A essere andata in frantumi, nell’opera di Paolo Steffan inserita nel XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea, sembra essere anzitutto la lingua, «na lengua | incantada che la é drio far frazhun» («una lingua | inceppata che si sta frantumando»), degradata, corrotta, a cui l’autore reagisce con il dialetto della sua terra d’origine: il dialetto veneto della parte nord-orientale della provincia di Treviso. Una posizione che ricorda da vicino Andrea Zanzotto, modello prediletto da Steffan, che ha dedicato al poeta conterraneo una monografia su Addio a Ligonàs, sezione iniziale di Conglomerati (2009), opera nella quale il maestro trevigiano ribadì un’ulteriore riflessione sul degrado della lingua. A questo «vento imbestiato» [1] zanzottiano, Paolo Steffan contrappone una lingua viva, autentica, «una parola che esce da una fonte, che è radicata in un locutore, rivolta all’ascolto di un uditorio che la condivide» [2] e che manifesta un fortissimo legame con «un insieme vivo di parlanti». [3] Una poesia in dialetto la cui «compostezza metrica […] è animata da un ritmo che è quello del dire, e non dell’artefatto letterario». [4] Attraverso questa lingua l’autore descrive quanto il progresso abbia travolto qualsiasi cosa mandandola in frantumi: le piante e il paesaggio, il bene e l’umanità. In frantumi sono i platani «escoriati, mancanti e presto assenti», i «perèr spoi drio le lastre» (i «peri spogli oltre le vetrate»), i pioppi:

Smòrvedi, i talpon.
Col so fià de festuc i sbianca ‘l paeśe
che ‘l se fa ‘n starnudar de bòce e vèci.
“Masa legrìa” l’à dita calchedun.
“Ciol al Chainsaw e taja, taja dhó!”
E i é mòrti, i talpon.

Rigogliosi, i pioppi. | Col loro fiato di festuche sbiancano il paese | che si fa uno starnutire di bimbi e vecchi. || “Troppa allegria” ha detto qualcuno. | “Prendi il Chainsaw e taglia, taglia giù!” | E sono morti, i pioppi.

Le piante che muoiono da un lato e l’asfalto che incombe dall’altro, come testimoniano i nizhiói, le lenzuola che non riflettono più il verde di una natura rigogliosa ma il più nero degli asfalti, o la «Vèrgine Beata», a cui l’autore dice «Senti qua | che razha de spuzhata che la sùfia | su dai sfalti del paeśe, drio èrbe stonfe» («Senti qua | che razza di olezzo che soffia | su dagli asfalti del paese, lungo erbe fradice»), a segnare il contrasto tra un mondo creaturale in rovina e la brutale avanzata del progresso, come viene evidenziato dal seguente testo:

Su l’àrdhen scolorì dei fosai
al me can al snaśa udor de rànzhego
da le vide springade col mal
de licòr pazhi. Rento ‘l nas. Sui pei.
Qua in fra contadin no se dis pi
“Vae spander grasa” o “a móldher la vaca”
no pì “Zherca sto rap dolzh de ua frànbola
sentà dhó sote n’onbrìa de pèrgola”
ma sol che “Cava i talpon che l’é
da meter dhó mila e mila pie de proseco èstra drai!”
(et extra metrum) e po “Vanti dai,
che vae méter dhó schèi altri pie e pai”
e sbanca e sfiaca e i vegnarà dhó
sti pore còi. […]

Sull’argine scolorito dei fossi | il mio cane fiuta odori rancidi | dalle viti irrorate col male | di liquori lerci. Dentro il naso. Sui peli. || Qua tra contadini non si dice più | “Vado a spargere il letame” o “a mungere una la vacca” | non più “Assaggia questo grappolo dolce di uva fragola | accomodato sotto un’ombra di pergola” || ma solo “Estirpa i pioppi che bisogna | piantare millemila barbatelle di prosecco extra dry | (et extra metrum) e poi “Su, dài, | che vado a depositare soldi e altre barbatelle e pali” | e sbanca e fiacca e crolleranno | questi poveri colli […].

