, scrittore di culto dietro il cui pseudonimo si cela Adriano Bon (tra i suoi ultimi libri Vanagloria e L’ora incerta fra il cane e il lupo), assente all’appuntamento mantovano per problemi di salute. Al centro del discorso c’è Milano come capitale europea mancata, incapace di sfruttare le armi di cui da sempre dispone (prossimità geografica e culturale con le altre metropoli europee, civiltà industriale e terziaria, centro di formazione della futura classe dirigente); ma anche come città che nasconde la propria bellezza allo sguardo che non dispone di pazienza e capacità di contemplazione, città gelosa della propria intimità ma che, quando la rivela, attrae irrimediabilmente. E la pagina romanzesca non può che riflettere il suo ambiguo carattere.

Dai passi letti da Marilia Piccone emerge l’orgoglio guardingo dello scrittore milanese, che si compiace di citare le strade, i percorsi della metropolitana della propria città – godendo nello spiazzare il lettore ignaro -, che ne conferma anche i «luoghi comuni» (Via Padova come ghetto di violenza e scontri culturali, landa inesplorata e sconosciuta ai milanesi), ma che insiste anche nel connotarla come grigia e triste, malinconicamente pragmatica. Quasi che temesse che rivelarne la bellezza attraverso la scrittura e la narrazione significhi comprometterne l’autenticità.

La giovane età di Fontana colpisce gli spettatori (soprattutto quelli più agés), sorpresi da una lucidità che, fatto il netto di alcune facili generalizzazioni, ti aspetteresti da uno scrittore maturo ed esperto. E allora viene da pensare che forse è questo che possiamo chiedere alla scrittura milanese: portare uno sguardo nuovo, diverso perché giovane, privo di griglie mentali precostituite, che sappia mostrare le evoluzioni interne dell’ultimo decennio (leggi immigrazione), ma anche le persone, le dinamiche che innesca la convivenza forzata con l’altro, la difficile ricerca di un’identità forte e condivisa.

 Finito l’incontro con Giorgio Fontana, l’orario sarebbe quello dell’aperitivo, del relax dopo una giornata di avanti e indietro tra la Casa del Bramante e Palazzo Ducale. Eppure c’è qualcosa che ancora manca nell’esperienza di questo Festival, ed è la recitazione, la lettura, più volgarmente la performance dell’autore che mette in scena un testo di fronte al proprio pubblico. E il caso vuole che nella suggestiva cornice di Palazzo Te si inauguri stasera il ciclo del Furioso in Festa: un nutrito numero di scrittori (per citare solo i principali si dirà di Vasta, Benni, Nori, Maggiani, Pariani) reinterpreta le pagine dell’Orlando Furioso nelle sale affrescate della residenza dei Gonzaga. Una voce recitante, scandita dagli altoparlanti, accoglie lo spettatore che meravigliato varca la soglia del palazzo. Qui comincia un percorso alla ricerca di volti e voci che a intermittenza si mostrano e si odono, ora vicini ora lontani. Sono gli scrittori-interpreti che recitano l’originale poema dell’Ariosto o che lo fanno proprio intrecciandolo a un racconto che coinvolge se stessi prima che il pubblico. Ogni sala apre mondi e labirinti, città in cui perdersi, mari in cui immergersi. Il paradosso e la meraviglia diventano conduttori di un’unica energia che passa da autore-lettore a lettore-spettatore – anche se non tutti hanno la stessa capacità di abbandono naïf di Chicca Gagliardo (vedi la lettura piatta di Melania Mazzucco). Il risultato è una versione aggiornata dell’Orlando Furioso, che si fa contemporaneo di Calvino, di Saramago, di Cristina Campo, di tutte quelle voci della letteratura che hanno saputo rivelare la potenza immaginifica di una realtà che sfida la fantasticheria sul suo stesso piano.

È il trionfo dello spiazzamento, degna conclusione di una giornata in cui la flânerie ha rivelato momenti di irresistibile umor nero (Keret), di meditazione generazionale (Fontana) e di abbandono estatico (vogliamo esagerare!).

Questa Mantova sembra non tradire le alte aspettative; la Balena Bianca conserva la guardia alta, fedele al suo spirito sospettoso, anche se il rischio della lusinga si fa avvertire sempre più forte.

Una nuova buona notte

Achab