In questa poesia Paolo Steffan ci dice che a essere andate in frantumi non sono solo «le viti irrorate col male | di liquori lerci», ma il dire di contadini concentrati solo e unicamente sulle logiche del profitto e, ancora una volta, la lingua, contaminata dalla marca di un prosecco (“extra dry”) in nome della quale i colli possono anche crollare, per via di un male necessario in grado di mettere alla berlina persino i tentativi di una possibile tenuta etica: «e vergognéve de l’òstro ndar | vanti a scuarzhar, a dir mal del piat | ndove che tuti quanti magnen: pa’ vide smòrvede ocor veleni!» («e vergognatevi del vostro continuare | a sprecare, a dir male del piatto | dove tutti quanti mangiamo: | per viti rigogliose occorrono veleni!»). I Frantumi di Steffan descrivono dunque una caduta vorticosa che trascina con sé la condizione umana e le relazioni sociali. Si pensi, per esempio, al testo nel quale l’autore paragona le lucertole a bacìo in un secchio all’umanità imprigionata dalla propria terra, o al male, sofferto dall’autore con l’innocenza di chi sente come il bene sia andato perduto persino nei piccoli gesti quotidiani: «ma gnanca pì un che ‘l me salude s-cèt | o che ‘l me dighe: Bòn» («ma neanche più uno che mi saluti semplicemente | o che mi dica: Bene»). In un simile scenario sorge spontanea una domanda: cosa ci resta? In un mondo saccheggiato e violentato, dove il paesaggio e l’umanità sono andati in frantumi, esiste ancora il bene? Steffan apre una speranza cogliendo quanto di più di nascosto ed essenziale sia presente nel creato, «i fioret dhai de cornolèr» («i fiorellini gialli di corniolo»), le «zhope de ben» che «le à tornà butar» («le zolle di bene» che «hanno germogliato di nuovo»), ed elementi di una religiosità sommesa, «‘l canpanil smentegà del paeśe» («il campanile dimenticato del paese»), una Madonnina che «se desmìsia da bas» (che «si ridesta al piano di sotto»). Sono queste piccole cose a dirci quanto di più prezioso resti a un’umanità travolta da un irrefrenabile progresso che pare aver mandato al macero il nostro habitat, la capacità di stare al mondo, di tessere relazioni gentili, cordiali, non necessariamente profittevoli, e di coltivare una dimensione etica, e sommessamente religiosa, che appare imprescindibile. Per questi motivi i versi di Steffan soffrono e dicono il dolore dei pioppi, dei platani, dei peri e di quel vasto mondo creaturale che l’autore invoca e salva rivolgendo una preghiera:

No sta’, Signor, asarne qua de inprest
inte sto nòstro marzhumèr frazhà.
Dane pitòst co ‘n bèl colpo da mat
an mondo tut s-gionf de sachèr
che i bute rameśèi e ran. Senpre pa’ alt.

Non lasciarci qui in forse, Signore, | in questo nostro rovistato marciume. || Dacci piuttosto con un bel colpo di matto | un mondo tutto gonfio di salici da vimini | che gettino ramoscelli e rami. Sempre all’insù.

Verso la fine della raccolta, Paolo Steffan ci lascia con una poesia che cita nel titolo Petrarca: «Una cosa, infatti, è sapere, e un’altra è amare». Una riflessione contenuta nel De sui ipsius et multorum ignorantia (“L’ignoranza sua e di molti altri”) nel quale Petrarca sferrò un attacco simbolico all’aristostelismo, al sapere scientifico delle università del suo tempo, chiedendosi: «A che cosa serve, domando io, conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, e ignorare e trascurare la nostra natura di uomini, e lo scopo per il quale siamo nati, e dove siamo diretti?» [5] Steffan sembra porsi la medesima domanda nei confronti dell’uomo contemporaneo e di un’epoca disposta a sacrificare qualsiasi cosa in nome delle logiche che la caratterizzano, ricordandoci quanto di più essenziale ci sia rimasto:

Ne rèsta legrìe Ne rèsta ‘l zhigar
de talpon ::: zhiespèr al vurìe ::: ‘l farìe
de ròśe ::: morèr. ‘nte ‘n doman lidhier.
Ne rèsta ‘n zhercar Ne rèsta ‘l fosal
l’incantarse s-cèt al fis-cio lontan
de òci tośatèi. de le ciaciarìe.
Ne rèsta no oler Ne rèsta da oler
la slama ::: ‘l visc na jozha de ben
ste scoazhe ::: schit. incragnà dal mal.

Ci restano allegrie | di pioppo ::: prugno | di rose ::: gelsi. || Ci restano il gridare | il vorrei ::: il farei | in un domani leggero. || Ci resta un assaggiare | l’incantarsi sincero | di occhi bambini. || Ci restano il fosso | il fischio lontano | dei chiacchiericci. || Ci resta non volere | la fanghiglia ::: il vischio | di queste mondizie ::: guano. || Ci resta il volere | una goccia di bene | lerciato dal male.


Note

[1] Andrea Zanzotto, Conglomerati (Mondadori, 2009), pag. 25

[2] Umberto Fiori, Frantumi in XIV Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos, 2019), pag. 263

[3] Ibidem

[4] Umberto Fiori, Frantumi in XIV Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos, 2019), pag. 264

[5]  De sui ipsius et multorum ignorantia, parr. 24-25, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1999, p. 191